La frusta teatrale/IX. L'enfasi della sterilità

IX. L'enfasi della sterilità

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VIII. Parigi in provincia X. Scorci e fantocci
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IX


L’enfasi della sterilità


Invece di un ritratto di Maria Melato i critici ci hanno offerto sinora le più allegre mistificazioni.

Hanno parlato di lei come dell’attrice che interpreta, senza dirci dove mai scoprissero quelle virtù di serenità fantastica che sarebbero, a parlare propriamente, il segno dell’interpretazione, in questa brava attrice che è forse la più gentile e la più femminilmente simpatica tra le donne del nostro teatro.

Le interpretazioni di Maria Melato sono tutte tendenziose, e rivelano sotto la figura, la donna che non riesce a dominare i nervi e gli istinti. Se Alda Borelli si può definire ricordando Mary Chardin, per Maria Melato basta il nome di Lulù (Spinto della terra). Ella non potrà riuscire mai qualcosa di più che un eccellente strumento, gioia degli autori che non hanno saputo dire da soli verità incisive, consolazione della platea che chiede confidenze1. La [p. 90 modifica] virtù dell’analisi le è negata. Le sue figure non superano un onesto significato decorativo, da cui esulano affatto i problemi di rapporto, di tonalità e di perfezione lirica. Le approssimazioni sono più di tinte che di colori e l’intima povertà e uguaglianza è mascherata solo dal trucco dell’entusiasmo e della dedizione.

Sarebbe difficile seguire la linea del suo noviziato e stabilire una gerarchia dei suoi interessi, perchè ella prende troppo sul serio le cose (s’intenda il veleno dell’argomento) e resta assolutamente soffocata dall’incubo della teatralità che esclude in lei ogni vita non meramente scenica, e ogni calcolo di pudore e di riserbo. L’enfasi si diletta di ripetuti cimenti attraverso i quali le maschere si mutano, ma l’intima sterilità si rivela nel modo più sconsolante. E’ la patologia di Bataille portata a una tensione soltanto sopportabile perchè alternata con confessioni affatto naturali di femminilità. Sia che ella si prodighi nella suggestione cinematografica della Marcia nuziale, della Donna nuda, de La Falena, della Moglie del Dottore o de La piccola Fonte, sia che ricerchi il convulso di Anfissa, del Ferro, de L’innesto o di Wedekind sia che si pieghi al misurato sogno de La Gioconda o de La Bella Addormentata, invano cercheremo di scoprire sensi più profondi dell’esibizionismo. L’attrice popolana vuole il plauso della platea, non il giudizio del critico. Le sue rudimentali riflessioni tendono a equilibrar l’azione intorno a questo gioco suggestivo di fascino sentimentale; si direbbe che ella non reciti misurandosi sapientemente ai significati più riposti di stile, ma ubbidendo quasi ad una allucinazione iniziale e generica, ossia per l’appunto a un artificio pratico di intuito volgare. Mentre la fecondità vera si [p. 91 modifica] nutre di mistero, di timidezza e di sottinteso la sterilità loquace di Maria Melato si riduce tutta all’enfasi delle espansioni e alla confidenza calda della donna. La sua invadenza è persino opprimente, preclusa come appare a ogni riposante tregua di gioco e a ogni respiro di signorile grazia dilettevole. Anzi si potrebbe dire che ella calcoli sulla propria stanchezza per un effetto più completo; onde quel fatto avvertito finemente dal D’Amico che l’efficacia, le risorse più intense si concentrino sopratutto negli ultimi atti delle opere recitate. Potremmo definirla una vittima delle proprie emozioni, troppo carnalmente interessata per diventare capace di liberazione.

Ricca di doti pratiche squisite, viva di una finzione eterna di giovinezza calda, con la voce musicale, col fisso sguardo pensoso e dolorante, e il teso fervore di vibrazioni, vuol far brillare con entusiasmo l’esuberanza dei suoi mezzi, vivere con sincera passione. 11 suo è l’animo dell’attrice tradizionale, desiderosa di apparire sul palcoscenico per un bisogno romantico di comunicazione sensuale.

Ma se tali motivi sono interessanti in certi casi per animare opere che senza l’attrice sarebbero rimaste scialbe, esili, insignificanti, chi dirà dove si giunga per questa via quando l’assunto sia di penetrare un’opera d’arte difficile e fortemente organica? Una risposta esauriente ci è stata offerta con La Lupa del Verga, che la Melato ha affrontato come si trattasse di una paradossale creatura di carne.

Questa lupa c’è in Verga: ma nella novella, che è solo una serie di appunti per il dramma. Vi si annota il fatto con gusto, ma senza figure, nudo. Intorno alla Lupa [p. 92 modifica]non è ancora animato tutto un mondo di personaggi. Il nucleo centrale, immediato e senza finezze; nella protagonista una sensualità fatale, ma non spiegata: la fisiologia soggioga l’umanità. Nanni e Mara restano due ombre: lo stile frammentario, sprezzato è lo stile oscuro del taccuino.

Di questi spunti c’è invece realizzazione poetica nel dramma. Verga è riuscito a porre la Lupa nel suo ambiente, a trasformarla di fatto patologico in realtà artistica. La misura del dramma è in questa giustificazione di pietà che consacra la tragicità di gna’ Pina fatta di miseria e di peccato, di rassegnazione e di sventura. Arte vera è nel rapporto tra didascalie e dialogo che reciprocamente si spiegano e si svolgono secondo un processo tutto verghiano. Nel primo atto il movimento poetico tende a concludersi nella sensualità attraverso la passione, chiarita ineluttabile per il fallimento di tutti gli sforzi che la vogliono reprimere. Nel secondo domina rigidamente inflessibile la legge della giustizia che deve essere compiuta: e poiché i personaggi del dramma se ne vengono staccando e operano in paurosa solitudine, in tragica opposizione di incompresi, viene preparandosi con logica fatale la luttuosa soluzione: intorno alla catarsi si organizza l’idealità del dramma, gli spunti veristici ne riescono trasfigurati.

Perchè La Lupa non è verista e invece la Melato si appagò di una rappresentazione di lascivia ripugnante alterando la profonda umanità dell’opera, la commozione dell’amarezza e dello schianto, della rassegnazione e della sciagura. Il dramma fu ridotto a scarna fisiologia, a naturalismo chiaramente approssimativo. Nè la fine sensibilità di Maria Melato potè reagire, una volta messa sulla cattiva via, a questa sovrapposta materialità: fece del cattivo [p. 93 modifica] folklore con atteggiamenti cinematografici senza neanche avvertire la compitezza stilistica delle parole mormorate dal suggeritore.

E non ebbero analogo compimento le sue più costanti ed accurate confidenze con la dolorosa storia di Maria Stuart? Ci ha ella dato forse una nuova Stuart, l’ha arricchita di ansie e di moti suoi o non si è fermata a una comoda passività, con spunti di imitazione dalla Ristori2? Qui si rivelava senza rimedio la natura gelida, falsa ed imprecisa del suo calore. Maria Stuart, opera caratteristicamente romantica per le sue stesse incertezze e confusioni, cronologicamente situata in piena crisi schilleriana, tra Wallenstein e Guglielmo Tell, rappresenta l’esuberanza, non ancora composta, di aspirazioni a una drammaticità religiosa, filosofica, politica. Ma l’ampia tela storica non è rivissuta da una fantasia shakespearianamente superiore e precipita nella retorica. Si salvano gli spunti lirici, dove non sono troppo facondi, e il nucleo elementare dell’azione nel terzo atto.

Federico Schiller fu attratto da rumorosi elementi esteriori (dissidio tra donna e regina, tra cattolicismo e protestantismo, ecc.) e invece di pensare a unificarli intorno a una giustificazione eroica di Maria, li circondò di sovrapposti episodi; volle che se ne sprigionasse un’austera lotta di convinzioni in cui ogni personaggio fosse affaticato dalla ricerca di se medesimo, dall’approfondimento della propria interiorità.

Invero l’ambizione di Leicester, l’amore di Mortimer, la solenne devozione allo stato di Talbot, il [p. 94 modifica] parlamentarismo quasi anacronistico di Paulet, la diplomatica avvedutezza di Cecil rendono solenne la tragedia, ma non ne chiariscono lo sviluppo.

Il dramma è tutto nella lotta intima che si combatte tra la donna e la regina in Elisabetta e in Maria. Uno stesso fato psicologico pesa sulle due nemiche. Ma si esprime a fatica, tra il pericolo dell’enfasi e il predominio di un’arida schematicità.

Lo schema è la lotta tra la regina cattolica e la regina protestante, tra l’Inghilterra e la Francia, motivo che potrebbe risultare immanente nella tragedia, ma non teorizzarsi a priori. Invece un tentativo di generalizzazione s’incomincia a trovare già nella prima scena. Il dignitoso contrasto di due spiriti regali appare nel pettegolezzo di una discussione di servi. Questo squilibrio, notato qui una volta per tutte, indica la natura della declamazione nell’opera schilleriana.

Negli spunti validi delle scene seguenti si manifesta invece il nucleo tragico dell’opera: «un operoso spirito maligno prende il governo degli umani petti e vi semina il male: indi fuggendo lascia ne’ traviati uno spavento, un rimorso crudele». La costrizione, la mancanza di libertà sono la misura dello svolgimento drammatico: ma i motivi di più commossa umanità nascono proprio dalla coscienza, presente nei personaggi, della necessità di questo sacrifizio. Il passato di Maria è il suo dolore e la sua forza presente. L’azione si riduce nella sua sostanza più viva a motivi di dialettica spirituale. Il creatore esplora gli abissi delle anime. L’episodio di Mortimer, l’intervento di Leicester, leggermente ridondanti, recano la tragedia anche nello sviluppo esterno alla coerenza intima. [p. 95 modifica]Alla IV e alla VI scena del I atto segue la VII, ove dal tormento tra la debole donna e la vigorosa regina nasce i affermazione netta di una personalità non più incerta, regale, dominante. Tutto il I atto preannuncia il II che ridurrà a tragedia il motivo presentato qui ironicamente della coesistenza di umiltà e regalità. Ma questo movimento sentimentale ha i suoi limiti: e dove Schiller se li dimentica, precipita. L azione è statica, necessariamente ridotta ad analizzare con amore alcuni motivi che dilettano il poeta psicologo. Quando Maria Stuart vuole agire, uscendo dall’operoso idillio in cui vivono il suo presente e il suo passato, l’azione si converte inesorabilmente in intrigo — contrario alla poetica luce che hanno i fantasmi della femminile riflessione; — quando contro di lei lottano i suoi nemici — l’intreccio pare una discussione di accademici. In queste errate parentesi si matura la misteriosa tragicità della protagonista; ma solo perchè all’arte si è sostituito un processo di illusoria retorica, grata ad enfatici ascoltatori.

La funzione del II e del IV atto è stata dallo Schiller appena intravvista. La tragedia di Maria deve riprodursi, in diversi momenti, in Elisabetta. Su tutte e due le donne preme assiduo e incalzante un feto che le trascina alla catastrofe. Appare il motivo romantico della volontà inadeguata al rigorismo pratico che vuol professare. Ma il dramma di Elisabetta rimane un’oscura indecisione che s’effonde talora in vuotissimi rimpianti e discorsi sull’infelicità dei monarchi.

Domina tutte le incertezze il terzo atto: qui i moti sentimentali di Maria si armonizzano in analisi squisite. L’effusione lirica della donna, anzi della fanciulla, nel preludio introduce una spensieratezza che alterna secondo una [p. 96 modifica] misura di mito la soverchiante responsabilità di un rigorismo etico che deve restare un elemento episodico per non alterare l’equilibrio. Il richiamo alla tragedia si esprime subito in una profonda perplessità. Poi le due regine sono di fronte perchè la loro lotta si esprima attraverso il superamento singolare dell’intimo dissidio di vanità e regalità. Maria è tutta viva, coerente con le premesse, nella sua finzione che ella medesima non sa più distinguere dalla realtà, dato che scaturisce dal suo immenso dolore; viva nella sua vittoria, nel tripudio di vitalità che le fa rinascere in cuore l’amore.

L’ultimo atto in un modesto raccoglimento, in una calma dignitosa espone modestamente i risultati come la morale della favola. L’azione di Elisabetta, la rinuncia di Maria escludono ogni drammaticità. Solo la solitudine dell’epilogo introduce un’ultima commozione in mezzo ai luoghi comuni teatrali.

Lo sforzo della Melato non inseguì queste esitanze e questi ripiegamenti, ma volle vestire un velo monotono se pur variopinto, di conclusa e riescita convenienza. Certe aspirazioni della Stuart alla regalità sembrarono penosamente autobiografiche, come il vano tentativo di volo dell’aquilotto. Tutto il resto (compostezza sobria, dignità di sacrificio, solennità di vibrazioni) rientra nei limiti dell’usata aspirazione decorativa e appena sì avvertono come nuove alcune pause pittoresche che interrompono la desolante tensione. L’opera trascende veramente le possibilità della nostra attrice. Nel dissidio tra la donna e la regina prevale secondo la sua recitazione una regalità manierata che si gode in noiosissimi accenti superlativi. Per questa voluta disciplina di storica austerità l’attrice non riesce poi [p. 97 modifica] a rendere coerenti con la tragedia quegli albori di umanità dolorosa in cui la sua anima eccitata cercò sfogo ed esultanza.

Come raccomandarle l’ascesi se il suo spirito anela all’oratoria? Il divorzio ideale da Bataille non sarà mai seriamente tentato. Si direbbe che in venti anni d’arte Maria Melato non abbia attinto nessuno dei motivi più intimi di armonia, di impassibilità, di serenità che possono attestare nell’attrice la liberazione dal troppo umano. Viceversa ella venera la naturalezza ed ha confuso la poesia col fascino del simpatico. [p. 99 modifica]

NOTA


Una lodevole eccezione fu per certi sensi la rappresentazione del Ridicolo dopo la quale scrivemmo quanto segue:

Occorre riesaminare nelle poche righe di una nota di cronaca il problema dell’arte di P. Ferrari? Il Ridicolo ne offrirebbe caratteristicamente argomento, ma poche note schematiche chiariscono le grosse questioni che vent’anni or sono non erano nemmeno avviate a soluzione. C’è in questa commedia la grossa impostazione della tesi (l’elemento cui guardavano Ferrari e i contemporanei); c’è l’elemento che mise in luce il Croce e su cui impostò la sua esegesi, la forza e la serenità morale della marchesa Emma; c’è la varietà complessa dei caratteri (il vecchio marchese Braganza, l’amico del marito, la rigidità corretta del conte Metzbourg) per cui Ferrari trovava grazia presso la critica romantica; c’è l’artificiosità di varie giustaposizioni da cui dipendono tutti i vizi di questo teatro che ha dato una sola opera completa: il «Goldoni e le sue sedici commedie nuove». E c’è il carattere che a noi pare essenziale dell’arte di Ferrari: la sua superiorità di artista sulle proprie creature, l’agilità e l’ironia con cui le sottopone al [p. 100 modifica] sereno gioco dei suoi contrasti; il carattere insomma per cui egli potrebbe esser definito il «poeta della teatralità», l’ironista dei colpi di scena (nel Ridicolo: il preludio; il doppio gioco del contrasto tra marchese Braganza padre e figlio che accompagna tutta l’azione, l’ironia di Emma sul teatro; il secondo atto con il «Pettegolo» e il bambino che lo legge, la falsa posizione del marito di Emma, ecc Elementi che erano nel «Goldoni e le sue sedici commedie» serenamente coerenti).

Questa comicità ferrariana di doppiezze e di evidenze (una miniera che la critica non ha escoperto: onde il fraintendimento in cui cade anche il Croce) non fu nell’interpretazione di ieri sera abbastanza agile e sottile. I toni tragici parvero intemperanti. Discreti fi Ricci e il Sabbatini, il quale non aveva modo di esprimere interamente le sue qualità nel tormento volgaruccio che gli è affidato: la controparte nel rapporto tra padre e figlio non fu bene penetrata. A Maria Melato va la lode della riesumazione. La nostra attrice l’ha interpretata con misura; al terzo atto indulse alla grande scena, ma ne ripagò interamente le persone di gusto con un secondo atto perfetto di misura, di impenetrabile sofferenza, di amarezza serena, che non ebbe invero tutto l’entusiastico consenso che lo sforzo dignitoso e fine di arte meritava.


Note

  1. Ha completato scenicamente con successo opere come Parigi e Manon di Adami, Il Sangue di O. Civinini, L’uomo di legno e la donna di cera del Pensuti, ecc.
  2. Cfr. Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori. Torino, 1887, pp. 145-181.