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dita di mobili, che non si scrivesse su fedi di credito o su polizze notate, con le quali si disponeva delle somme depositate al Banco. Proprietari e commercianti erano provveduti di piccole polizze, sulle quali si distendeva qualunque atto, tanto più che fedi e polizze potevano farsi anche per soli dieci grani. Con tale sistema, potendo ciascuno, come disse lo Scialoja, avere gratuitamente il notaio in saccoccia, la tassa di registro e bollo nel Regno rendeva pochissimo. Vero è, che, anche senza le fedi di credito e le polizza notate, il suo reddito sarebbe stato meschino per l’esiguità delle tariffe. La carta da bollo non costava che tre, sei o dodici grani al massimo, e l’avevano introdotta i francesi.

Reggente del Banco era il barone Francesco Ciccarelli, che occupava quel posto sin dal 1842, e vi rimase fino al 1860. Tanti anni di reggenza lo avevano reso espertissimo nelle cose del Banco. Aveva una debolezza per i titoli nobiliari, e da Pio IX, fuggiasco a Gaeta, ottenne il titolo di marchese di Cesavolpe. Nei 1860 la segreteria della Dittatura lo destituì, nominando in sua vece Giuseppe Libertini. Al Libertini successe Michele Avitabile, il cui marchesato fu posto in dubbio dal Settembrini in una celebre polemica seguita da un processo, nel quale l’Avitabile dimostrò che il titolo di marchese era stato concesso alla sua famiglia da Carlo III, A Napoli tutti lo chiamavano marchese, ed egli se ne compiaceva. Era vivacissimo e non senza talento. Circa tre anni durò l’Avitabìle in quell’ufficio, e nel 1863, per un enorme errore in cui cadde e che tutti ricordano, fu dal ministro Manna dispensato dal servizio e venne eletto deputato a Sansevero, andando naturalmente a sedere a sinistra. Ma negli ultimi anni del Regno era reggente, ripeto, il vecchio Ciccarelli e funzionava da segretario generale don Giovannino de Marco, famoso per la sua inesauribile partenopea parlantina.

Razionale ed agente contabile era Giovanni Amatrice. Al Banco c’era una tribù di Amatrice, anzi c’erano varie tribù; gli Aulisio, i Salerno, i Gambardelìa, i Capasso, i Ferraiolo, i Nappa, i Marino, poichè gl’impieghi andavano di padre in figlio, e non vi erano ammessi che i figli o i nipoti degl’impiegati. Altra tribù caratteristica era quella dei D’Amore, che avevano l’ufficio di archivisti da quasi un secolo. Era forse una necessità, perchè, essendo l’archivista responsabile di ciascuna carta ed