La frusta teatrale/X. Scorci e fantocci

X. Scorci e fantocci

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IX. L'enfasi della sterilità XI. Eresie

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Scorci e Fantocci



1. - Il buon tempo antico


Armando Rossi si potrebbe definire il risultato del suo ruolo. È «il bravo attore», come dice il pubblico, e la sua bravura pare l’espressione di una assoluta volontà di naturalezza, di una matura padronanza dei propri mezzi meccanici, che non è tuttavia diventata confidenza con se stesso.

Anzi proporre questa obbiezione è già indicare i limiti e distogliere il discorso da considerazioni non opportune e non convenevoli. La gioviale figura del nostro attore, erede di tutta una tradizione angusta di non ironica sicurezza e di candido orgoglio, vuol essere giudicata nel suo mondo che è l’allegria della teatralità. C’è qualcosa di chiuso nella sua intelligenza, e come il riposarsi nel gioco apprestato e il limitarsi nell’abitudine; per cui all’attore non si concede un solo attimo d’inesperienza. Il suo procedimento di preparazione non è opera di sensibilità o di finezza intellettiva, nè il classico studio dei tipi di Garrick riprodotto poi nella tradizione italiana, con molte [p. 104 modifica]parentesi di declamazione, sino a Novelli. Il suo ideale si appaga nella combinazione meccanica di uno spettacolo di decoro scenico, in cui i particolari e i personaggi si uniformino tutti ad una parca naturalezza, sì che egli vi possa giocare la sua parte di bell’effetto scenico, talvolta anche sforzando leggermente la sobrietà.

Accanto a Zacconi egli curava appunto l’insieme poichè l’esplicazione delle sue doti ha questa virtù, di non impedire nè diminuire l’attenzione che altri vicino a lui voglia svegliare. Armando Rossi infatti non interessa quasi mai il pubblico per la intensità del suo studio, lo diverte invece con la sua rumorosa giovialità, reca, pur rimanendo personaggio laterale, un tono arzillo di teatralità che non ha virtù di umorismo per rendere pensosi, ma si concilia le attitudini istrioniche nascoste nella sottile corruzione dello spensierato spettatore. Ciò è caratteristico della secolare inconcludenza e varietà del nostro teatro che si è singolarmente compiaciuto di coltivare le doti meno austere, e più esterne all’arte, dell’umana vanità.

Per esempio, nel Padrone delle ferriere Armando Rossi può disegnare con calore la sua particina caricaturale mentre il pubblico continua ad interessarsi agli effetti sentimentali che si vengono colorendo accanto a lui. È quasi la persistenza di un frammento di commedia dell’arte.

Altrove, come nella Passerelle o nel Campionissimo, egli conserva solo il dono della ridondanza farsesca o chiaccherona. Del resto i mezzi della sua comicità sono per lo più quelli stessi che sfoggia Zacconi nel Cardinal Lambertini, popolareschi, con una facile malizia dialettale, senza sottintesi: ma gli manca di Zacconi l’ [p. 105 modifica]esuberante mobilità e la pretesa di strafare. Perciò le sue qualità di fretta, di semplicità, di improvvisazione riescono talvolta a contenersi entro esigenze di misura generale e di diligenza e un resto di modestia gli fa considerare con rispetto e serietà il compito di mettere in scena opere meno facili come Gli innamorati o L’ammalato immaginario. Nelle quali egli cerca più l’effetto che la schiettezza, più il decoro che l’ironia, più un tono agevole di caricatura che un gioco complesso di arguzie e di malizie o di sottili equivoci; ma chi oserebbe muovergliene rimprovero vedendolo pacatamente contento dei suoi confini? Qui le caratteristiche dell’uomo diventano caratteristiche dei tempi; di tempi che noi possiamo considerare molto lontani da noi, ma di cui rispettiamo volontieri i limiti quando li troviamo espressi senza penosi infingimenti.


2. - La loquacità del fonografo


Alfredo De Sanctis appartiene idealmente alla generazione di Ermete Zacconi. Dello Zacconi conserva alcune intemperanze veristiche e l’incapacità di rivivere la tragedia come sviluppo di interiore concrescenza sentimentale.

Le limitazioni del suo verismo sono sopratutto evidenti a chi esamini i suoi criteri nella scelta del repertorio. Non ci stupiremo che lo guidi non una preoccupazione estetica, neanche rudimentale, ma un pensiero di convenzionalità di teatro o al più di propaganda morale piuttosto grossolana. Perciò recita gli Avariati, esercita opera di propaganda patriottica (come Zacconi) ricorrendo agli stolidi drammi di Tumiati, e si fa persino ad affrontare [p. 106 modifica]Alfieri, ma in occasione del centenario (semel in anno licet insanire).

Egli ci appare, volendo trovargli misure appropriate, come il buon lavoratore all’antica che si sforza di continuare l’onesta sincerità degli attori-propagandisti del Risorgimento: come Zacconi, egli si studia di far conoscere i principii più inconcussi dell’igiene e della fisiologia, e, ove trattisi di funzioni sentimentali e di drammi intimi, si presenta sempre volentieri come il furbo generoso, spavalde ed eroicomico, che fa trionfare la buona morale cara al popolo. (Colonnello Bridau).

Intenzioni siffatte si sogliono chiamare oneste e serie. E noi non dubitiamo menomamente che corrispondano di fatti all’onestà del nostro attore, benchè non si possa non sorridere quando vi si vuol cercare un valore di eticità sociale, o anche soltanto un intento più lungimirante della cassetta.

Ma si dia come presupposto uno scopo pratico e lo si eserciti secondo una misura che supera la sua funzione, lo si affermi oltre quei limiti empirici che gli sono connaturati, attribuendogli un valore generale: questo si può definire declamazione. Dell’atto si è fatto uno schema, dell’originalità un’abitudine, della passione una retorica.

A questo sostanziale nucleo retorico il De Sanctis è vicino anche più di Zacconi. Perchè il verismo desanctisiano è rimasto fermo a una misura di convenzionalità sì che le forme declamatorie sono anche le più immediate e risapute; invece il verismo zacconiano s’è studiato di prendere aspetto scientifico e ha elaborato esperienze (sia pur soltanto fisiologiche) più varie. Come attore conscio della serietà dello svolgimento drammatico, il De Sanctis [p. 107 modifica] non è superiore allo Zacconi e pare più misurato e più solido soltanto perchè è più superficiale e più preoccupato di evitare le intemperanti esagerazioni, ben lungi dalle sapienti analisi, dalle organiche comprensioni, dalla potenza del mistero e dei silenzi che sono caratteristici del vero attore tragico. La sua tragicità (vedi per esempio Al telefono, L’autoritario, Sperduti nel buio, L’animatore) è fatta di scontorcimenti, di smorfie, di muggiti. I momenti solenni sono sempre rappresentati da un aumento di tono nell’intensità dei movimenti e della voce; questa ci pare una concezione della tragicità un po’ troppo elementare; e se la semplicità può offrire dei conforti non riesce a far dimenticare la monotonia.

Siffatto abuso di mezzi permane fotograficamente identico e continuo. L’opera non viene mai studiata e approfondita, ma ridotta nello schema fatto; per esitare nella condanna si richiede molta candida volontà e gusto per le pacifiche figurazioni popolaresche.

Tuttavia la retorica ripetuta sino a sazietà offre anch’essa i suoi ripari, come uno spiraglio di luce.

La maschera declamatoria trova insperate serietà estetiche quando si chiarisca appena sensibilmente quell’elemento di sforzo di esagerazione che vi è connaturato.

Attraverso tale processo la tragicità vuota e inconcludente diventa vita e concretezza eroicomica, la contraddizione iniziale, fonte di falsità, di stasi, di luogo comune, diventa potenza di umorismo. Così nasce la commedia spontaneamente, embrionalmente, senza precisione di analisi nè comprensione cosciente, con il ricordo del compromesso da cui è sorta.

Nel Processo dei Veleni, nel Colonnello Bridau, in [p. 108 modifica] Rabagas, (opere macchinose, grette e superficiali) egli realizza una sua personalità netta e grossolana, squadrata con decisione. Il propagandista della moralità è diventato il furbo spavaldo, indomabile, intimamente buono, ma giocosamente infingitore, tutto beato di una sua maschera di impassibilità energica, decisa nelle piccole cose come nelle enormi. Per effetto di questo contrasto la comica sguaiatezza della sua persistente e rudimentale fissità stordita si tempera in agevole sicumera.

In Rabagas lo abbiamo trovato plebeo e inebbriato sino all’inverosimile, più di quel che non comportasse l’interrotta fantasia di Sardou. Ma proprio in questo smarrire almeno parzialmente la presenza dell’intelligente misura e di ogni critica possibilità consiste poi tutta la virtuosità semplificatrice di questo attore senza opere, inventore di una loquacità da comizio o da modello fonografico.

De Sanctis si vendica della propria mediocrità rappresentando opere che accanto alla sua statica persona (poco proteiforme se vuol rimanere misurata) mettono in moto un gran numero di attori affacendati ed agitati, dimentichi di ogni pausa riflessiva. L’armonica linea della sua comicità sarebbe quindi nella sicurezza semplice e superiore con cui egli domina le deboli esitanze che si trova intomo E in questo ha la sua spiegazione anche il fatto che il De Sanctis raggiunga effetti notevoli con una compagnia per solito men che mediocre; l’inferiorità degli attori che a lui devono sottostare durante l’azione è un elemento del calcolo oltre che il piccolo trucco dell’impresario. [p. 109 modifica]


3. - Comizio romantico


Abbiamo sempre sentito una mezza tentazione — se non ci proibisse una questione di buon gusto dall’assumere disdicevoli atteggiamenti pedanteschi — di riprendere la vecchia predica interrotta che il buon Eduardo Boutet aveva rivolto a Luigi Carini. Poiché non bisogna attendere più a lungo — da questo che fu esordendo tra: più studiosi ed è oggi tra i meno incolti dei nostri attori - il compimento di quei propositi di gusto e di maturità, che alla scuola di Flavio Andò e durante la vicinanza con la Reiter si vennero attenuando in un rassegnato culto del decoro scenico.

La fama di Carini è affidata prevalentemente alla simpatia del pubblico per certe figurazioni di verismo minuzioso e di magniloquenza più tornita che tragica. Anche i suoi tipi più eccezionali, che meglio son rimasti nel cuore delle folle (l’Abatino del «Cantico», Napoleone di «Madame Sans Gène») sono violentemente espressivi e caratteristici più per il lineare entusiasmo e per la declamazione per cui l’attore aderisce all’assunto che per le risorse del sottinteso o per l’acume della penetrazione vitale. C’è tra l’attore e chi lo ascolta legame di troppa immediata simpatia e, invece della dubbiezza propria dell’artista, comunicazione di reciproca sicurezza che è per l’appunto uno degli aspetti della popolarità. Nè a questa candida franchezza noi opporremo il desiderio di un’espressione contorta o misteriosa;ma ci limiteremo a constatarne esauriti i mezzi e chiusi gli orizzonti, nella rumorosa e scapigliata solennità della maledizione scagliata nel terzo atto [p. 110 modifica] del «Cardinale». E nel delirio che si scatena nella platea riconosceremo appunto le previste manifestazioni fanatiche del comizio bene disposto.

Senonchè Luigi Carini non pare dover essere condannato fatalmente a questa tensione ed esaltazione di accenti: proverebbe una certa attitudine alla liberazione, a tacere d’altro, la stessa varietà del repertorio in cui l’esclusivismo del mattatore s’alterna con ricerche di teatro moderno e tenui esegesi di mondanità: e non è poi tutta sua la colpa se dal teatro moderno riceve più Nigro e Giorgeri-Contri che Pea o Géraldy.

La stessa monotonia e modestia dei suoi mezzi è rassicurante: voglio dire che difficilmente si potrebbe temere da lui l’esuberanza di un caso patologico. Nel suo decoro armonico basterebbe a un certo punto l’accendersi di una sola favilla critica per determinare imprevisti risultati pratici.

Per contro rifacendo negativamente l’analisi obbiettiva delle nostre speranze non nasconderemo i timori che c’incutono l’assoluta famigliarità con cui l’attore consumato usa dei suoi mezzi, e la nettissima percezione che egli ostenta di ogni teatrale vicenda. La chiara bonarietà del suo giudizio, la soddisfatta pienezza della dizione confessano una sicurezza che potrebbe anche rimanere arida. Ma perchè il Carini con la sua intelligenza dialettica e decisa non sventerebbe queste previsioni di equilibrio per darci un concludente superamento della compostezza di salotto, della tragicità giudiziaria, della beffa plateale? La sua personalità non ha bisogno appunto di decisivi e non mediocri cimenti?

E’ vero che tutte le sue doti sembrerebbero esaurite [p. 111 modifica] nella bonaria riduzione del Piccolo Sano e nell’esagerato romanticismo di Sly, dove paragonandosi con Ruggeri. così felicemente melodrammatico ed esasperatamente acuto e sensibile, egli rivela anche i limiti del suo convinto temperamento romantico verisimile; ma non abbiamo avuto poi persino la facile sorpresa di una calda e fine dizione del Trionfo di Bacco ed Arianna?


4. - La superstizione dell’umiltà


In una Compagnia drammatica all’antica, rimasta fedele a Dumas, Sardou, Bernstein, Nera Grossi Carini cerca di riprodurre gli atteggiamenti della Reiter. Ma la sua vigile attenzione non è ancora astuzia penetrante, nè la festosa ingenuità si raffina nell’eleganza. Recitando con un impegno sempre uguale ella riesce alquanto teorica e si ritrova a suo agio in opere di enfasi rimaste incompiute e incomposte di agitazioni sentimentali e di pedantesca mondanità (Francillon, Tutta la verità). Ma forse possibilità più personali si ritroverebbero, a volersi accontentare di episodi, in opere di comicità piuttosto rudimentali come la Piccina, o di violenta meccanica di folle come Madame Sana Gène. Senonchè la caratteristica che potremmo disegnare dell’attrice tenendo presente Sardou attingerebbe più i motivi che costituiscono la sua spontaneità approssimativa di donna che la scaltrezza dell’attrice, oppure dell’attrice scoprirebbe un gioco scenico imitato dalla bravura di risaputi maestri. Invero nella ingenuità della sua recitazione non si scorge ancora abbastanza indifferenza e sicurezza prudente e la sola qualità positiva che da questi esperimenti appaia sarebbe una completa assenza di vizi [p. 112 modifica] cinematografici e di stereotipie statuarie. La sua intelligenza potrebbe dedicarsi con speciale appagamento a sterili e convenzionali semplicismi, donde esuli la molteplicità dell’analisi e della precisa liberazione tragica. La sua sensibilità monotona s’irrigidisce per colpa del repertorio: non si può, finché i mezzi dell’attrice restano immediati’, non essere corrotti dalla stessa diligenza. Applicando un linguaggio che non vorremmo si pensasse romantico, il suo decoro le toglie irreparabilmente la capacità di quegli errori che definiscono decisivamente l’individuo. La sua semplicità, talvolta il suo semplicismo sono coerenti con ciò che il pubblico si attende da lei. Noi temiamo che alla sua intelligenza attenta, alla sua dedizione superstiziosa manchi la virtù sovrana dell’ironia.


5. - Galanteria decadente


Verista (fotograficamente) è il Falconi quando pensa di rappresentare il dolore e la tensione e la composta dignità della tragedia: zacconiano, ossequente al maestro, non va oltre i mezzi fisiologici più freddi (vedi l’ultima scena della Canzone di Rolando).

Figlio di teatro, ne ha tutti i pregiudizi e vi resta fermo, cocciuto, sino a contraddirsi in ogni istante, costretto a tutti gli squilibri e le superficialità dell’immediatezza, e per le sue doti di intuitivo disposto più a divertirsi che a studiare.

Le doti che lo contrappongono a Zacconi, e che potrebbero fare di lui l’artista moderno, sono la leggerezza [p. 113 modifica] elegante del decadente, la melanconica vivacità, l’umorismo fine leggermente pensoso1.

Ora sino a qual punto queste doti sono creazione estetica originale e in quale misura invece scaturiscono semplicemente da una pratica abilità, da una innata leggerezza superficiale, che non avrebbe niente a che fare con l’arte, come non hanno niente a che fare con il comico le qualità fisiche de L’homme qui rit?

Non è dubbio che il Falconi agisca di frequente sul pubblico con mezzi e qualità che si devono riportare senz’altro alla seconda alternativa: le sue interpretazioni più applaudite: Vi amo e sarete mia, La sigrorina mia madre son notevoli (specialmente la prima) soltanto per un brio esterno e per una eleganza di tradizionale innamorato: e a questa stessa categoria di interpretazioni si devono ricollegare i tipi che egli disegna (ma che restano sempre un unico tipo) ne La maschera e il volto, ne La scala di seta, ne La ruota, in Marcella, ne L’infedele, ecc.

Non vede al di là del tipo, non precisa, non anima, e invece meccanizza, isterilisce: nè il pigro Falconi può sostituire la deficiente elaborazione con qualche nuovo prodigio di sensibilità, se la sua sensibilità è nulla più che piccolo borghese.

Tuttavia di certe innate qualità di vivace bravura fanno prova, a tacere d’altro, i suoi studi del Fallstaf e dell’Assalto Invero egli ha rappresentato Le gaie spose di Windsor con dignità e precisione; nobile sforzo se pensiamo che Fallstaf, scroccone gaudente, montagna di [p. 114 modifica] carne, innamorato che specula, è spiritualmente pochissimo vicino alla sensibilità falconiana. Ma la ragione di tale apparente paradosso deve ricercarsi nella logica estetica de Le gaie spose di Windsor, che non sono opera di comicità, ma piuttosto di allegria, e perciò non hanno (nella loro frammentarietà frettolosa) un preciso organismo artistico, non sono poesia. Anche in Fallstaf dunque il Falconi riesce solo a un’opera di bravura eccezionale, ristretta entro i limiti della spensierata giocondità.

Precisando, dovremo dichiarare di riconoscere il vero Falconi nella rappresentazione di commedie come Addio giovinezza, L’uomo onesto, Loro quattro, Come le foglie.

Qui si può effondere il suo esile sentimentalismo di umiltà, di ritrosia ingenua, di melanconia idillica, e se egli vi ponesse lo stesso studio che ha consacrato al Fallstaf, ne avremmo certamente una nuova individualità di espressione scenica, caratteristica della sensibilità moderna. Se pur queste cose non sembreranno molto strane ora che ci si è abituati a considerare in lui soltanto le qualità esterne di bravura e nessuno vuole intendere la sua caratteristica umanità fantastica.

Gli è che in Falconi, come s’è accennato, tra bravura e intimità esiste una separazione non superata; le sue qualità esterne non solo alterano, ma direttamente negano le interiori; la comicità voluta si contrappone all’umorismo autentico.

Questo dissidio siamo disposti a considerare con molto rispetto, ma non possiamo nascondere che dipende dal Falconi il superarlo e che l’essere rimasto al di qua significa lucidamente la troppo tenue adesione della sua intelligenza alle nascoste virtù del temperamento. [p. 115 modifica] Sarà più cauto, avvertiti i limiti dell’animo sventato, lasciare alle sue biricchinate questo incorreggibile corteggiatore di giovani attrici.


6. - Il torinese gentile


Non so quanti ricordino che Giovanni Emanuel sperava dall’ex-impiegato dell’Amministrazione dei Telegrafi più un interprete che un brillante. Di questa dimenticanza non sarebbe equo attribuire tutta la colpa al pubblico.

In verità si direbbe che quasi sempre, dove Ferrerò dovrebbe essere brillante, unilaterale e scapato, facciano capolino qua e là i più composti desideri dell’attore; ma se poi per consolarsi egli osa affrontare l’interpretazione, non riusciamo a liberarci dalla figura spensierata e monotona che il suo ruolo gli imporrebbe. Solo a tale incertezza l’osservatore può far risalire la fortuna mediocre di questo comico che non è certo meno studioso e meno equilibrato di altri assai più in auge, e forse dotati meglio di lui soltanto per qualità meccaniche. E’ mancata al Ferrerò la capacità di decidersi con sicurezza di direttive, è mancata la costanza dello studio, la diligenza organica delle ricerche. Non vorremmo incolpare la sua incontentabilità, ma egli non ha evidentemente saputo trarne vantaggio.

Pareva che volesse prima definirsi come uno dei pochi attori italiani capaci di penetrare senza pedanteria e senza goffa caricatura io spirito delle pochades. Mentre Galli, Guasti, Sichel, ecc. speculavano sulle ardite malizie e sugli spunti equivoci, mentre Gandusio, con una bella felicità di doti fisiche, annullava la commedia e vi [p. 116 modifica] sovrapponeva un tipo sempre identico, fatto di poche astuzie abituali, il Ferrerò intese talvolta la commedia francese nella sua leggerezza e superficialità e la realizzò scenicamente come commedia brillante. Esile compito che recava, per la sua stessa superficialità, pericoli che ii Ferrerò non ha saputo evitare. La leggerezza e la superficialità ripetendosi si ipostatizzano in abitudine; la vivacità diventa maniera o, quando sopravvive, una ingenua immediatezza nervosa che crea appena un attimo di simpatia o di reciproca tolleranza tra attore e pubblico, non l’arguzia severa e diabolica insieme che comporta complessità di elementi comici. Come brillante difficilmente Ferrerò riesce ad essere qualcosa di più che signorile e deve lottare profondamente coi suoi istinti e con la sua pigrizia per non sembrare monotono. Anzi diremo che quella sua signorilità debba essere pagata da una eterna giovinezza e mobilità e non possa consentire per sua natura un momento di stanchezza o di riposo.

Il Ferrerò, che è persona seria e desiderosa di approfondire, s’è sforzato più volte di superare queste qualità negative e questi successi fittizi ampliando il suo orizzonte di studio: Gli innamorati, L’avaro, Così è se vi pare, Come prima meglio di prima, ma non crediamo che abbia saputo mai uscire dai limiti naturali che quasi gli ponevano i suoi nativi istinti di torinese sobrio nell’effusione piacevole, nella misura e nella gentilezza, con un costante ritegno, e negli abbandoni, più studioso di naturalezza che di calcolati sottintesi. Quando si è interessato allo studio dei tipi è riuscito quasi obbiettivo, diligente, ma l’ostentazione di sicurezza non ha nascosto certe fredde meccaniche di previste borghesi costruzioni. E perciò anche se ha [p. 117 modifica] cercato di non seguire la vecchia maniera teatrale, non gli riuscì di darci un esperimento nuovo.


7. - La maschera dello stupore


Nel momento in cui Antonio Gandusio si stava accaparrando i più facili consensi e i più interessati entusiasmi ci fu chi giocò smodatamente su questa fortuna di borsa e di mercato, e Carlo Venezian, il profeta, il Battista, la Pizia del nostro attore, annunciò addirittura un concreto programma di riesumazioni e interpretazioni e c’entravan tra gli altri Molière e Beaumarchais, nientemeno!

Ma Gandusio, con più garbo e con più gustoso scherzo mise senz’altro in cartellone l’«Arlecchino finto principe» e l’«Arlecchino servo di due padroni». Se tale proposito si deve giudicare come maturata scelta e confessione, Gandusio si conosce meglio della sua Pizia. Il nuovo proposito è anzi la più precisa definizione della sua arte: l’autobiografia assume un valore critico. Un giudizio su Gandusio attore infatti che tenga conto dei limiti che egli s’è posto, non può non essere fondamentalmente favorevole: egli è attore della commedia dell’arte. Non è un artista perchè si ferma a ripetere sulla scena un’eterna macchietta: «L’uomo che si stupisce», con una meccanicità di mezzi affatto conosciuta e satura di convenzionalità. Dice Veneziani stesso apologista che «forse una cospicua parte della sua comicità spontanea la deve all’aspetto crucciato con cui dice le cose briose».

Il che val quanto dire che il pubblico ride non «per opera» di Antonio Gandusio, ma «di» Antonio Gandusio; come si riderebbe di un mostro fisico. Siamo — spostati i [p. 118 modifica] termini di dignità della rappresentazione — in pieno seicento; l’arte stereotipia, l’esegesi abilità.

Senza sforzarsi di penetrare nello spirito della commedia che recita egli si presenta al pubblico come un congegno che interessa in quanto compie una serie di atti che ci si aspettano e che suggeriscono simpatia o ilarità per la consolazione di chi aspettava.

I suoi mezzi si dicono in poche parole: la persona è un sacco di noci in perpetuo squilibrio; la voce raggiunge il suo effetto per uno strano contrasto tra il monotono e lo stridulo; la smorfia dello stupore si disegna eguale, sul suo viso prima imperturbabile e fa scoppiare efficacemente l’antitesi.

In questi tratti lasciate che noi riconosciamo un giusto idolo del pubblico, non un artista.


8. - I limiti della sobrietà


Amiamo figurarci Raffaello Niccòli nelle spoglie del discepolo fedele di un goffo maestro che riesce a guadagnare il suo posto conservandone gli atteggiamenti, ma in una giustezza di toni e in un’umiltà di limiti, che sembrano meditati e nascono invece per istinto e per natura col trascorrere stesso degli anni e col venire dalla bottega alla strada, dalla tronfia sicumera del libro alla candida modestia delle confidenze di palcoscenico. Il maestro — perchè il lettore intenda i rapporti che nel nostro discorrere si nascondono — è Augusto Novelli del quale la critica rispettosa deve notare soltanto un fondamentale errore di carriera che ci diede un mestierante di commedie invece che un operaio di pantomime. Maestro e discepolo [p. 119 modifica] sono tipi fiorentini, ma il discepolo nutre ambizioni più prudenti e non che scriverci lente fandonie, modera l’innato filisteismo con una nota di timidezza riservata e conciliante. A svelar il segreto di R. Niccoli giova confessare che egli non è per nulla attore e non saprebbe dove attingere la scaltrezza multiforme che si richiede in chi voglia farsi famigliare con le più tradizionali e inevitabili maschere di tragedia o di giocondità. Nè potrebbesi senza ironia dedicare questa scaltrezza ai consolati passatempi di Novelli, Bucciolini, Forzano e simili motteggiatori. Basta al Niccòli l’astuzia del mestiere che l’Italia del ’700 insegnò per diletto delle genti e che a lui consente di fingere senza troppo compromettersi le onorate preoccupazioni del candido messer Nicia. Ma non bene gli si adatterebbe la spregiudicata vivacità del comico dell’arte, a lui così poco becero e così esitante, così negato alla improvvisazione e alla bravura, che nel giocondo pievano Arlotto volle figurare un malinconico umorista e che sempre ostinatamente nascose ogni parvenza di giovinezza in una maschera uguale di rassegnazione matura. Meglio che un interprete vuol essere un dicitore. Al pubblico ispira simpatia la sua figura ostinata di burbero sentimentale: e nella simpatia si sente la confidenza che viene da quella mancanza di tutti gli acrobatismi e di tutte le bravure che nel monocorde Niccòli nacque da prococe e voluta fermata. In altri termini è più facile trovare in lui la chiusa sobrietà del narratore o la commossa dubbiezza di chi si confessa che le inappagate aspirazioni dell’attore e le vulcaniche esperienze dell’interprete.

Ma quello che sfugge ai più e che lo distingue dal banale sentimentalismo del Novelli autore è il fine [p. 120 modifica] raccoglimento dei suoi affetti, la chiusa malinconia di chi nasconde le effusioni e si accontenta del poco, e appare, prima che verso altri, burbero contro se stesso, per la non mai tralasciata coscienza delle proprie debolezze e ingenuità, e per un fondo amaro di scontentezza che si è proposta di sembrare serena.


Entro gli implacabili limiti che le poneva l’assunto del teatro vernacolo, spetta a Garibalda Niccòli l’elogio della schietta sobrietà. Nel mostrarsi in figure di vecchia brontolona, affettuosa, sarcastica ella ha recato un suo caratteristico sentimento di bonarietà che le interdice i segreti dell’arte della fantasia. La sua disinvoltura è riposante, la sua schiettezza non ha il dubbio della confessione; tutta la sua personalità non offre le recondite esitazioni dell’arte del figlio Raffaello; gli atteggiamenti, non che essere di interprete, non sono neppure complessi. Il pubblico le è grato perchè non lo tormenta in problemi, ed è diventata così chiara ed abituale che persino lo svelarsi e il suggerire un giudizio meno fotografico le sono interdetti.

In quanto alle ripetizioni e alle sue conseguenze, il naturale ritegno ritarda il giudizio nostro e affatto lo distoglie lo stupore con cui mirammo la candida sopportazione degli ascoltatori. La psicologia della noia si studia con un barometro a sorpresa. [p. 121 modifica]


9. - Precetto unico di noviziato: Lasciatemi divertire


Andreina Rossi pare una buona promessa per l’avvenire. Della sua attività presente basterà osservare che trattasi di una dura necessaria esperienza di tecnica e d'abitudine (Dionisia, La Trilogia di Dorina, l’Alba, il Giorno e la Notte, ecc.) in cui avremo già sufficienti prove di gusto e ragion di consolazione se ci sarà dato sorprendere la gioia maliziosa del gioco realizzato nel terzo atto de L’Ammalato immaginario, o, nel Facciamo divorzio, la felice caratteristica della donna puntigliosa, viva di un ironia che è tutta un ingenuità. E’ vero che questi si dovrebbero dire, a voler bene misurare le definizioni, i capricci spensierati della giovinetta festosa; ma solo un pedante se ne potrebbe addolorare quando il risultato è per l’appunto una felicissima vivacità di spunti, e una ricchezza di mezzi brillanti, invano compresi entro gli schemi del canovaccio. Andreina Rossi sa bene che il battesimo dell’arte verrà solo con quei cimenti che si guardano oggi con tremore e con misteriosa suggezione.

Lasciamola dunque divertire: lasciamo che sia ora la fanciulla selvaggia dell’Asino di Buridano, ora la sentimentale pensosa di Scampolo, dove ella si propone addirittura, andando troppo oltre l’esile leggerezza di Niccodemi, di mostrare il nascere di una personalità nella piccola abbandonata. E accontentiamoci di applaudire se il gioco è vario e scherzoso, se invece di false tragedie come La Maestrina o La moglie del dottore ella ci [p. 122 modifica] appresterà con ricchezza vivace sempre più frequenti Eugenie (Innamorati) e Marianne (Avaro). Infatti i viaggi nella storia, checchè riescano a valere per sè, sono sempre salutari a un attrice.


Note

  1. Qualità che appaiono anche in Falconi autore nella Canzone di Rolando: ma corrotte e meccanicizzate nella vecchia aridezza del convenzionalismo romantico.