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-no tipi fiorentini, ma il discepolo nutre ambizioni più prudenti e non che scriverci lente fandonie, modera l’innato filisteismo con una nota di timidezza riservata e conciliante. A svelar il segreto di R. Niccoli giova confessare che egli non è per nulla attore e non saprebbe dove attingere la scaltrezza multiforme che si richiede in chi voglia farsi famigliare con le più tradizionali e inevitabili maschere di tragedia o di giocondità. Nè potrebbesi senza ironia dedicare questa scaltrezza ai consolati passatempi di Novelli, Bucciolini, Forzano e simili motteggiatori. Basta al Niccòli l’astuzia del mestiere che l’Italia del ’700 insegnò per diletto delle genti e che a lui consente di fingere senza troppo compromettersi le onorate preoccupazioni del candido messer Nicia. Ma non bene gli si adatterebbe la spregiudicata vivacità del comico dell’arte, a lui così poco becero e così esitante, così negato alla improvvisazione e alla bravura, che nel giocondo pievano Arlotto volle figurare un malinconico umorista e che sempre ostinatamente nascose ogni parvenza di giovinezza in una maschera uguale di rassegnazione matura. Meglio che un interprete vuol essere un dicitore. Al pubblico ispira simpatia la sua figura ostinata di burbero sentimentale: e nella simpatia si sente la confidenza che viene da quella mancanza di tutti gli acrobatismi e di tutte le bravure che nel monocorde Niccòli nacque da prococe e voluta fermata. In altri termini è più facile trovare in lui la chiusa sobrietà del narratore o la commossa dubbiezza di chi si confessa che le inappagate aspirazioni dell’attore e le vulcaniche esperienze dell’interprete.

Ma quello che sfugge ai più e che lo distingue dal banale sentimentalismo del Novelli autore è il fine racco-