La fine di un Regno/Parte II/Capitolo X

Capitolo X

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CAPITOLO X


Sommario: Canofari annunzia la partenza di Garibaldi — Colloquio tra Francesco II e Filangieri — Castelcicala telegrafa a Napoli lo sbarco a Marsala — Consiglio di Stato del 14 maggio — Filangieri e Ischitella rifiutano di andare in Sicilia — Filangieri propone il generale Lanza — Il Re lo accetta — Le dimissioni di Castelcicala — Particolari su Ferdinando Lanza — Un incidente comico — Rapporto di Maniscalco — La situazione che trovò Lanza a Palermo — Suo sconforto — Si manda Alessandro Nunziante — Inettitudine dei generali — Differenza fra i due eserciti combattenti nell’Isola — Confusioni e contraddizioni — Una supposta lettera di Garibaldi — Le bugie del Giornale Ufficiale e la Cronaca degli avvenimenti di Sicilia — I nobili siciliani a Napoli — Le difese di Castelcicala — Postume lettere sue al generale Bonanno — Continua il mistero — Castelcicala non rivede più il Re.


Alle otto pomeridiane del 6 maggio 1860, mentre in Corte si facevano i preparativi per la visita, che l’indomani il Re avrebbe fatta alla cappella di San Gennaro, giunse un telegramma di Canofari, il quale annunziava essere partiti il giorno innanzi da Genova due vapori carichi di gente armata, diretti per la Sicilia per le coste di Calabria. Già da un pezzo, com’è noto, la polizia di Palermo e di Napoli era informata che si preparava uno sbarco di Garibaldi nel Regno. Non ignorava che Garibaldi era a Genova, dove, con Medici, Bixio, Crispi, Bertani e altri suoi fidi, attendeva a raccogliere volontari, emigrati e armi, sollecitando i preparativi d’imbarco per un’impresa in Sicilia o nel continente napoletano; e perciò fin dal 20 aprile, erano state destinate quattordici navi da guerra e due rimorchiatori, a fare un servizio di crociera intomo l’Isola, con quelle istruzioni, che ho minutamente riferite nel capitolo precedente. Il ministero [p. 214 modifica]e la Corte erano inoltre convinti che il Piemonte aiutava l’impresa, facendo mostra d’ignorarla o di disapprovarla. Altre informazioni, pervenute qualche tempo prima alla polizia, lasciavano credere che Garibaldi fosse a Tunisi.

L’annunzio di Canofari non giunse dunque improvviso; ma il pubblico ne seppe qualche cosa solo la sera del dì seguente, quando arrivò da Genova il vapore il Quirinale delle Messageries, il quale recò la notizia che a Genova eran tutti in festa, per la partenza di una grossa spedizione in Sicilia, capitanata da Garibaldi. Alle due del giorno 7, il Re, tornato dal duomo a Portici, mandò Nunziante a chiamar Filangieri, e a lui rivelò la cosa e gli chiese alcuni consigli circa la convenienza di far partire nuove truppe per la Sicilia. Era abbattuto e volle che Filangieri pranzasse a Corte. Vi pranzò anche il conte d’Aquila, che mostravasi furioso contro Maniscalco; nè a dir male di Maniscalco era solo il conte d’Aquila. Il principe di Rammacca faceva altrettanto in quei giorni, e il Re gli rispondeva: “Hai ragione, ma in questo momento non posso cambiare nè il direttore di polizia, nè il comandante della piazza di Palermo, nè tutta la compagnia dei Carega, Puntillo, Chinnici; pazienza dunque, ed aspetta„. Il principe di Rammacca era stato Pari nel 1848, tra i più esaltati, per cui andò fuori dal Regno; ma ad intercessione di Cassisi ebbe grazia dal Re, si convertì, si stabili a Napoli e andava a Corte. 1

Il giorno 11, a un’ora dopo mezzogiorno, il principe di Castelcicala annunziò con un telegramma al Re lo sbarco di Garibaldi a Marsala, e il Giornale Ufficiale, non potendo più tacere, riferi, quattro giorni dopo, il fatto in questi termini: “Un atto di flagrante pirateria veniva consumato l’11 maggio mercè lo sbarca di gente armata alla marina di Marsala. Posteriori rapporti han chiarito esser la banda disbarcata di circa 800, e comandata da Garibaldi. Appena quei filibustieri ebbero preso terra, evitarono con ogni cura lo scontro delle reali truppe, dirigendosi, per quanto ci vien riferito, a Castelvetrano, minacciando i pacifici cittadini, e non risparmiando rapine, e devastazioni di ogni sorta nei comuni da loro attraversati. Ingrossatisi nei primi quattro giorni della loro scorreria con gente da loro armata e profusamente pagata, si spinsero a Calatafimi„.

[p. 215 modifica]Il 12 maggio, il governo di Napoli inviava ai suoi rappresentanti all’estero questo dispaccio, sottoscritto da Carafa: “Malgrado gli avvisi dati da Torino e le promesse di quel governo di impedire la spedizione di briganti organizzati ed armati pubblicamente, pure essi sono partiti sotto gli occhi della squadra sarda, e sbarcati ieri a Marsala. Dica a codesto ministero tale atto di selvaggio pirateria promossa da Stato amico,. E nel pomeriggio del 14 maggio, il ministro Canofari rimise al conte di Cavour una nota assai vivace, colla quale si dichiarava responsabile il governo piemontese della spedizione di Garibaldi, e lo si accusava di averla favorita. Rispose Cavour respingendo le accuse, e citando, come prova delle sue affermazioni, il fatto di avere impedita la partenza di altri due legni, carichi di volontari, pronti a raggiungere Garibaldi.


Nello stesso giorno, 14 maggio, si riunì a Napoli il Consiglio di Stato. Per la prima volta, da quando non era più ministro, vi fu invitato il principe di Satriano, e v’intervenne anche il conte d’Aquila. Essendo infermo il principe di Cassaro, riferì per lui Ferdinando Troja. Non si parlò che delle cose di Sicilia, e si fecero da tutti i ministri grandi pressioni su Filangieri, per indurlo ad andare nell’Isola, con pienissimi poteri. Ma Filangieri ricusò, mettendo innanzi la grave età e l’impossibilità fisica di assumere, in momenti così gravi, una tale impresa. Il Re lo scongiurò di salvare una seconda volta la Sicilia alla Monarchia, ma egli persistė nel rifiuto e propose un piano di difesa, che parve eccellente e fu accettato. E poichè non si voleva più il Castelcicala, al quale si faceva risalire tutta la causa di quanto era avvenuto, fu deciso di far partire subito per Palermo il colonnello Barbalonga, con l’incarico di invitare il luogotenente a chiedere il suo richiamo. Ma urgeva provvedere al successore, il Filangieri stesso propose a tale ufficio, con tutti i poteri dell’Alter Ego, prima il generale principe d’Ischitella, che il Re accettò, incaricando lo stesso Filangieri di fargliene la proposta; e poi, quando l’Ischitella rifiutò, perchè, come egli disse, non voleva andare in Sicilia a fare il carnefice,2 propose il tenente generale Ferdinando Lanza, già suo [p. 216 modifica]capo di stato maggiore in Sicilia. Al Lanza, che era siciliano, fu dato, come segretario di Stato, Pietro Ventimiglia, procuratore generale della Corte dei conti di Palermo. Non fu una scelta felice quella del Lanza; ma a chi più tardi ne mosse lagnanza al Filangieri, che lo aveva proposto, Filangieri rispose che non c’era di meglio. Si affermò che la prima idea del Re e del ministero fosse quella di affidare lo stesso incarico al Carrascosa, e che il Re gli avesse detto: “Caro Raffaele, preparati a partir subito per Palermo con poteri reali, per domare la rivoluzione„; e che Carrascosa fosse andato a casa a far le valigie. Si disse pure che, per intrighi del Nunziante, quella nomina non avesse seguito, ma io credo la voce infondata, perchè Carrascosa era ancora più vecchio di Lanza e d’Ischitella. Si disse infine e con più fondamento, che il Re, visto Filangieri irremovibile e non meno irremovibile l’Ischitella, volesse mandarvi il Nunziante e che questi vi si rifiutasse; certo è che il giorno seguente il Re mandò a chiamare Filangieri, e tornò a insistere presso di lui, con le più vive espressioni, ma il principe di Satriano non si lasciò vincere, solo facendo intendere che se il giorno 3 aprile, prima della insurrezione della Gancia, il Re gli avesse offerto di andare in Sicilia, egli vi sarebbe andato. Francesco era in ansie, perchè attendeva da un momento all’altro l’annuncio di una battaglia. Fu dopo quest’ultimo passo fatto verso Filangieri, che il Re affidò a Lanza la luogotenenza e il comando generale dell’ Isola, e lo fece partire quella notte stessa.

Prima di andar oltre nella narrazione, bisogna ricordare che nel marzo il principe di Castelcicala, comandante in capo delle armi nell’Isola, e che aveva ai suoi ordini tre divisioni con tre marescialli di campo e varii generali di brigata, fu chiamato a Napoli. Richiesto dal Re, assicurò che la Sicilia era tranquillissima, e si trovava ancora a Napoli quando giunse la notizia dell’insurrezione del 4 aprile. È noto che fu la sorpresa grande e clamorosa in Corte, e Castelcicala ebbe ordine di partire immediatamente con istruzioni severessime per reprimere l’insurrezione: ordini, che il Castelcicala giudicò pericolosi o inefficaci, e non volle assumerne la responsabilità, per cui, il 15 aprile, inviò le sue dimissioni, pregando il Re a volerlo esonerare dall’ufficio, al più presto. Castelcicala era violentemente attaccato dagli zelanti, che lo chiamavano responsabile di tutto: il governo non [p. 217 modifica]gli dava forza, ma si rifiutava di accettarne le dimissioni; ma un mese dopo, avvenuto lo sbarco di Garibaldi, lo invitava, per non dire che lo costringeva, a ripeterle. In una lettera al principe della Scaletta, in data 28 maggio 1862, da Parigi, il Castelcicala scriveva:


Nella notte del 15 maggio 1860, il colonnello Barbalonga si recò presso di me a Palermo per trovar modo di farmi volontariamente rinunziare al comando delle armi in Sicilia, che il Re, dicea Barbalonga, volea affidare al general Filangieri. La notizia di quella missione del Barbalonga fu da lui e da altri sparsa ad arte in tutto quel Corpo d’esercito, onde, venutami meno ogni forza morale essenzialmente necessaria al Comando, dovetti indurmi a condiscendere, ad ogni costo, a quella poco onorevole proposizione. Non dirò quanto soffrii, e come esitai. La devozione all’Augusto Nostro Signore la vinse su tutte le considerazioni personali, e scrissi la lettera voluta, chiedendo il mio rimpiazzo. La lettera giunse: e fui rimpiazzato non dal Filangieri, ma da Lanza e perchè a me si sostituisse Lanza è a credere che la manovra de’ miei nemici, o meglio di nemici del Re fu molto abilmente diretta. Alle conseguenze naturali di quella manovra, che dovette gittar su me il discredito e la diffidenza, io attribuii ed attribuisco tuttavia la Sovrana indifferenza manifestatasi a mio riguardo in momenti solenni, quando cioè trattavasi di distinguere, in faccia al mondo intero, i veri dai falsi servitori della dinastia. nota


In quel giorno stesso, 15 maggio, il generale Ferdinando Lanza fu dunque nominato commissario straordinario in Sicilia, con tutti i poteri dell’Alter Ego. Era, ripeto, la persona meno adatta a coprire questo ufficio. Vecchio a settantadue anni, non aveva i precedenti militari di Castelcicala e di Filangieri, nè era un gran signore di nascita, come i suoi predecessori. L’esser nato a Palermo, ma non dalla storica famiglia dei Lanza o dei Lancia, gli toglieva credito, anziché dargliene. Era tenente generale da un anno; comandava la piazza e la provincia di Napoli; era stato capo dello stato maggiore del principe di Satriano nella campagna di Sicilia, e si ricordava il caso comico, che gli era capitato nella prima rassegna militare, poche settimane dopo l’ingresso delle truppe regie in Palermo. E il caso fu questo. Ricorrendo il 30 maggio l’onomastico del Re, il principe di Satriano ordinò una rivista al Fôro Borbonico, di tutte le truppe della guarnigione, fra le quali erano due reggimenti svizzeri. Ma in quel giorno, a causa di una pioggia torrenziale, la rivista non potè aver luogo, e il Filangieri l’ordinò per la 3 [p. 218 modifica]domenica successiva. E proprio sul più bello, quando tutte le truppe erano schierate, si rabbuiò il tempo dalla parte del monte Pellegrino, e un tremendo acquazzone impedi la continuazione della rivista. Le truppe ebbero ordine di tornare in tutta fretta ai quartieri. Ma le vie di Palermo erano torrenti, e la prima parte di via Toledo, quella che va da porta Felice sino a piazza Marina, chiamata Cassero morto, era divenuta un lago; i soldati ci guazzavano dentro, e i pantaloni bianchi dei soldati svizzeri facevano pietà. Il Lanza, capo dello stato maggiore, era a cavallo, in grande uniforme e decorazioni. Proprio innanzi al palazzo delle finanze, dov’è ora il Banco di Sicilia, il cavallo cadde e trascinò nell’acqua il cavaliere, che ne usci come un pulcino, perdendo alcune medaglie e il cappello piumato. L’ilarità non ebbe freno, e l’incidente, abbastanza disgraziato per un ufficiale superiore, tornò alla memoria dei palermitani, quando egli vi tornò come Alter Ego del Re e mise fuori un proclama dimesso, che parve quasi un atto di scusa e di sottommissione.

La sera del 16 ne fu dato l’annunzio al Castelcicala, che non se ne commosse, anzi firmò l’ultima relazione sullo stato dell’Isola, annunziando nuovi moti avvenuti a Catania, a Girgenti, a Noto e a Cefalù, e da temersi a Messina. Nulla sapeva ancora dello scontro di Calatafimi e relativa ritirata del Landi, che seppe la notte dal Ferro. Castelcicala partì la mattina del 17 e la consegna dell’ufficio, del palazzo, nonché delle vistose scuderie, delle quali il Lanza molto si compiacque, fu data dal Gallotti. Maniscalco, smesso ogni riguardo, mandò personalmente al Re la sera stessa del 10 maggio un memorandum allarmantissimo, che era quasi un atto di accusa contro Castelcicala, Vi si leggeva: “Peggiora lo spirito pubblico di Palermo; la fazione rivoluzionaria, divenuta potentissima, minaccia il massacro dei devoti della monarchia legittima; il terrore invade tutti; gl’impiegati disertano i loro posti; la voce del dovere non è più intesa; vi è una disgregazione sociale; tutti fuggono sui legni in rada per la tema di un generale eccidio, in caso di conflitto. Solo l’esercito conserva piena confidenza, ed è disposto ad ogni sacrifizio per l’onore della reale bandiera; fa d’uopo però di una mano intelligente e vigorosa per ben comandarlo e per rilevare il prestigio del governo quasi del tutto spento. E difatti, la manifesta inazione del [p. 219 modifica]luogotenente nel non voler impegnare le colonne separate ad attaccare Garibaldi, fa accrescere la costui importanza in faccia ai siciliani„. Ed egli stesso, il direttore di polizia, era così convinto dell’imminente ruina, che mandò la famiglia a Napoli, affidandola alle cure del principe di Satriano, col quale mantenne in quei giorni un vivo carteggio. E la signora Maniscalco coi figliuoletti, dei quali il maggiore aveva cinque anni, prese alloggio in un appartamento alla riviera di Chiaja, che Filangieri aveva fatto fittare, e dove il vecchio generale andava a far visita all’atterrita signora, rassicurandola circa le cose di Palermo, nel tempo stesso che rassicurava Maniscalco che la sua famiglia era al sicuro in Napoli.


Al Lanza si era dato un piano circa il modo di ripartire le truppe e prendere animosamente l’offensiva; ma appena giunto, egli ebbe come prima notizia la ritirata del Landi da Calatafimi, e l’avanzarsi di Garibaldi. Trovò le autorità demoralizzate o atterrite; diffusa e radicata la convinzione, che oramai senza più mistero l’Inghilterra, la Francia e il Piemonte favorivano la rivoluzione. Nella notte egli vedeva illuminati i monti della Conca d’oro, soprattutto dalla parte di Gibilrossa e Misilmeri, ed erano i fuochi delle squadre, le quali, a giudicare da quei fuochi, apparivano tanto numerose. Le notÌ2iie più strane si avvicendavano: chi diceva che Garibaldi era alle porte, confortando l’asserzione con l’ordine del giorno pubblicato dopo Calatafìmi, e con la lettera a Rosolino Pilo. In tale condizione dello spirito pubblico, Lanza pubblicò, il 18, quello sbiadito e timido proclama, il quale prometteva, come già fece Filangieri nel 1849, un principe della real famiglia per luogotenente generale del Re: promessa che nessuno prese sul serio, anzi si ricordò che Ferdinando II non l’aveva mantenuta nel 1849, come si ricordò il celebre capitombolo nell’acqua piovana del nuovo luogotenente. La sera del 17 egli inviò il suo primo rapporto al Re sullo stato della Sicilia, quasi tutta insorta ed invasa da delirio rivoluzionario, ed aggiungeva queste gravi parole: “Palermo attende il momento opportuno per sollevarsi. Vi perdura lo stato d’assedio; la posizione è tristissima; tutti emigrano; strade deserte; comunicazioni interrotte; distrutti i telegrafi; senza notizie: insomma lo stato della città è allarmantissimo, perchè saputosi l’esito del combattimento di Calatafimi„. All’arrivo di [p. 220 modifica]questo dispaccio il Re e il suo primo ministro, che era sempre il principe di Cassaro, decisero di far subito partire Alessandro Nunziante per Palermo, coll’incarico di persuadere il Lanza a prendere l’offensiva. Il Nunziante lo trovò, secondo riferì al suo ritorno, in uno stato di prostrazione; rifuggiva dall’offensiva; riteneva che non si dovesse sguarnire Palermo: qui egli voleva aspettare Garibaldi e sconfiggerlo, e nel caso che questo piano non riuscisse, ritirarsi su Messina. Lanza non mostrava maggior capacità militare del Castelcicala, anzi appariva in lui un minor ardimento e una prudenza che rasentava davvero la timidità. Il Nunziante non lo risparmiò punto, mentre Maniscalco si doleva che il luogotenente, col pretesto di non fornire al popolo di Palermo nuovi motivi di irritazione, avesse ordinata la chiusura di tutti i corpi di guardia, che egli aveva stabiliti per la polizia, nei quartieri più popolosi e facinorosi della città. Si disse pure che Lanza l’avesse fatto per aiutare la rivoluzione, e che, distribuendo le truppe per la difesa di Palermo, fortificasse la linea nord-ovest, lasciando indifesa la parte sud-est, dalla quale entrò Garibaldi. Lanza fu demolito appena dopo il suo arrivo, sia presso il Re, sia presso il governo di Napoli e di Palermo, che non credevano alle sue parole. Passò anche lui per traditore, ma fu semplicemente inetto. Paralizzato dall’ambiente, non ebbe un lampo d’audacia, anzi si trovò subito in disaccordo coi generali da lui dipendenti, e in primo luogo col Salzano, il quale aveva conservato i poteri ottenuti il 4 aprile, e corrispondeva direttamente col Re e col ministero. Surrogato il Salzano dal brigadiere Bartolo Marra, il Lanza non dette punto corso a quest’ordine, e Salzano restò, e restò anche il Marra, cui fu dato il comando degli avamposti a porta di Termini il giorno 26 maggio; e restarono quasi tutti i generali, la cui incapacità era fuori discussione. Il Re non perdonò mai a Filangieri la scelta del Lanza, e avendolo riveduto il 16 giugno, dopo che la perdita della Sicilia poteva considerarsi definitiva, non gli parlò delle cose dell’Isola, nè delle trattative con Napoleone per una mediazione. Solo gli disse, che aspettava di essere attaccato da Garibaldi sul continente, ma che contava combattere e difendersi a oltranza.4

[p. 221 modifica]I due eserciti, i quali si trovavano di fronte in Sicilia, erano tanto diversi l’uno dall’altro, non solo per numero, ma per lo spirito che li animava e per la causa che difendevano. Da una parte, l’ardimento più cieco, la temerità sino all’eroismo e una fede apostolica nella causa per cui combattevano, e alla quale, salpando da Quarto, i Mille avevano fatto sacrificio della propria vita. Dall’altra, un esercito numericamente grosso, ma senza ideali, senza capi, nè solida organizzazione e destinato a combattere solo per la causa del Re, il quale non era più Ferdinando II.

Da una parte un duce, creduto invitto dai suoi soldati e dai suoi nemici, circondato dalla leggenda e il cui nome ricordava, pur troppo, quella fatale ritirata di Velletri, che non fu una fuga, ma ne ebbe tutta l’apparenza: ritirata, che diè all’esercito napoletano il sentimento della propria impotenza a combattere un nemico, il quale non aveva paura della morte. Dall’altra parte, vecchi generali, brontoloni e scettici, i quali non si stimavano, anzi, con napoletano costume, si diffamavano l’un l’altro, apparendo peggiori di quel che realmente fossero e repugnavano dal fuoco, anzi dai perigli. La volontà di Garibaldi non si discuteva dai suoi militi, i quali, pur essendo un’accolta di uomini non tutti atti alle armi, o che nelle armi facevano le prime prove, consideravano la disciplina militare come una religione. Combattevano con la certezza di avere per sé il favore delle popolazioni di tutta l’Italia, e alle loro spalle il Piemonte, nonché le simpatie dei popoli liberi del mondo. I soldati napoletani erano certi del contrario.

Di qui i primi sgomenti e le prime incertezze del vecchio Lanza, e il rifiuto di prendere l’offensiva e di accettare quell’altro piano, che il 18 maggio, dopo la giornata di Calatafimi, gli andò a proporre il Nunziante; di qui il suo pensiero di concentrare ogni difesa a Messina, e poi le sue perplessità e le sue manovre sbagliate, e i malumori e gli equivoci tra lui e Salzano e gli urti fra Salzano e Marra, e le disubbidienze di Von-Mechel, che comandava il primo reggimento estero, e i contrasti fra costui e Del Bosco, e la contusione magna, accresciuta dal fatto che ufficiali superiori andavano e venivano da Napoli, con ordini e contrordini.

[p. 222 modifica]Il Lanza, dopo pochi giorni, divenne un Alter Ego da burla. Egli vedeva la propria autorità disconosciuta dai suoi dipendenti; e scorato dagl’insuccessi militari e dalla demoralizzazione, che già invadeva l’esercito, telegrafò al ministro della guerra, che “si desiderava la morte a settantatre anni di età, contandone sessantasei di servizio„. Pochi giorni dopo il suo arrivo, gli era stata recapitata questa lettera, già diffusa per Palermo prima che pervenisse a lui, e che egli credette fosse davvero di Garibaldi, mentre non si potrebbe affermarlo con sicurezza neppure oggi; anzi si potrebbe affermare apocrifa:


Garibaldi al Luogotenente Generale.

Eccellenza,

Spinto da doveri della mia missione vengo ad indirizzarvi poche linee. — Fra quanti preposti al potere del Re di Napoli voi, o Eceellenza, siete eccezionalmente onesto, e saprete anteporre ai doveri di suddito gli altri più cari di cittadino e d’Italiano. — Sarete persuaso che la causa di Francesco II è irrimediabilmente perduta — gli sforzi saranno inutili, la resistenza funesta, perchè io col mio coraggio, e quello di numerosi prodi, e col prestigio della santa causa che difendo, sarò in Palermo, e vincerò.

Risparmiate o Eccellenza, alla Europa lo scandoloso spettacolo di una guerra fratricida, e di vedere scorrere il sangue di uomini che unica favella parlano, che lo stesso sole riscalda.

Se queste esortazioni troveranno un’eco generosa in voi e nella truppa che comandate; se al pari delle guarnigioni di Girgenti e di Trapani, i soldati di codesta capitale fraternizzeranno coi fratelli Italiani, l’onore delle armi, e i debiti riguardi saranno dovuti alla militare divisa. Però ove questi consigli non saranno intesi, mi protesto con voi, e vi dichiaro che so fare la guerra, ma non come all’ordinario, e farò passare a fil di spada chiunque dei vostri sarà fatto prigioniero e non darò quartiere a nessuno. Pensateci!

Garibaldi.


I soldati napoletani non vincevano che nelle colonne del Giornale Ufficiale di Napoli, il quale in quei giorni dovette ricorrere a tutte le risorse della sua rettorica per magnificare il valore delle truppe regie e i loro fantastici successi. Vi era si il proposito di non far conoscere la verità al pubblico; ma, d’altro canto, il governo e il suo organo erano i primi ad essere ingannati, forse senza malizia, dai capi delle colonne militari che combattevano in Sicilia. Questi, non abituati alla tattica di Garibaldi e non indovinandone mai una mossa, chiamarono disfatta la fìnta ritirata di lui nell’interno dell’Isola, e, mentre egli meditava l’ardito colpo di mano su Palermo, scrivevano che, sbaragliato [p. 223 modifica]e inseguito a Corleone, stava imbarcandosi per lasciar la Sicilia. Il Giornale Ufficiale, con una curiosa sicumera, affermava che i garibaldini erano stati sconfitti a Partinico, a Monreale, al Parco, a Piana de’ Greci e a Corleone, e che a Partinico era stato fatto prigioniero il colonnello Bixio, o il figlio stesso di Garibaldi, e presso Monreale, unica verità, ucciso Rosolino Pilo. Vi si leggevano periodi di questo genere: “Siamo lieti nel ripetere che il valore, col quale le reali truppe affrontano dovunque, combattono e mettono in fuga le bande degl’insorti, in qualsivoglia numero si presentino, è superiore ad ogni elogio„. Chi non avrebbe creduto alle parole del foglio ufficiale, quando il generale Nunziante portava a Napoli, come segno di vittoria, due giubbe garibaldine giudicate in Corte non belle, nè brillanti? Tutti concorrevano a rappresentare una parte in questa triste commedia, prodromo della tragedia finale.

Quasi tutti i nobili siciliani, devoti ai Borboni, erano fuggiti a Napoli e circondavano il vecchio principe di Cassaro. Si facevano discorsi sulle cose dell’Isola, variamente congetturando. Non erano quei nobili benevoli a Maniscalco, che pur avevano adulato. Chi asseriva ch’egli coi suoi eccessi aveva provocata la rivoluzione; chi gli dava dell’imprevidente, e chi addirittura del traditore, paragonandolo a Fouchè. Più furioso contro di lui si mostrava sempre il conte d’Aquila. Al Re mancava ogni precisione di concetto; il suo verbo favorito era sperare; suo padre aveva accumulato un capitale di odii in Sicilia, ed egli era chiamato a portarne la responsabilità e non se ne rendeva conto, anzi sperava!


Il principe di Castelcicala aveva la coscienza di aver fatto il suo dovere, nè si acquetò alle accuse che gli furono rivolte, quando uscendo dal campo del vago, presero forma concreta e precisa in quella Cronaca degli avvenimenti di Sicilia, la quale venne fuori nel 1863, e ch’è una raccolta di documenti autentici circa le cose di quel tempo: libro divenuto oggi rarissimo. L’autenticità di quei documenti mi è occorso più volte di controllare, scrivendo questi volumi. Il Castelcicala riversava, invece, la responsabilità della giornata di Calatafimi da una parte sul tradimento del generale Landi e dall’altra sul mancato aiuto di quei due battaglioni, ch’egli aveva chiesto antecedentemente e ch’era sicuro [p. 224 modifica]sarebbero sbarcati a Marsala il giorno 12 maggio, mettendo Garibaldi fra due fuochi e tagliandogli la ritirata. Egli era persuaso di aver fatto il suo dovere, avvisando il Re subito che lo sbarco a Marsala era avvenuto, richiedendo i due battaglioni e avendone in risposta che questi sarebbero sbarcati a Marsala il di seguente. In seguito a tali assicurazioni, egli aveva mandata nella notte analoghe istruzioni al generale Landi e al maggiore Sforza, di concertare i loro movimenti con le truppe che dovevano sbarcare il 12 a Marsala, provenienti da Napoli. Questi battaglioni arrivarono tre giorni dopo, perchè si disse che Nunziante proponesse farli venire dal campo degli Abruzzi. Non due battaglioni di cacciatori, ma quattro battaglioni di fanteria e una batteria di artiglieria furono fatti imbarcare nella notte del 12 maggio a Gaeta, sotto il comando del generale Bonanno, alla volta di Palermo, dove avrebbero ricevute le irruzioni. E giunsero a Palermo la mattina del 14, troppo tardi per raggiungere Marsala e servire allo scopo. Ecco le precise parole del principe di Castelcicala, che tolgo dalla sua lettera degli 11 dicembre 1864, diretta all’Union di Parigi.


Conformemente al piano fissato da prima, tre battaglioni cacciatori partendo da Napoli dovevano rendersi immediatamente sul posto dove lo sbarco di Garibaldi sarebbesi effettuato. Il 10 maggio io ricevetti il primo avviso dello avvicinarsi di Garibaldi e lo trasmisi immediatamente alla flotta, il comandante della quale mi accusò ricezione del mio dispaccio. L’11 Garibaldi sbarcò a Marsala. Il giorno stesso il Capo del Governo ne fu avvertito e promise per l’indomani l’invio a Marsala dei battaglioni cacciatori.

Queste truppe non giunsero mai. Vogliano coloro, che si occupano di redigere la storia di questi deplorevoli avvenimenti, ricordare questo fatto la cui importanza fu suprema! Io lo ripeto e lo preciso. L’1l maggio 1860 un’ora dopo mezzogiorno io ricevetti l’avviso dello sbarco di Garibaldi: ad un’ora e dieci minuti trasmisi la notizia a Napoli, domandando i promessi battaglioni; alle cinque e mezza giunse la risposta; si prometteva per l’indomani, 12, l’arrivo a Marsala dei chiesti rinforzi.

Il generale Landi, che comandava in Alcamo, ed il prode maggiore Sforza, che io aveva inviato lo stesso giorno a Trapani con un battaglione, ricevettero nel corso della notte le mie istruzioni per concertare i loro movimenti con quelli delle truppe attese da Napoli. Queste truppe non si videro mai.

Il 13 allorché acquistai la triste convinzione che non bisognava più contarci, riunii le forze di Landi e di Sforza, dando loro l’ordine di marciare innanzi. L’autore della Cronaca dice che il battaglione di Sforza da Girgenti fu spedito in Alcamo per rinforzare Landi. No, no: il battaglione [p. 225 modifica]Sforza da Girgenti venne spedito a Trapani, ove restò due giorni, per attendervi l’avviso dell’arrivo dei battaglioni provenienti da Napoli, e fu solo dopo due giorni di aspettativa che il battaglione di Sforza fu spedito da Trapani ad Alcamo per rinforzare Landi.

Si sa quello che Landi fece a Calatafimi (quel Landi che il Re avea nominato generale otto giorni prima) ma è utile che si sappia, che se si fosse tenuta la parola, se non si fosse impedito con perfidi consigli dati all’Augusto mio Sovrano, la partenza dei promessi rinforzi, Landi non avrebbe avuto il tempo di rendere la sua memoria si tristemente celebre.


Giova però osservare che il solo ritardo dei due battaglioni non spiegherebbe la giornata di Calatafimi, poichè in Sicilia non vi erano meno di trentamila uomini, aumentati il giorno 14 dalla brigata Bonanno, la quale invece di sbarcare a Marsala il 12, sbarcò il 14 a Palermo, dove restò quasi inoperosa; e però il Castelcicala scriveva al Bonanno: “Ma, signor generale, nel ricevere l’11 aprile l’ordine di partire per Palermo, non avete voi capito che il Re, voi ed io andavamo ad essere vittime del più orribile tradimento, voi, che sapevate benissimo che annunziando io, lo stesso giorno, lo sbarco di Garibaldi, aveva chiesto l’invio immediato a Marsala dei due battaglioni promessi?„ E aggiungeva: “Aussi, j’ai repoussé comme une amère dérision, l’offre du commandant de la flotte, qui se disait prêt à vous transporter à Marsala: vous y seriez arrivé le 15, c’est à dire quatre jours après le débarquement de l’ennemi, qui avait déjà gagné l’intérieur de l’ile, et dont les traces étaient perdues. Vous dites avoir protesté contre mon refus, et je vous crois car vous êtes un soldat d’honneur; mais je regrette, et vous devez le regretter autant que moi, qu’au lieu de protester contre mes ordres à Palerme, vous n’ayez pas protesté à Naples contre cet ordre, qui, en vous éloignant si traitreusement du terrain de la lutte dans un moment décisif, a permis à Garibaldi, d’avancer, à Landi de trahir„. Per Castelcicala il Landi aveva tradito e lo afferma a chiare note. Fu poi errore, equivoco o anche tradimento, se quella brigata impiegò più di due giorni di viaggio, e si diresse a Palermo, anzichè a Marsala? Le temps ne favorira pas la traversée, rispose il Bonanno al Castelcicala, confessando che egli sapeva il motivo di quella partenza improvvisa. Lasciando il porto di Gaeta, j’appris, egli scrive, que Garibaldi était débarqué à Marsala; que de Palerme on avait demandé deux bataillons pour les faire débarquer dans le port, ou il était débarqué [p. 226 modifica]et pour le poursuivre. Tutto questo non avrebbe nesso logico con la rotta su Palermo, pour connaître l’endroit, secondo egli dice, où devait débarquer la brigade tout entière, ou deux bataillons seulement. 5 E perciò anche questo incidente rimane un mistero; e se la responsabilità del fatto debba attribuirsi al Bonanno o al brigadiere Salazar, il quale comandava i cinque vapori da guerra che trasportarono la brigata, non vi è alcun documento che lo attesti.

Il principe di Castelcicala, costretto a chiedere le sue dimissioni, non ebbe, dopo il 16 maggio, alcuna responsabilità diretta o indiretta negli avvenimenti di Sicilia, e tornò a Napoli, dove non fu ricevuto dal Re. Il giorno 22 maggio, primo anniversario della morte di Ferdinando II, egli assistette ai solenni funerali, che furono celebrati nella chiesa di San Ferdinando. Pochi gli rivolsero la parola, volendosi vedere in lui il solo responsabile delle cose di Sicilia. Quella cerimonia fu lugubre sotto ogni rapporto, e parve davvero il funerale della Monarchia. Nominato consigliere di Stato, il Castelcicala ebbe avviso di tenersi a disposizione del governo per una missione di fiducia, che non ebbe più. Lasciò Napoli il giorno 8 settembre, accompagnato dal suo fido segretario Domenico Gallotti, dopo aver invano chiesto di seguire il Re a Gaeta. Egli mori a Parigi nel novembre del 1866, senza aver più veduto Francesco II e fu questo, credo, il maggior dolore della sua vita, che cercò di sfogare in quella lettera al principe della Scaletta, di cui ho riportato innanzi il brano più caratteristico.






Note

  1. Archivio Filangieri.
  2. Mèmoires et souvenirs de ma vie — Parigi, 15 marzo 1864.
  3. Archivio Scaletta.
  4. Archivio Filangieri.
  5. Le prince de Castelcicala. — Paris, Imprimerie de Dubuissons et C. 1866.