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organi tutti del governo borbonico, produssero il loro effetto letargico anche in questa parte della cultura nazionale, nel Museo borbonico, come sugli scavi di Pompei e sulle stesse pubblicazioni archeologiche.
La tutela sulle antichità era regolata da due decreti de’ 13 e 14 maggio 1822. Severissime prescrizioni colpivano gli esportatori e coloro, che in qualsiasi modo si attentavano a modificare lo stato dei monumenti antichi, nè era lecito procedere a scavi di sorta, senza permessi e lunghi piati. Siffatti rigori, improntati dal famoso editto Pacca di Roma, naufragarono innanzi alle abitudini partenopee ed alla corruttela politica delle supreme autorità, e si risolvevano o in abusi contro determinate persone, o in eccezioni e favoritismi in pro di altre. Divenne famoso un ministro, che si formò una cospicua collezione di antichità col prodotto degli scavi. Per agevolare queste turpitudini e sfuggire a siffatti rigori, si contaminava il patrimonio della scienza con false indicazioni. Si attribuivano al Lazio oggetti ritrovati nella Puglia, all’Etruria altri di Campania, e scavi operati venti trent’anni innanzi, si gabellavano per ritromamenti recentissimi. Cosi la ricostruzione del complesso delle singole scoperte divenne, per la scienza, difficilissima, se non impossibile. E incalcolabile il danno arrecatole dall’avidità del Santangelo, che perturbò gravemente gli effetti della legge, nonchè l’azione della commissione suprema di antichità e belle arti. Questo Istituto, che rimontava a’ tempi di Murat, si trasformò, solo per un decreto del 7 dicembre 1856, in Sopraintendenza degli scavi e del Museo. Aveva attribuzioni scientifiche ed amministrative, ma più di nome che di fatto.
Il più deplorevole disordine regnava nelle ricche collezioni del Museo, a buon diritto noverato tra’ primi di Europa, per l’importanza e il numero immenso delle opere d’arte raccoltevi. Ammassate e chiuse nei magazzini giacevano le antiche pitture murali di Pompei. La raccolta epigrafica, disposta ancora secondo le classi dello Smezio e del Pauvinio, ristabilita nel 1823 dall’abate Guarini, si era quasi duplicata; ma le lapidi sopraggiunte rimanevano confuse con le precedenti o disseminate per l’androne e pe’ giardini del Museo; i frammenti di uno stesso marmo deposti in luoghi diversi; i titoli falsi o sospetti accoppiati ai genuini; uniti a’ marmi antichissimi quelli delle età più