La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XIV

Capitolo XIV

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CAPITOLO XIV

Sommario: Il Banco di Napoli e il suo ordinamento — Le tre casse e i tre marchesi che ne erano a capo — Le fedi di credito — Avere il notaro insaccoccia — Il reggente Ciccarelli fanatico della nobiltà — La tribù del Banco — L’odio di Ferdinando II per le cambiali — Una succursale a Bari — Don Antonio Monaco e don Andrea de Rosa — Gli stipendi! e gli abusi di allora — Rovine nei nuovi tempi — Provvedimenti diversi — Fortunato provvedimento fu la scelta dell’uomo — La Zecca annessa al Banco — Distrutta eensa ragione — La Borsa e i maggiori agenti di cambio — La Camera consultiva di Commercio — I deputati della Borsa e i sensali — Giuseppe Raspantini e i suoi socii d’imprese teatrali — Le divise estere — Olii e grani — Case d’ordini — Rocca e Minasi-Ariotta — Perfetti e De Martino — Come ai giocava alla Borsa — I sensali dei principali negozianti — Federigo Pavoncelli — Movimento al molo piccolo — I negozianti di tessuti e dì coloniali ~~ La via dei mercanti — La politica commerciale del re — Le concessioni industriali di quegli anni e l’Istituto d’incoraggiamento — Fiere e mercati — Il re conoscitore di cavalli — Dialogo con Vincenzo Buonfiglio — Il re al ponte Farnese — Una sua esclamazione — Le Società Economiche c loro benemerente — Non potevano fare di più — Sul Liri, sull’Irno e sul Sabato — Povertà industriale del Regno — Un lavoro sul taglio dell’istmo di Suez — Considerazioni malinconiche.


Il Banco di Napoli dipendeva dal ministero delle finanze. Eugenio Tortora ha scritto due grossi volumi, narrandone la storia e le vicende dal 1539, in cui si apri la prima cassa pubblica in via della Selioe, all’ultimo riordinamento del 1863, fatto dal Minghetti, ministro delle finanze e dal Manna, ministro del commercio. Negli anni, dei quali parlo, il Banco era in Napoli diviso in tre casse; la prima cassa di corte, con sede nell’edificio di San Giacomo; la seconda cassa di corte, allo Spirito Santo, e la cassa [p. 294 modifica]detta dei privati, posta dove prima era il banco della Pietà. Il direttore generale si chiamava reggente e presedeva il Consiglio della reggenza, formato da lui, dai presidenti delle tre casse, dal segretario generale e dal razionale contabile. Questo Consiglio si occupava degli affari interni del Banco; nominava e destituiva gli impiegati; provvedeva ai posti vacanti, nonchè a! servizio delle casse e all’amministrszione del patrimonio. Il reggente aveva poteri molto estesi e corrispondeva col ministro delle finanze, con i capi delle pubbliche amministrazioni e con tutte le autorità. Ogni cassa aveva un proprio presidente, due governatori e parecchi cassieri, meno la prima cassa di corte, con un solo governatore. L’archivio generale era tenuto da un governatore e da un archivista. La cassa di sconto, istituita nel 1818 da Ferdinando I, aveva una commissione omonima, il cui ufficio era di esaminare gli effetti che si presentavano, composta da sei deputati, dal segretario generale, dal cassiere generale, da un tesoriere, da un sindaco o censore, che allora si chiamava "controllo immediato al tesoriere„; e da due agenti di da cambio. Tale fu l’organizzazione interna del Banco dal 1816, quando il Medici lo riordinò, sino al 1863.

Alla prima cassa di corte si scontavano gli effetti commerciali e si pegnoravano gli effetti pubblici. Nel 1858 Ferdinando II autorizzò il Banco a fare ai negozianti prestiti di somme garantite dalle merci depositate nei magazzini della dogana, con cambiali a tre firme e a cinque mesi; ma l’utile riforma non fu mai tradotta in atto, e se ne attribuì il motivo allo scarso successo delle operazioni di pegno sopra alcune speciali mercanzie, che si depositavano nei locali dell’antica posta, in via di Porto, sul principio. Nella seconda cassa di corte si pegnoravano gli oggetti preziosi e alla Pietà si ricevevano i pegni dei poveri. Ufficio precipuo del Banco era l’emissione delle così detta fedi di credito, trasferibili per girata e rimborsabili a vista, le quali facilitavano notevolmente i contratti privati. Imperocchè, potendosi nella girata inserire un intero contratto, che avesse una relazione qualunque con il pagamento, per cui si cedeva la fede, ne derivava che essa era usata in tutti i contratti, specialmente come quietanza e nei casi, nei quali là legge richiedeva qualche formalità, Si risparmiava tempo e denaro. A Napoli non vi era contratto di affitto, ricevuta di pagamento, compra o [p. 295 modifica]vendita di mobili, che non si scrivesse su fedi di credito o su polizze notate, con le quali si disponeva delle somme depositate al Banco. Proprietari e commercianti erano provveduti di piccole polizze, sulle quali si distendeva qualunque atto, tanto più che fedi e polizze potevano farsi anche per soli dieci grani. Con tale sistema, potendo ciascuno, come disse lo Scialoja, avere gratuitamente il notaio in saccoccia, la tassa di registro e bollo nel Regno rendeva pochissimo. Vero è, che, anche senza le fedi di credito e le polizza notate, il suo reddito sarebbe stato meschino per l’esiguità delle tariffe. La carta da bollo non costava che tre, sei o dodici grani al massimo, e l’avevano introdotta i francesi.

Reggente del Banco era il barone Francesco Ciccarelli, che occupava quel posto sin dal 1842, e vi rimase fino al 1860. Tanti anni di reggenza lo avevano reso espertissimo nelle cose del Banco. Aveva una debolezza per i titoli nobiliari, e da Pio IX, fuggiasco a Gaeta, ottenne il titolo di marchese di Cesavolpe. Nei 1860 la segreteria della Dittatura lo destituì, nominando in sua vece Giuseppe Libertini. Al Libertini successe Michele Avitabile, il cui marchesato fu posto in dubbio dal Settembrini in una celebre polemica seguita da un processo, nel quale l’Avitabile dimostrò che il titolo di marchese era stato concesso alla sua famiglia da Carlo III, A Napoli tutti lo chiamavano marchese, ed egli se ne compiaceva. Era vivacissimo e non senza talento. Circa tre anni durò l’Avitabìle in quell’ufficio, e nel 1863, per un enorme errore in cui cadde e che tutti ricordano, fu dal ministro Manna dispensato dal servizio e venne eletto deputato a Sansevero, andando naturalmente a sedere a sinistra. Ma negli ultimi anni del Regno era reggente, ripeto, il vecchio Ciccarelli e funzionava da segretario generale don Giovannino de Marco, famoso per la sua inesauribile partenopea parlantina.

Razionale ed agente contabile era Giovanni Amatrice. Al Banco c’era una tribù di Amatrice, anzi c’erano varie tribù; gli Aulisio, i Salerno, i Gambardelìa, i Capasso, i Ferraiolo, i Nappa, i Marino, poichè gl’impieghi andavano di padre in figlio, e non vi erano ammessi che i figli o i nipoti degl’impiegati. Altra tribù caratteristica era quella dei D’Amore, che avevano l’ufficio di archivisti da quasi un secolo. Era forse una necessità, perchè, essendo l’archivista responsabile di ciascuna carta ed [p. 296 modifica]immenso l’archivio, solo i figli o gli stretti parenti potevano succedere nella responsabilità di un archivista morto o collocato in riposo. In quegli anni era archivista don Raimondo d’Amore, ricordato con simpatia per le sue facili irritazioni e i molti bernoccoli sulla testa.

A presidenti delle tre casse sì sceglievano ordinariamente gentiluomini, che non avessero assoluto bisogno dello stipendi, perchè questo non era alto. Negli ultimi anni tre marchesi presedevano alle tre casse: il marchese Serra di Rivadebro alla prima, il marchese Sersale alla seconda e il marchese De Bisogno alla terza. Governatore della prima cassa di corte era Natale Sorvillo, reputato e ricco nomo, che teneva banco per suo conto ed era comproprietario delle cartiere meridionali ad Isola del Liri. Razionale era Bartolomeo Fiorentino. Il barone Carboneìli e Niccola Buonanno coprivano il posto dì governatori alla seconda cassa di corte. A quella dei privati erano governatori il marchese Santasilia e il barone Marinelli; razionale, Francesco Sciotta. Governatore dell’archivio era don Antonio Degni, uno degli avvocati più reputati d’allora. Appartenevano alla commissione di sconto banchieri e rappresentanti di ditte di prim’ordine: Giacomo Forquet, sooio dell’antica ditta Forquet e Giusso, di origine genovese; Gaetano Cavasse, Niccola Buono, commerciante di grani all’ingrosso, e la cui ditta ancora esiste; Gioacchino Ricciardi e Francesco Stella, negoziante di telerie. Tesoriere della cassa di sconto era di nome il marchesino Pasquale del Carretto, morto quasi in miseria, perchè il vecchio marchese, sia detto a suo onore, non lasciò nessun patrimonio; e venuto il nuovo ordine politico, il figlio perdè l’impiego al Banco ed anche l’altro, più lucroso, di percettore del quartiere San Ferdinando, conferitogli come regalo di battesimo dal re. L’uno e l’altro impiego non esercitò mai di persona, perchè non ne era capace. Aveva sposata nel 1859 l’unioa figliuola di Niccola e Teresa Spada possidenti molto ricchi di Spinazzola, e la giovane marchesa del Carretto, già nota nel mondo delle strenne come Mariannina Spada, seguitò a scrivere graziosi versi.

Il banco di Napoli non aveva succursali nelle provincie. Ogni tentativo d’istituirle riuscì vano, perchè il re non volle mai [p. 297 modifica]saperne, anzi fu detto che nell’ultimo viaggio investisse una deputazione di cittadini di Reggio, i quali andarono a domandargli una succursale del Banco, con queste parole: “andate, volete rovinarvi con le cambiali; voi non siete commercianti; voi non capite niente„. Fin dai suoi tempi, il Medici intendeva aprirle in ogni provincia, ma nè egli, aè i suoi successori vi riuscirono mai nè miglior sorte ebbero i tentativi del D’Andrea e del Murena, quando il Banco aveva trenta milioni di ducati nel suo tesoro, e più di cinquanta milioni di titoli in circolazione, I municipii e alcuni intendenti insistevano, ma senza frutto. In quasi mezzo secolo, dal 1816 al 1860, non vennero istituite che due casse di corte a Palermo e a Messina, nel 1843, le quali, più tardi, con decreto 13 agosto 1850, quando la Sicilia acquistò l’autonomia amministrativa, furono staccate da Napoli e formarono il Banco regio de1 reali dominii al di là del Faro, e poi l’attuale Banco di Sicilia. Una sede fu aperta a Bari nel 1857. Chieti e Reggio non ebbero che una promessa nei primi mesi del 1860. Al re bastava che la circolazione delle fedi di credito fosse in tutto il Regno favorita dagli agenti finanziari! del governo, i quali, non solo le accettavano in pagamento delle imposte, ma le cambiavano con valuta metallica, e talvolta pagavano anche un aggio per averle, quando occorreva loro di far versamenti alta tesoreria centrale di Napoli. In tal modo risparmiavano le spese ed evitavano i pericoli dei trasporti di moneta. Eppure, nonostante che la tesoreria, la cassa del re, le province, i comuni, i luoghi pii ed ogni altra pubblica amministrazione, i banchieri, i commercianti e tutti usassero largamente delle fedi di credito, il servizio d’emissione e quelli più importanti di anticipazione e di sconti esistevano solo in Napoli, Ferdinando II faceva mostra di provvedere di tanto in tanto con decreti da burla, ai bisogni del commercio, dell’industria e dell’agricoltura. Dico da burla, perchè rimanevano ineseguiti. Dei suoi ultimi consiglieri, il Murena e il Bianehini si sarebbero spinti più innanzi, ma non osavano far cosa che il re non volesse; e il re, temendo sempre che dalle novità economiche si scivolasse nelle politiche, consentiva i decreti, ma poi se ne pentiva e quelli rimanevano lettera morta. Senza avere alcuna cultura bancaria, intuiva gli effetti dell’abuso del credito. In lui la perspicuità meridionale teneva il posto [p. 298 modifica]della scienza, e la risposta data alla deputazione di Reggio lo rivela; ma al solito, non distinguendo perchè incolto, confondeva, in un solo biasimo, uso ed abuso. Dopo tutto però, non fu certo un gran male che mancassero banche popolari o elettorali, germinate dal Banco, imposture dei nuovi tempi e che furono cancrene dell’istituto e della pubblica economia. Anzi c’era un bene: le cambiali servivano esclusivamente al commercio, e le ammissioni allo sconto erano severissime, come si può vedere dai regolamenti.

Dal 1813 al 1861, cioè in quarantaquattro anni, sopra operazioni dì sconto e di pegno, che giunsero a settecentododici milioni dì ducati, pari a tre miliardi di lire italiane, cioè in media a circa sessantanove milioni all’anno, le perdite o sofferenze, come sì dice oggi, per cambiali inesigibili, nonchè le restituzioni di somme indebitamente riscosse e tutte le spese, delle quali non si voleva con chiarezza specificare l’indole, chiamate spese considerevoli, ascesero a 649 375 ducati, cioè, in media, a poco più di 60 000 lire all’anno. Bisognerebbe consultare il periodo dal 1861 ad oggi, per constatare la differenza spaventosa tra le perdite di allora e le presenti! Allora però contro i debitori morosi si procedeva con l’arresto personale, nel carcere della Concordia.

I beni dei debitori morosi, perchè era rigorosamente proibito al Banco di possedere immobili, si vendevano all’asta pubblica, ma non si potrebbe affermare che fossero sempre aggiudicati a prezzo giusto. La piaga degl’imbrogli nelle vendite giudiziarie è antica nel paese. Molte case furono acquistate a vil prezzo, da don Antonio Monaco, divenuto, da scrivano pubblico, uomo denaroso e amico del reggente. Il Monaco, che fu anche impresario del San Carlo, lasciò un cospicuo patrimonio, rappresentato quasi interamente da circa cento palazze ’e case.1 Parecchie case le acquistò pure don Andrea de Rosa, ricco assuntore di opere pubbliche, che compro e ricostruì il gran palazzo al Mercatelìo, che porta il suo nome. Sul conto del De Rosa correvano parecchie dicerie. Egli era di Afragola e da giovine aveva [p. 299 modifica]fatto il pettinatore di canapa. Si disse che dovesse la rapida fortuna alla bellezza della sua persona, che lo fece entrare nelle grazie di una principessa, la quale aveva autorità in Corte, e per cui ottenne importanti appalti, che in poco tempo lo fecero arricchire. Divenne poi barone, benché fosse quasi analfabeta. Di lui si raccontava ancora che, dovendo riscuotere una forte somma dal governo, e non potendo ottenerla per l’opposizione del ministro competente, ricorse, dopo altre molte astuzie, a quella di far trovare nella scuderia del ministro una pariglia di cavalli, mentre un’altra pariglia mandò a regalare al re.


Gli stipendii degli impiegati erano modesti. I presidenti delle tre casse non avevano che 480 ducati all’anno; i governatori, 240 e il reggente, mille, meno di quanto prende ora un direttore di succursale o un ispettore. Si cominciava, dopo l’alunnato gratuito, con sedici o venti carlini al mese e occorrevano vent’anni di servizio, per arrivare a venti ducati. E di qui abusi senza fine. Si tolleravano le assenze; si permetteva di cumulare col proprio ufficio quello di un compagno e si perdonavano debiti e indelicatezze. Udite, come ne parla il Tortora: "i più svelti esercitavano la professione di avvocato, di medico, di notaio; altri facevano i sensali; alcuni giunsero a stabilire il domicilio lontano da Napoli, conservando l’impiego, ed una parte di quelli che venivano in ufficio, o si faceva pagare dai compagni inassistenti, e raggranellava così il necessario per vivere, o si aiutava con le mance e con le indelicatezze. L’ordinamento difettoso degli uffizii, le strane formalità e soprattutto la conoscenza personale degl’individui, con garanzia delle firme, che riohiedevasi anche quando non occorresse, facilitavano queste porcherie. Chi non sapeva perfettamente come fossero congegnate le scritture, e distribuite le funzioni fra varie centinaia d’impiegati, si trovava nella materiale impossibilità di sbrigare qualsivogìia faccenda, e non bastava tale cognizione, perchè gli affari del Banco si facevano tutti con carte nominative, le quali dovevano essere firmate da persone di fiducia. La fiducia si meritava, sia con le relazioni personali, sia mediante compenso. Era naturale che l’ufficio di sensale, col suo lucro, toccasse agl’impiegati stessi, che erano pagati così male, ovvero ad individui che spartivano con essi il provento. Dopo tutto ciò, si operavano le [p. 300 modifica]promozioni col solo requisito dell’anzianità, mettendosi a capo degli uffizii persone notoriamente disadatte, per vecchiaia o insufficienza A questo quadro è inutile aggiungere alcuna cornice.

Molti erano davvero questi inconvenienti, ma non tali, in verità, da intaccare il patrimonio dell’istituto, del quale anzi l’aumento fu costante. Banco schiettamente napoletano, aveva fini più modesti di oggi, che, divenuto istituto di emissione e di credito fondiario, aprì sedi non solamente in quasi tutte le provincie continentali dell’antico Regno, ma nelle principali città d’Italia. Governato da un numeroso Consiglio, o meglio da una folla di provenienza elettiva, subì per un pezzo le vicende parlamentari, onde le crisi frequenti dei suoi direttori, e le lotte palesi ed occulte fra il direttore di nomina regia e il Consiglio, le inframmettenze del governo, ora provvide e ora nefaste, e la crescente prevalenza di elementi estranei alle provincie napoletane. E da questo Consiglio venivano fuori i delegati delle sedi, i consiglieri di amministrazione, i censori o sindaci: uffici variamente retribuiti, ma retribuiti tutti. Si può immaginare quale spettacolo di avidità e di volgarità presentasse questo Consiglio nella rinnovazione delle cariche, e quali influenze esercitassero questi consiglieri sugli sconti e sulle operazioni nelle rispettive sedi, alla loro vigilanza commesse! Ne feci parte per sei mesi e posso ben provare quello che affermo. Una legge aveva escluso dal Consiglio i membri del Parlamento: si credette oosì di epurarlo, ma il livello morale del consesso discese ancora più basso.2


Il reggente del banco delle Due Sicilie era contemporaneamente direttore della Zecca, o amministratore delle monete, ufficio che dipendeva anche dal ministero delle finanze e aveva sede in Sant’Agostino. Oltre alle officine di monetazione, c’era [p. 301 modifica]la raffineria chimica dell’oro; c’erano gabinetti d’incisione e di garentia, mangani ed argani per i fili d’argento e d’argento dorato. Altri gabinetti di garentia erano nei capoluoghi di provincia. Funzionava da segretario generale di quell’amministrazione Marcello Firrao e n’era razionale il Caropreso, consigliere alla Corte dei Conti. La zecca di Napoli, che aveva pure l’ufficio di fissare il valore delle monete estere, continuò a lavorare mediocremente fino al 1870, ma con la soppressione di quelle di Firenze e di Torino, fu chiusa anch’essa. Da allora non si è mai saputo dove sia andato a finire il suo immenso materiale, e quella stupenda collezione di conii, alla quale lavorarono, negli ultimi anni, due incisori di prim’ordine: l’Arnaud e il Piranesi. Quella Zecca, cui fu annessa nel giugno del 1858 una scuola per l’incisione in acciaio, era forse la prima d’Italia, anche per valore tecnico. Bellissime davvero le monete di argento e di rame. Il Regno aveva un regime monetario monometallico a base d’argento. Monete d’argento e fedi del Banco formavano questo regime, e le fedi del Banco anche al l’estero eran tenute in conto di valuta di prim’ordine. Dopo che nel 1835 Ferdinando II fece coniare la bellissima moneta d’oro di trenta ducati, divenuta preziosa per la purezza della lega e il valore intrinseco, monete d’oro non se ne coniarono sino al 1860. E oggi non esiste più neppure la Zecca, che dava da vivere a tanta gente, e non avrebbe dovuto davvero andar travolta in quel grande vortice di distrazione, che segnalò il nuovo regime, ferì e spostò tanti interessi e creò tanto malcontento.

Nella Borsa si accentrava il movimento economico del Regno. Primeggiava tra i valori, la rendita, vera preoccupazione di Stato, e vanità della Corte e d’ogni napoletano. Le contrattazioni passavano per le mani di agenti di cambio di gran credito. Del Pozzo, Marrucco, Spasiano e Zingaropoli erano fra i più rinomati, per la lunga ed onesta carriera e per le ricchezze accumulate e il gran credito; e Diego Bonghi, zio di Ruggero Bonghi, Lorenzo Schioppa e Tommaso Giusti, anch’essi d’incontestabile rispettabilità. E v’erano anche i deputati di Borsa, incaricati ad assistere e vigilare alla fissazione del corso dei cambii, dei fondi pubblici, ed altri valori, nonchè di quello del prezzo corrente dei grani, olii ed avene. Fra questi deputati di Borsa, scelti fra i [p. 302 modifica]negozianti di maggior reputazione, figuravano Luigi Giusso padre di Girolamo, Natale Sorvillo, Giacomo Forquet, Nicola Buonocore, Costantino Volpioelli e Antonio Montuoro. Esercitavano il servizio per turno, di mesi, di giorni, di ore. Ed erano assistiti dagli agenti sindaci, e dai sensali sindaci; affisso nei locali della Borsa vi era pure un calendario della Borsa, approvato ogni anno dal ministro delle finanze. Questa organizzazione garantiva il pubblico meglio che non lo sia ora. Non solo i deputati, ma i sensali sindaci e gli agenti sensali erano persone circondate dalla pubblica stima. I sensali avevano studio, come si diceva, al Molopiccolo, alla gran dogana, al Pillerò e alla Marinella. Nè bisogna dimenticare che esisteva anche “una Camera consultiva di commercio„ della quale era presidente l’intendente della provincia, e componenti moltissimi commercianti. Basterà ricordare il Giusso e il Sorvillo suddetti, Gabriele Consiglio, padre del presente senatore, Francesco Forquet, Nicola Fenizio, Pietro Volpioelli e Federigo Ricciardi. Era pure riconosciuta con nomina regolare la classe degli spedizionieri detti regi, e contava tra essi quel Giuseppe Raspantini, che più tardi fu impresario del San Carlo, uomo simpatico, generoso e fertile d’iniziative; che guadagnò molto e dette fondo a tutto. Era cognato di Adamo Alberti, e nella prima impresa del San Carlo, dopo il 1880, ebbe per socii Giuseppe Pavoncelli, Federico Stolte e Giovanni Wonviller, tutti e quattro corteggiatori non sfortunati di cantanti e ballerine del gran teatro, più che non fossero impresarii fortunati. Vi rimisero l’osso del collo. Ma fu a quella impresa che Napoli dovette il Ballo in Maschera con la Lotti, Aldighieri e Tiberini e la bellissima Saroltha, della quale gl’impresari erano innamorati tutti e quattro, ciascuno vantando la preferenza sul cuore della bella ungherese. Nella rondita negoziavano banohieri come Rothschild, Forquet, Mauricoffre e Sorvillo, allora uniti, Gunderschein e altri. Tutte le divise estere, delle quali il paese abbisognava, erano per questi e per altri banchieri minori, lavoro attivo e proficuo, ed ogni ramo del commercio di esportazione trovava presso di loro a collocare le sue tratte, con facile metodo. Perciò la Borsa era frequentata da quanti avevano veramente interessi nei traffici, nella navigazione e nell’impiego di capitali. Per parecchie ore, ma più dalle 2 alle 4 pomeridiane, era affollata e febbrilmente agitata; ed era ritenuta una delle più attive ed [p. 303 modifica]importanti d’Europa, anche perché l’uso di vendere merce dì raccolti ancora in erba aveva dato vita ad un gran giuoco; ed attorno alle compre ed alle vendite di genere effettivo, si giocava e sì scommetteva a rialzo o al ribasso, dando luogo a differenze di prezzo, liquidate mese per mese da appositi agenti o sensali, come oggi si usa per i fondi pubblici ed i valori.

Due sale attigue alla Borsa, a sinistra del gran portone del palazzo di San Giacomo, dalla parte del largo dei Castello, erano riservate alla contrattazione della rendita pubblica, nelle ore in cui la Borsa stava chiusa. Le riunioni per le contrattazioni dei grani e degli olii, nelle prime ore del mattino e nella sera, sì tenevano da molti anni nel primo caffè a due porte, accosto a un estaminet con sale di bigliardo, dirimpetto al Castelnuovo, all’angolo opposto del teatro “Sebeto„, Questo estaminet era condotto da ano svizzero. Sentita la necessità di un locale più adatto, Salvatore Ferrara e Michelangelo Tancredi, seniore, regio agente di cambii e trasferimenti, tolsero in fitto, verso il 1834, presso lo Spedaìetto, la vastissima sala dell’antico sedile de’ nobili di Porto, detta poi Sala di San Giuseppe, per la vicina chiesa omonima. Nell’alta volta di quella sala era dipinto uno stupendo affresco rappresentante il martirio di San Gennaro, e su una parte dell’area fu poi edificato il presente albergo di Ginevra, già palazzo di monsignor Cocle. La Sala di San Giuseppe fu decorata con busti e con ornamenti in legno, e non mancavano gabinetti per la lettura dei giornali francesi e inglesi. Dopo qualche anno, avendo il Ferrara e il Tancredi subite gravi perdite, cedettero il locale ad altri. I negozianti veri, i cosidetti speculatori, cioè scommettitori a scadenza, che giocavano sul vuoto, i sensali patentati, e i moltissimi non patentati, detti marroni, quando non intervenivano alla Borsa a San Giacomo, si riunivano in quella sala, ove trattavasi quasi esclusivamente di grani e di olii, esclusa la rendita.

Gli olii ed i grani si contrattavano alla Borsa, in un modo speciale, che si adattava meravigliosamente alla condizione economica delle provincie napoletane. Case di commercio, fomite di grandi capitali, avevano vasti magazzini in alcune città della costa, dove si raccoglievano le mercanzie, e mettevano questi magazzini a disposizione di proprietarii, che avessero voluto [p. 304 modifica]depositarvi le loro merci, con facoltà di ottenere anticipazioni di danaro, e stabilirne a loro beneplacito lo ammontare in qualunque tempo: la qual cosa era facile, poiché ogni giorno il listino della Borsa segnava il valore delle derrate. Grandi masse si formavano con tal metodo, atte ad alimentare il grande commercio, e che ricevevano incremento dai quotidiani acquisti, che ogni casa faceva, di generi provenienti dall’interno del paese, i quali trovavano in tal modo prezzo sicuro, senza correre il rischio di costoso viaggio, per raggiungere il mercato di consumo. Manfredonia e Barletta erano le maggiori piazze di deposito, e dal porto di Manfredonia partivano coi numerosi velieri quei grani duri da far paste cobI rinomati, prima che le terre nere di Russia ne producessero tanti, da non farne più sentire il bisogno nel mondo.

Gioia Tauro, in Calabria e Gallipoli, in Puglia, raccoglievano gli olii, dividendoli ne’ due distinti tipi, dei quali si componeva allora la produzione napoletana. L’uno e l’altro erano grandemente richiesti in Russia; e mentre per ardere era preferito quello calabrese; l’Inghilterra, il Belgio e la Franoia per lubrificare macchine, o lavar lana, preferivano il pugliese, il quale, grazie ai progressi tecnici introdotti dal Ravanas, era divenuto buon olio commestibile e serviva pure per la conservazione delle sardine. Gli olii minerali non si conoscevano, nè le Americhe mandavano olii di lardo. Se ne estraevano dalle sementi, ma in quantità da non far concorrenza agli olii di oliva. Intorno ai tipi di Gioia Tauro e di Gallipoli, s’aggrupparono gli olii comuni di Brindisi e di Taranto, di Catanzaro e Petromarina, che erano negoziati dalla ditta Cricelli. Nella Calabria, Cotrone e Petromarina erano scali spesso richiesti. Cosi si consumava una produzione, che dava all’esportazione da trecento a quattrocentomila quintali circa all’anno, ed allo Stato un introito cospicuo per il dazio dì esportazione.

Queste case di commercio avevano la sede principale a Napoli, e succursali più in questa, che in quella provincia, secondo l’articolo del loro commercio. Le più antiche ed importanti, meglio fornite di capitali, di provata buona fede ed onestà, prendevano facilmente il posto sulle altre; e poiché modo consueto di pagamento erano, come si è detto, le fedi di credito che circolavano in tutto il Regno, le dette case erano conosciute in breve [p. 305 modifica]e accreditate ovunque. La larga considerazione all’interno le accreditava all’estero; tanto più, che tutta la merce, la quale per l’estero si caricava, usciva dai loro magazzini, ed ogni acquisto, che l’estero faceva, si compiva mediante un ordine di consegna, a presentazione della mercanzia nell’ordine espressa, con forme e particolari di qualità, di peso e di misura, sagacemente e nettamente designate. Queste case emettevano numerosi ordini durante Tanno. Erano di mille tomoli ognuno, se si trattava di grano; di cento salme, se di olio di Puglia; di cinquanta botti, se di olio di Calabria: e questi ordini di consegna non tutti andavano ad estinguersi nell’anno; sia perchè veniva via via a oess&re la convenienza d’esportarne, sia perchè chi ne possedeva, preferiva esperimentare col tempo un miglior prezzo: sicchè essi, passando di mano in mano, costituivano una circolazione fiduciaria, accetta a tutti. E quando la firma della casa traente, col passare degli anni, aveva il suo credito bene stabilito, di comune e tacito consenso veniva detta firma di piazza: espressione, che, nel linguaggio generale, sostituisce ancora in quelle provincie ciò che gl’inglesi dicono first rate.


Erano sorti due distinti gruppi di case d’ordini: l’uno per gli olii; l’altro, per i cereali. Primeggiavano i Rocca, la casa di Giacomo e quella di Andrea: amendue legate con quei Rocca di Genova, che avevano piantate le loro filiali a Marsiglia, a Londra, negli scali levantini ed in quelli dell’Adriatico. Erano i Baring italiani: mercanti, banchieri ed armatori ad un tempo. La pace, che tenne dietro la guerra di Crimea, lì colpì. Grande massa di mercanzia, mandata a fornire il campo degli alleati, o tratta di Russia prima del blocco, era rimasta invenduta. Sì manteneva bensì intatto il loro credito, ma già don Andrea non più comprava, e Pietro Rocca, erede principale della fortuna di Giacomo e più dell’avarizia genovese, piuttosto frenava, che allargava gli affari. Attorno a loro, per gli olii, si aggruppava una pleiade di forti case: Cardinale e Piria erano le più accreditate, dopo che don Girolamo Maglione era uscito dal commercio, parendogli che al giocare ed allo scommettere sì volgesse, più che agli affari reali, la speculazione. Piena di giovanile baldanza si affermò la casa Minasi e Adotta, il cui centro di operazione fu specialmente Gallipoli. Questa ditta tenne testa al Rothschild, quando nel [p. 306 modifica]1856 s’invogliò di essere firma di piazza per l’olio. Giovandosi de’ suoi capitali, Rothschild aveva comprati olii ad alto prezzo; ma l’estero poco volendone, ed essendo scoppiata la crisi americana, i fallimenti si seguirono, e tutt’i prodotti ribassarono. I proprietarii intanto accorrevano da lontano a portare mercanzia ed a richieder danaro in anticipazione, Rothschild, incapace di governare simile operazione, nuova per lui, si perdette d’animo, anche perchè la ditta Minasi e Arlotta non cessava di punzecchiarlo per mezzo dei suoi sensali e di alti ribassisti, con vendite al ribasso giustificate dalla splendida apparenza del raccolto futuro. E così Rothschild fu costretto a capitolare, vendendo tutto l’olio comprato, e quant’altro aveva nei magazzini a Gallipoli al prezzo di 23 a 24 ducati la salma. Fuori lui, la casa Minasi e Arlotta divenne la prima casa d’ordini per gli olii, sulla piazza di Napoli.

Per i grani in quegli anni quattro furono le case d’ordini; Pietro Rocca fu Giacomo, Andrea e fratelli Rocca, Raffaele e Pasquale Perfetti, e Giuseppe de Martino. Le prime poco operavano; ma le due ultime, tenaci in un duello cominciato da lunga data, tenevano la Borsa divisa in due campi, ed inasprivano, con astii personali, quella lotta che già si combatteva per il ribasso o l’aumento. Negli annali della Borsa erano più antichi i De Martino. Venivano dal piano di Sorrento; armatori e capitani dì nave, che, abbandonato il mare, avevano, per conto di case inglesi, molto comprato e molto imbarcato di granaglie. Erano gente larga, dallo spirito elevato e tenaci nel sostenere una lotta; impressionabili, sposavano simpatia ed odio con facilità, e con pari facilità erano generosi, più che loro non convenisse. Il Perfetti era tutt’aitro uomo. Veniva da umile condizione, e se ne faceva vanto; aveva venduti arnesi da magazzino, e vissuto fra sensali e piccoli speculatori, e a poco a poco intuì quanto potevasi trarre di utilità, rappresentando i proprietarii coltivatori presso i mugnai di Napoli, senza passare per la Borsa. I grani, consegnabili in forza d’ordini, si erano discreditati; per darne all’estero nell’abbondanza richiesta dallo sviluppo crescente del commercio, bisognava raccoglierne di ogni qualità; per la qual cosa chi aveva produzione bella e scelta era disperato di doverne cavare prezzo pari a quello delle qualità comuni.

[p. 307 modifica]Raffaele Perfetti, nativo di Terra di Lavoro, cominciò a portar grano con carri, poi con barche, al mercato di Napoli: gli utili gli accrebbero ardire e lavoro, e fece la sua apparizione in Borsa, ne’ ranghi degli aumentisti. Vi portava, contingente prezioso, il sentimento dei proprietarii e quello dei mugnai, due potenti alleati. Perfetti non aveva studii, ma ingegno chiaro e acuto, e ne diè prova presto, chiamando intorno a sè la gente più capace e più adatta a quel genere di commercio. Ricercò ed ottenne commissioni dall’estero, e le disimpegnò con lode, consegnando qualità migliori, che altre case non facessero: avvedutezza questa, che lo fece salire in eccellente fama a Genova ed a Marsiglia. La situazione economica del Regno in tanto s’avvantaggiava. Le miti imposte permettevano il risparmio; i coloni si erano rifatti e opponevano maggior resistenza ai prezzi ribassanti della Borsa, preferendo tenere ne’ granai la merce, anzi che venderla; ciò che tornava in danno di chi avesse venduto allo scoperto. Le qualità dei grani di Polonia e di Odessa erano migliorate; quelle di Barletta non guadagnavano più la gran differenza, che prima avevano goduto; bisognava quindi che esse, alla loro volta, fossero divenute migliori; e Perfetti, pagando in Puglia prezzi aiti, secondo il merito della merce, stimolò a meglio produrre. Capitanando in Borsa gli aumentisti, egli attrasse a sè tutt’i produttori pugliesi; e pigliando da questi la roba migliore, accrebbe all’estero, rapidamente, la sua rinomanza e i suoi guadagni. Gli ordini di sua firma, prima accettati soltanto per caricazione, furono ammessi alla liquidazione mensile; e la sua casa prese posto officiale nella Borsa, come casa d’ordine e il suo nome fu sinonimo dì operosità e di onore.

Il duello divenne lotta accanita. Al caffè dei commercianti, dal mattino sino a mezzogiorno, e nelle ore pomeridiane, sotto i platani della spianata, gruppi di sensali e di speculatori si adunavano e si disfacevano a vista d’occhio: avvisaglie le quali finivano alla Borsa con lotte, onde le fortune rapidamente venivano intaccate, o rapidamente si accumulavano. La gente di Borsa andava notata come la più spendereccia della città. Era un correre di sensali, ed un agitarsi di gente a far premii o affari a fermo; lottatori esercitati a tener conto di piccola variazione di mercato, d’ogni possibile circostanza, di ogni qualsiasi accenno a variazioni future. Le nuvole e il [p. 308 modifica]variare dei venti erano seguiti con maggior cura, che non avesse mai fatto astronomo, per cavarne prognostici circa l’approdare dei navigli, e le condizioni favorevoli o meno alle raccolte. Notizie, staffette, gherminelle, agitazioni effimere e falsi allarmi erano, con combinazioni infinite, messi in movimento. Compari numerosi e commessi seguivano i sensali più in vista, notati e sospettati quale fosse sostenuto, quale combattuto da De Martino o da Perfetti. Era un tal Novieìlo, il primo sensale di Perfetti; ma don Nicola Stella e Savini, detto California, Porzio, Ricciardi, Imperato, Amendola, i fratelli Di Pompeo ed altri componevano lo stato maggiore, che le operazioni del Perfetti accompagnavano con le proprie. De Martino aveva Vincenzo Mollo, quel Luigi Sgrugli, simpatico a tutti ed il romoroso Vincenzo Russo, cambiavalute a San Giacomo con molti capitali; e con questi speculatori non meno potenti che arditi, combattevasi, sperando che una liquidazione o l’altra si avesse a fare a dieci carlini il tomolo, e che i pugliesi ne dovessero fallire. Ricordo anche fra le case commerciali quella dei fratelli Rogers, inglesi, i quali negoziavano molto in cambii, in rendite e anche in grani ed olii.


Ma l’Impero in Francia, con la sua politica doganale, favoriva lo sviluppo industriale; i traffici aumentavano, stimolando, con l’aumentato lavoro, l’incremento della popolazione e de’ consumi: i grani seguivano, come gli altri articoli, questo moto, e quello non meno efficace dell’arrivo in Europa delle masse del nuovo oro dalla California. Perciò era facile prevedere che ogni nuova lotta era una sconfitta per i ribassisti ed il loro capo; quantunque questi avesse trovato nel suo associato, Federico Pavoncelli, una nuova forza ed un uomo capace di riprendere la situazione in Puglia ed abbattere l’influenza di Perfetti, migliorare le qualità dei grani, coordinare il lavoro, e fare brillantetemente la campagna del 1856, quando fu concessa l’esportazione dei grani, non creduta possibile dal De Martino, il quale si trovò ribassista, e solo a sostenere l’impegno di seicentomila tomoli di grano, da consegnare in pochi mesi. Raffaele Perfetti morì nell’autunno del 1867, ma prima di morire manovrò con tanta abilità, da indurre il suo rivale De Martino a vendergli molti e molti grani, per consegna alla nuova raccolta, al prezzo di carlini sedici e mezzo, o dieciassette il tomolo. Quando [p. 309 modifica]venne l’agosto, il grano valeva ventuno e ventidue, ond’egli fece un grossissimo guadagno.

Federico Pavoncelli rimase quasi arbitro del mercato dei grani dopo il 1856 e negli anni posteriori, e morì vecchio, lasciando una cospicua sostanza. Uomo di talento commerciale non comune, egli creò dal nulla il suo patrimonio, in circa mezzo secolo di lavoro perseverante e sagace, e di economia rigorosa. Era nato per eccellere dovunque rivolgesse la sua attività e il suo ingegno; e se invece di svolgere la sua azione nell’antico Regno, e più nella piccola Cerignola, centro delle sue operazioni nelle Puglie, avesse avuto per campo l’inghilterra o l’Olanda, avrebbe accumulata una sostanza assai più cospicua. Io conobbi questo singolare vecchio un anno prima della sua morte. Giuseppe Pavoncelli, deputato al Parlamento e già ministro de’ lavori pubblici, fu il braccio destro del padre; da giovane fece il sovrastante ai magazzini di grano a Barletta, e s’arricchì da sè della geniale cultura onde è dotato. II più grande impulso alla trasformazione agricola in Puglia è merito del padre e del figlio. Quando videro che, per le mutate condizioni del mercato dei grani, la Russia, l’India e l’America riversavano nell’Europa torrenti di cereali, e che perciò il commercio di questi era finito, si volsero all’acquisto di terreni; e duemila ettari di terra trasformarono in un solo vigneto, con stabilimenti enologici, che sono fra i maggiori del mondo.


Nella gran dogana si accentrava tutto il movimento delle mercanzie; ai “Molo piccolo„ si negoziavano le frutta; al Mercato, al Carmine, le frutta secche e i legumi; a Portanolana, la crusca e le carrubbe — sciuscelle — e si negoziavano pure i grani provenienti per via di terra, e perciò detti “della Vatica„. Interessante era il commercio dei carboni, per massima parte provenienti dalla costa romana, insieme alle fascine, che anche oggi occorrono largamente per provvedere ai numerosi forni della città. Questo commercio era nelle mani di un tal Papaccio, nel quale si raccoglievano tutte le furberie del mestiere. Le fascine venivano con legnetti da cabotaggio, che caricavano sulla costa, da Terracina a Orbetello, ogni derrata, dal carbone all’olio. I facchini si chiamavano “scaricanti„ e tra essi la camorra reclutava i suoi migliori aggregati. Questi però [p. 310 modifica]costituivano la plebe, perchè la classe aristocratica dei facchini era quella, che scaricava merce al Mandraochio e carbon fossile al “Molo grande,,; e stimavasi buon posto e miglior fortuna il farne parte. Il commercio del carbone s’andava sempre più sviluppando, per il lavoro più attivo di Pietrarsa, e per gli opificii che aumentavano di numero. La casa Volpicelli teneva il primo posto in questo traffico, ed è ad essa che si ascrisse il De Sauna, la cui casa, in poco tempo, divenne importantissima. Ma era la gran dogana l’ambizione di tutti: colà si raccoglieva il commercio di minerali, manifatture, droghe, coloniali. Imbert, Aimè, e Leriche trattavano specialmente i prodotti chimici; Radice, le profumerie, e la haute du pavè era tenuto da’ Ceolini, da Jesu, da Caprile, da De Angelis; tutti grossi e ricchi importatori di oolonìali. Essi poi li spandevano nelle provincie ai numerosi loro clienti; e questi alla loro volta vendevano al minuto, con lucroso vantaggio, nelle piccole città, insieme alle candele votive, la cannella, il pepe, il rosolio, lo stomatico, la cera ed i confetti di Sulmona, duri come pietre.

Seguivano i mercanti di tessuti, fra i quali eccellevano Cosenza, Cilento, i fratelli Galante, Marasca, e i fratelli Palomba; e nell’articolo cotone, allora come oggi, dominava la più vecchia e rinomata casa estera forse del Regno, Wonviller, ora Asselmeyer. In lana negoziavano Porzio, Langensee, Buonanno, ed un tempo pure i fratelli Buono. Cosenza, Giovanni Porzio, ed altri parecchi tessitori del Salernitano depositavano ne’ magazzini della vecchia Napoli, dove maggiore era il conoorao de’ compratori dei vicini paesi, i tessuti più adatti ai maggiori bisogni ed alle non raffinate esigenze del mercato. Elescher forniva i legnami provenienti dal Nord, usati specialmente per antenne alle navi; ed insieme a questo era reputato buon commercio quello del legno da ebanista. Tali commerci, insieme a quelli della canapa, del Uno, della robbia, allora sì ricercata, erano appoggiati a tradizione antica, con clientele fatte fra grossisti, gente sobria e di spirito acuto, che traeva gran profitto del suo capitale con la vendita al minuto.

Erano ultimi i tradizionali mercatanti, che ingombravano le straduccie della Napoli d’altro tempo e specialmente i quartieri di Porto, di Pendino e di Mercato, con le caratteristiche botteghe, povere di rèclame e di luce, ma ricche di merce e di [p. 311 modifica]quattrini contanti. Era celebre la via dei Mercanti, fra Porto e Pendino, ora mezzo distrutta dai lavori del Risanamento. Così, essendo vari i oanali, per 1 quali si dispensava il credito; e lento, ma sicuro il modo del suo sviluppo, pochi erano gli sbalzi, difficili le crisi, quando non le provocava un decreto del principe, il che non accadeva facilmente. Basta ricordare il commercio delle ouoia. Si compravano all’estero, e si rivendevano ad otto mesi di termine, nè erano rari i contratti ad un anno, o a diciotto mesi. Alcuni rammentano ancora la vecchia ditta Tramontano. Sulla porta della bottega, modesto e tranquillo, il capo della ditta trattava i suoi affari. Pronto all’inchino, appena si vedeva dinanzi un negoziante straniero, acquistava tutta la sua fierezza di mercante, quando era innanzi alla sua Madonna del Carmine, tempestata di ricche gemme, protettrice del negozio e guardiana della cassa di legno, larga quanto un grosso letto di stile spagnuolo. Non firmava mai promesse di pagamento, Per quei vecchi era vergogna rilasciar cambiali; e dalla sua cassa pagava invece in oro, in argento 0 in fedi di credito, cento e anche dugento mila ducati all’occorrenza.


Segni di nuova vita economica e di un certo risveglio industriale apparirono in quegli anni, ma pur troppo non si moveva foglia che il re non volesse, perchè lui, solamente lui, doveva misurare il grado di benessere dei suoi sudditi e lo misurava, come quello di casa sua, con parsimonia e scarsa luce d’intelletto. Egli amava la prosperità materiale del suo Regno, ma fino a un certo punto; voleva che il suo rifiorimento non avesse nulla da fare con la politica, e non fosse incentivo di altri bisogni o desiderii. Ogni novità, la più innocua, gli dava sospetto o paura, onde per un nuovo mercato che si aprisse, o per una nuova industria che si tentasse, o per una invenzione che si volesse applicare, occorreva un decreto di lui, preceduto da speciale deliberazione del Consiglio dei ministri. Nel 1857 si concedeva al signor Clemente del Re il privilegio, per cinque anni, d’introdurre nei reali dominii di qua dal Faro, un nuovo metodo di applicazione delle stampe nelle maioliche sopra la vetrina, secondo la descrizione depositata presso il Real Istituto d’incoraggiamento, lasciando libero ogni altro di esercitare la stessa industria in qualunque altro modo. Vincenzo Galise otteneva [p. 312 modifica]il privilegio d’introdurre la manifattura dei cappelli con ossatura di tela impermeabile; Enrico Thomas, quello di un nuovo metodo di conciar le pelli con materie minerali, e Francesco Lerario, per l’invenzione di una trivella e di un motore perii vapore d’acqua, d’aria e di gaz, prodotti da combustione. Nel 1858, il marchese Francesco e il cavalier Luigi Patrizi chiedevano il permesso di costruire due mulini sulle rive del Sebeto, in una loro tenuta presso la pianura della Bolla. Il re concedeva tale facoltà, avuto riguardo ai vantaggi spirituali degli abitanti di quella pianura, al cui beneficio i richiedenti avevano promesso di far celebrare, nei giorni festivi, una messa nella loro cappella, e avuto riguardo ai lodevoli servizii che da più anni il marchese Francesco prestava nell’amministrazione civile di Napoli, come Eletto della città. Ad Armando Leone fu data la concessione d’introdurre nel Regno un nuovo metodo per indorare, inargentare e platanizzare i cristalli; a Tommaso Dickens, di Middleton, fu conceduto il privilegio dei suoi perfezionamenti alle macchine da filare, raddoppiare e torcere la seta; a Desiderato Danton fu data facoltà di costruire una fornace a doppio effetto, per la fabbricazione della calce e la carbonizzazione e distillazione continua dei combustibili; a Luigi Raguseo, per la costruzione dei globi terracquei artificiali a rilievo, e a Giuseppe Carabelli, la facoltà di produrre nei fornelli maggior formazione di calorico. E per uscirne, nel 1859 Amato Berard otteneva il privilegio di estrarre olii, corpi grassi ed altre sostanze solubili col solfuro di carbonio. Fu bandito un concorso col premio di dodicimila ducati a chi impiantasse cinquanta telai per fabbricar panni; altri concorsi a premio venivano banditi dalle Società Economiche.

Le regie concessioni erano date in seguito a parere dell’Istituto d’incoraggiamento, il quale era un corpo consultivo dello Stato, specialmente per i privilegi industriali e d’invenzione. Nel periodo, di cui ci occupiamo, se ne rilasciarono anche al Pattison, per nuova disposizione di perni e bronzine nelle ruote idrauliche; al Guppy, per miglioramenti alle caldaie tubolari a vapore; a Francesco Vert, per i letti a molle; a Meuricoffre e Sorvillo, per miglioramenti alle balestre dei carri delle strade ferrate; a Niccola Rossi, per macchina da innalzare l’acqua dei fiumi e. animare insieme i molini; a Francesco [p. 313 modifica]Pignataro, per una macchina trebbiatrice a cilindri, al principe don Augusto Ruspoli, per molini conici alla Westrup; ad Antonio Caracciolo, per la fabbricazione della carta con le corteccie dì gelso e ad altri, i quali non ebbero ricordevoli successi nel mondo industriale dell’antico Regno.

Le memorie de’ socii, pubblicate negli atti dell’Istituto in quell’epoca (1855-1859) non sono notevoli per numero, nè per importanza di studii. Francesco dei Giudice, che fu poi, dopo il 1860, segretario perpetuo dell1 Istituto stesso, scrisse su istrumenti e macchine agrarie esposte in Francia e sulla possibilità del loro uso nel Regno: vi trattava di nuovi aratri, di erpici, di seminatoi, di mietitrici, di tritapaglia e molto superficialmente, come soleva. In agricoltura Giovanni Semmola scrisse una monografia sulla varietà dei vitigni del Vesuvio e del Somma e in fatto di scienze economiche, si ebbe una sola dissertazione di Felice Santangeli. Vi furono inoltre quattro memorie su argomenti di matematiche pure, scritte da Capocci, Rinonapoli, Tucci e Battaglini. Tutto questo rappresentò il lavoro dell’Istituto di incoraggiamento nell’ultimo quinquennio. Fondato nel 1806, durante la dominazione francese, aveva anche per fine l’incoraggiamento di tutte le iniziative individuali e sociali, diretto all’incremento della pubblica ricchezza, ma le iniziative mancavano. Ne fu per alcuni anni presidente il generale Filangieri, quando era direttore generale dei corpi facoltativi. Dopo il 1848 visse una vita anemica. Vi appartenevano come socii ordinarii, onorarii e corrispondenti, scienziati illustri di ogni parte d’Italia e dell’estero, ma non diè che ben magri risultati, come si può vedere consultando i suoi atti. Ora si è riordinato con criterii moderni, e n’è a capo Niccola Miraglia, e sembra predestinato a nuova vita.


Erano frequenti anche le concessioni di fiere e di mercati. Il Regno era povero di vie di comunicazione; i bisogni del commercio sempre più insistenti, e i comuni chiedevano e facilmente ottenevano la facoltà di tener fiere o mercati, almeno una volta l’anno. Non vi era comune di mediocre importanza, che non ne avesse. Godevano celebrità le fiere di Foggia, di Barletta, di Gravina, di Salerno, di Aversa, di Caserta, di Chieti e di Atripalda. Si contrattava principalmente in bestiame, e la fiera di Foggia era il gran mercato delle lane di Puglia. I liberali ne [p. 314 modifica]approfittavano per riunirsi senza sospetto e per manifestar voti, quasi sempre platonici. Erano le fiere anche uno scambio di conviti e di ospitalità, pericolose occasioni a giuochi d’azzardo, ma fortunate circostanze per annodar matrimonii. In tante famiglie di provincia si ricordava con compiacenza, che il matrimonio del nonno, o quello dei proprii genitori, era stato concluso, o n’erano state iniziate le trattative in una fiera, o in una fiera i giovani si erano veduti e innamorati. E si ricordavano pure grosse perdite al giuoco, non essendo raro il caso, che ricchi possidenti, andati alle fiere di Gravina o di Foggia a vender bestiame, ne tornassero senza bestie e senza quattrini, perduti a zecchinetta. Caserta aveva due fiere: una straordinaria il giorno dell’Ascensione, sulla spianata della piazza d’armi, dove erano menati gli animali rimasti invenduti alla fiera di Aversa; e una ordinaria, dal 24 al 31 agosto, oltre il mercato ogni sabato. Il re interveniva talvolta alle fiere di Caserta e si mescolava ai compratori e venditori, facendo anche degli acquisti. Era intelligente conoscitore di cavalli. Vincenzo Buonfiglio, ricco allevatore di Caivano, portò in una delle fiere di Caserta due puledri molto belli. Il re conosceva il Buonfiglio ch’era sua guardia d’onore. Osservate le bestie, disse al padrone: "Quanto ne vuò di sti pulidri?3 Rispose il Buonfiglio, non senza imbarazzo: “Con vostra maestà non si fa prezzo„. Ma insistendo il re, il Buonfiglio ne richiese cinquecento ducati. E il re: “Ssò troppo: te ne dò quattociento, e te faccio no bello regalo„.4 E acquistò i puledri per quel prezzo, e regalò al Buonfiglio un phaeton da caccia, alto e forte, che il Buonfiglio tenne nella sua scuderia per molti anni.

Nel 1857 veniva approvata l’istituzione di una Società anonima di assicurazioni marittime, sotto il titolo: La stella polare, “con facoltà di stabilire succursali nel Regno e all’estero„; e su proposta di Stanislao d’Aloe, era approvata una Compagnia industriale agronomica napoletana.

Buon provvedimento economico nell’anno 1858 fu di permettere per un mese e mezzo, dai primo marzo al quindici aprile, l’esportazione delle fave, col dazio di grana quaranta il cantato, delle minori civaie e del grano con più forte dazio. È noto che i prodotti [p. 315 modifica]agrìcoli erano soggetti a dazio di esportazione; anzi, per alcuni, l’esportazione era assolutamente vietata. Il nuovo provvedimento liberale fu a Ferdinando II consigliato dalla commissione per la revisione delle tariffe doganali, da lui istituita nel 1856. La presedeva Murena, e n’era uno dei membri più influenti Raimondo de Liguoro, già direttore generale delle dogane e antico fautore della libertà di commercio. Il Murena era invece protezionista; e quando Francesco II ne accettò più tardi le dimissioni da ministro e da presidente della commissione, ne divenne semplice componente, succedendogli nella presidenza il De Liguoro. Murena scrisse allora al De Liguoro una lunga lettera, scusandosi di non intervenire alle adunanze, perchè vi si sarebbero discussi provvedimenti contrarii ai suoi principìi protezionisti. Ed il re, cui fu mostrata questa lettera, disse, sorridendo: "Murena è persona degnissima e conservatore, ma qualche volta conservatore outré„, In quegli anni, gli olii di oliva oscillarono dai 26 ai 27 ducati: i calabresi di Rossano e di Gioia, più dei pugliesi di Bari e Gallipoli. Le mandorle si tennero tra i 25 e i 26 ducati; i grani, tra 21 e 22 carlini; per i fagioli bianchi non variò il prezzo di 17 carlini e le fave salirono da 11 1/2 a 12. Il cacio di Cotrone si quotava 20 ducati e un carlino il cantaio, e quello di Sicilia, 20 ducati. La rendita 5 % oscillò da 115 a 116 3/4.


Si costruivano poche strade, pochi ponti e molte chiese; ma, tranne per queste, tutto si faceva stentatamente. Nel bilancio figuravano poco più di tre milioni per lavori pubblici, ripeto! Si spendeva anche poco per i cimiteri, essendo per la sepoltura permesse ancora le chiese. I bisogni del Regno, in fatto di lavori pubblici, erano indefiniti. Nell’ottobre del 1858 s’inaugurarono i lavori della strada della Sila, alla presenza delle autorità ecclesiaatiche e civili; e pochi giorni dopo, il re con la regina, i figli maggiori e pochi ufficiali superiori, scortati da gendarmi a cavallo, si recarono a visitare il ponte Farnese sul Liri, presso il villaggio d’Isoletta, frazione del comune di Arce, Approvata l’opera, dovuta alla perizia dell’ingegnere direttore Ferdinando Rocco, il re volle proseguire per la via che mena ad Arce. Guidava egli stesso il phaeton, nel quale era la famiglia. A un certo punto di quella magnifica e ferace campagna, cui fanno corona le ultime propagini dell’appennino abruzzese, il re fermò i cavalli; e, chiamati i [p. 316 modifica]sottoprefetti di Gaeta e di Sora che lo seguivano, Francesco Dentice d’Accadia e Giuseppe Colucci, domandò loro come si chiamassero tutti i ridenti paesi, che sorgevano alle falde di quei monti. Saputo che si chiamavano Fontana, Arce, Rocca d’Arce, Roccasecca, Colle San Magno, Palazzolo Castrocielo, uscì in queste significanti parole: "Ecco, così dovrebb’essere tutto il Regno: la domenica, suona la campana, e si riunisce il Decurionato. Si delibera, e poi ciascuno toma alla campagna e al lavoro; mentre nelle città ...„ e qui s’interruppe. Proseguendo per Arce, giunse al bivio dove si stacca il tronco che conduce a Ceprano, ed arrivato in quella cittadina, desiderò di salutare il marchese Ferrari, non so se fratello o padre di monsignor Ferrari, ministro delle finanze di Pio IX. Scambiati con lui alcuni complimenti avanti al suo palazzo, tornò indietro, senza scendere dal legno, e rientrò a Gaeta a tarda sera.


Altri segni di risveglio non mancavano, e le Società Economiche vi contribuivano, come meglio potevano. Queste Società, delle quali ogni provincia ne aveva una, erano veramente più accademie che sodalizii diretti a migliorare l’economia pubblica e promuovervi l’industria, l’agricoltura e il commercio; furono istituite sotto Murat, e i Borboni non le abolirono, ma le vigilarono non senza diffidenza e non le estesero mai alla Sicilia. Ad esse non era dato fare di più, senza generar sospetti, e però tutte gareggiavano a chi contasse maggior numero dì socii onorarii e corrispondenti, scelti tra i più alti funzionarli dello Stato, nonché fra i più noti cultori di studi! economici e sociali. Ne erano a capo, col grado di segretarii perpetui, uomini di valore, come Giulio Petroni a Bari, Francesco della Martora a Foggia, Federigo Cassitto ad Avellino e don Raffaele Quartapelle a Teramo. Al Cassitto, che morì, come sì è veduto, quasi ottantenne nel 1853, e che fu dotto nelle scienze amministrative ed economiche, Avellino deve il presente orto botanico inaugurato nel 1851, due anni prima della sua morte, e una flora irpina, nella quale son classificate tutte le piante della provincia. Salerno ebbe un certo risveglio nell’agricoltura locale, soprattutto nella viticultura e introduzione delle piante da foraggio, e nella meccanica agraria.5 La Società [p. 317 modifica]Economica di Chieti era tra le più operose, perchè manteneva una scuola di disegno per la figura, dove insegnavano i pittori Marchiani, padre e figlio, che aprirono poi una litografia, la prima ad essere istituita negli Abruzzi, ed ebbero come discepolo un vispo fanciullo di Tocco Casauria, il quale, per aver eseguito un disegno a pastello alla piccola esposizione annua che apriva la stessa Società, meritò un sussidio mensile di sei ducati e fu mandato a studiare a Napoli. Quel giovane che divenne, via via, artista sommo, è il Michetti. La Società di Teramo era operosa egualmente. Nel volume dei suoi atti per l’anno 1857 vi si leggono quattro discorsi: uno del canonico don Felice Barcaroli, non privo di genialità, e uno sulle condizioni della provincia dei segretario perpetuo Quartapelle. Il terzo discorso di Gaspare Monti di Teramo è una sobria esposizione dei tentativi fatti di progressi agricoli e industriali, nonchè per aprire il sottosuolo ricco di pozzolane e masse calcaree, ferro e carbon fossile; e il quarto, pronunziato il 4 ottobre di quell’anno per festeggiare l’onomastico del principe ereditario dal consigliere di intendenza Taraschi, dipinge l’Abruzzo teramano come un Eldorado, una provincia progredita economicamente più d’ogni altra, e non era tutta iperbole almeno rispetto all’olivicultura e alla diffusione dei foraggi. Nei sussidii e negl’incoraggiamenti artistici alcune Società spendevano di più, e quanti genti incompresi di pittori e scultori non furono vanamente sussidiati! Certo il risveglio sarebbe stato maggiore, se le comunicazioni interne e quelle tra il Regno e il resto d’Italia fossero state men disastrose; se l’iniziativa privata non avesse avuto l’obbligo di sottostare al beneplacito del sovrano, e se nelle mani di lui non si fosse accentrato, come si è visto, non solo il potere politico, ma il principio di ogni benessere economico e sociale. Questo doveva aprirsi faticosamente la via tra prevenzioni, sospetti e lentezze burocratiche, e doveva superare le difficoltà del pregiudizio grossolano, dello scetticismo sfibrante dei sudditi, e delle paure immaginarie di un re senza ingegno, ma non vi è dubbio che, esaminando gli atti di quelle Società, si trovano manifestati frequenti desiderii, e proposte, ben inteso in forma strettamente ortodossa, dì miglioramenti economici, e soprattutto di strade, di arginature di fiumi e di torrenti abbandonati a sè stessi, e di nuove coltivazioni e sistemi agricoli da incoraggiare. Dalle Società Economiche nacquero le presenti Camere di commercio. [p. 318 modifica]Il Regno era poverissimo d’industrie: i soli veri centri industriali erano le valli del Liri, dell’Irno e del Sabato. Nel circondario di Sora fiorivano quattro cartiere: quella del Fibreno, di proprietà del conte Lefebvre; un’altra, appartenente ad una società napoletana, diretta dal belga Stellingwerf; una terza di Roessinger e una quarta di Courier. Eravi inoltre la grande fabbrica di panni-lana di Enrico Zino, che forniva l’esercito del panno color rubbio per i calzoni della fanteria. Altre fabbriche di pannilana le esercitavano Polsinellì e i fratelli Manna, in Isola del Liri; Pelagalli, Ciocodicola, Sangermano e Bianchi, in Arpino; Lanni, Picano e Cacchione, a Sant’Elia Fiume Rapido. Ricordo inoltre la grande cartiera dei Visocchi in Atina e ricordo pure che il governo esercitava le miniere di ferro in San Donato Val di Cornino, e il minerale veniva poi trattato in una magona, espressamente costruita nel territorio di Atina, fra il 1857 e il 1858. Sul Sarno, sull’Irno e sul Sabato erano le fabbriche di cotone, di lino e di lana, fondate da industriali svizzeri, francesi e anche nazionali, le quali prosperavano, per il sistema protezionista che informava la legislazione doganale del Regno. Il circondario di Sora poteva dirsi la Manchester del Napoletano. Insieme alle industrie vi fiorivano i buoni studii, pe’ benefici influssi della storica abbazia di Montecassino e del buon collegio Tulliano di Arpino, che i gesuiti non giunsero mai ad abbattere. Appartenevano a quel circondario Antonio Tari, di Terelle; Ernesto Capocci, di Picinisco; Giustiniano Nicolucci, d’Isola del Liri, professore di medicina nell’Università di Napoli, Giuseppe Polsinelli e Angelo Incagnoli, di Arpino, l’ultimo dei quali in gioventù pubblicò alcune lezioni di storia della filosofia, e fu poi deputato e morì amministratore del Fibreno. Vi appartenevano inoltre Giustino Quadrari, interprete dei papiri ercolanesi, e Giacinto Visocchi, morto innanzi tempo per un’infermità contratta in un acquedotto, dove si era dovuto rifugiare, per sottrarsi alle persecuzioni della polizia, della quale era strumento in quel comune un famigerato capo urbano. Non mancavano alcune piccole industrie d’importanza locale, e vanno ricordati i lavori in acciaio di Campobaseo e Frosolone; molti telai di tessuti grossolani; molte tintorie; molte miniere prive di capitali per lo sfruttamento, e pochi tentativi d’industrie boschive e altre di minuscola importanza.

[p. 319 modifica]Quando con un tratto di penna sotto la dittatura, il protezionismo venne abolito, queste poche fiammelle dell’industria napoletana si vennero via via spegnendo; e solo sopravvissero le poche fabbriche alle porte di Napoli, cioè le concerie di pelli e gli stabilimenti metallurgici, fondati da industriali stranieri, e la fabbrica di vetri al Granatello, fondata dal Bruno. Si difesero, anzi qualcuna rifiorì, come la fabbrica di vetri. Pietrarsa invece soggiacque a un destino avverso, e fu vergogna dei nuovi tempi, come si dirà più innanzi.


Il primo, che scrisse un serio lavoro a Napoli sul taglio dell’istmo di Suez, considerato in rapporto ai vantaggi possibili per il commercio napoletano, fa Guglielmo Ludolf. Il Lesseps avea publicato nel 1855 il suo famoso libro: Percement de l’istme de Suez, e nell’anno seguente il Ludolf, che certo avea tenuto presente quella pubblicazione, trattò nel Museo di scienze e letteratura lo stesso argomento, e quasi con identico titolo. Dopo avere accennato all’idea, che gli antichi avevano avuta, di congiungere il Mediterraneo al mar Rosso, e ricordato il commercio rimasto fiorente per l’Italia fino a quando il Mediterraneo fu la strada esclusiva per le Indie, lo scrittore napoletano passava a considerare sotto quali condizioni quest’antica strada, per il taglio dell’istmo, andava a riattivarsi, e come dovevano per necessità rifiorire in Italia la navigazione ed il commercio. Egli dava una statistica della marina mercantile de’ varii Stati italiani in quegli anni, notando che sopra un totale di 16 391 bastimenti italiani, il regno di Napoli ne contava 9174; e su 486 567 tonnellate, ne contava 213 197. Deduceva da ciò che i porti di Messina, di Palermo, di Cagliari e di Napoli, come i più vicini all’Egitto, sarebbero divenuti altrettante cospicue stazioni della strada delle Indie, mentre Genova e Venezia avrebbero raccolto il commercio della Germania e della Svizzera. Riteneva incalcolabili i frutti, che l’Italia meridionale avrebbe tratto dalla riattivazione di quell’antica strada delle genti; e notando che il regno delle Due Sicilie era uno Stato essenzialmente produttore e non consumatore, reclamava, in vista del nuovo e vastissimo orizzonte che si apriva agli scambi commerciali del mondo, la massima libertà dì commercio, Bellissimo studio, che levò molto rumore. Guglielmo Ludolf fu nominato in quell’anno incaricato d’affari in Baviera.

[p. 320 modifica]Com’è triste il considerare oggi, dopo più di cinquantanni dai giorni in oui si nutrivano tali speranze, che mancarono nel paese tutte le condizioni per vederle realizzate. Se la posizione geografica del Regno lo metteva, aperto il canale di Suez, in grado di trarne più di ogni altro paese il maggior vantaggio, pur troppo mancava ogni preparazione per divenire più tardi centro di commerci, di scambi, di depositi, di trasporti. Dove trovare la necessaria coltura commerciale, lo sviluppo del credito, l’ordinamento bancario, i docks, i magazzini generali, l’attività dei cittadini e l’intelligenza del governo? Fin dal 1858, undici anni prima dell’apertura del canale, l’Inghilterra, l’Olanda, la Francia, la Russia, gli Stati Uniti di America avevano ottenuto le grandi agevolezze commerciali col Giapponese; il re dì Napoli non pensava che a costruir chiese e a trovare una moglie al principe ereditario! Nè, dopo il 1860, vi si dimostrò più preparata la nuova Italia. A nulla valsero i lieti augurii, che il buon ministro Luigi Torelli trasse nel 1865 dal fatto, che ad attraversare il canale di Suez i primi due legni furono del mezzogiorno di Italia, anzi pugliesi, due barche peschereccio dì Trani, di dieciotto tonnellate ciascuna!




Note

  1. A Napoli, nel linguaggio dialettale, per dare maggiore importami alla proprietà edilizia, sì suole far precedere la parola palazzo alla parola casa, per far meglio intendere che il palazzo contiene parecchie case, ed è tutto posseduto da un proprietario; ai contrario di chi possiede, in un palazzo, un quartiere o quartierino, o piano, o bottega di esso.
  2. Con l’ordinamento dei ministro Sonnino a parecchi di questi mali si portò rimedio, abolendo censori e consiglieri di amministrazione presse le cedi, riducendo il numero dei consiglieri, rendendo questi ufficii quasi gratuiti. Con una seconda riforma si fece ancora meglio, iniziando la liquidazione del credito fondiario, mettendo a profitto una parte delle riserve, e dando al Banco un direttore, quale forse non ebbe mai. Con una terza legge infine, fu ridotto l’interesse delle cartelle fondiarie e prolungati i termini dei pagamenti, in seguito alle mie ripetute insistenze quando fui deputato. Con tali provvedimenti, e con un uomo come Nicola Miraglia, il Banco fu salvo, senza la totale rovina dei debitori suoi.
  3. Che prezzo vuoi di questi puledri?
  4. Son troppi: te ne do quattrocento, e ti fo un bel regalo.
  5. Un’interessante monografia sulla Società Economica di Principato Citeriore fu pubblicato nel 1903 da Paolo Emilio Bilotti, l’operoso direttore dell’archivio prov. di Salerno, lo stesso che ha scritto della spedizione di Sapri.