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fondata una doppia diga a ferro di cavallo, per impedire che le acque si riversassero nel traforo, prima che l’incile fosse riedificato, e racconciato e corretto il lungo corso dell’emissario. Gli antichi pozzi e cuniculi si vedevano già ripurgati e ricostruiti. Sull’alto del monte Salviano erano sorte vaste scuderie, immensi magazzini, macchine, fabbriche di mattoni, fornaci, fucine e officine d’arte lignaria, di funi e gomene di ogni sorta: era tutta una città che sorgeva, fitta di una popolazione di operai, di minatori, di marrajuoli, di magnani, di fabbri, di malangoni, di carpentieri. Né mancò una chiesetta edificata per loro. Tutto rivelava, accanto alla grandezza dell’impresa e degli ingenti capitali che assorbiva, la prudenza, l’ordine, la dottrina che la governava.


Le difficoltà tecniche e logistiche, che si dovettero superare, furono immense. Le comunicazioni tra Avezzano e Napoli erano difficilissime. Un deplorevole pregiudizio militare e politico aveva potentemente contribuito a far giacere la Marsica, ed una gran parte degli Abbruzzi, in uno stato completo d’isolamento e di abbandono. Quivi era la più lunga frontiera del Regno limitrofo agli Stati del Papa, e per renderla meno accessibile ad un’armata nemica, non si era voluto costruire strade di comunicazione. Si era promesso a Gregorio XVI la costruzione di una strada carrozzabile da Roma a Napoli la quale, seguendo la valle dell’Aniene, sino ad Arsoli e costeggiando la frontiera di Carsoli, si sarebbe svolta sul bacino del Fucino, per discendere lungo la valle del Liri, a Sora ed a Napoli. Il Papa fece bensì costruire la strada che attraversava i suoi Stati, ma il governo napoletano non tenne la parola per il tronco a lui spettante, a causa di quel pregiudizio strategico e politico. Questa quasi barbara condizione d’isolamento della Marsica raddoppiò le enormi difficoltà per l’impresa del Fucino. Molte materie prime, molti istrumenti di lavoro bisognava farli venire da Napoli, e fu uopo anche, e spesso, di ricorrere a Marsiglia. Specialmente molti operai e macchinisti e minatori dovettero venire dall’estero. Ciò naturalmente faceva oltrepassare le più ragionevoli e più larghe previsioni nella condotta dell’opera. Non prima del 1865 si potè mettere mano ai lavori dell’emissario. Si trattava di penetrare nelle viscere della terra, a cento metri sotto il suolo e fra le rovine di ogni sorta dell’acquedotto romano, del quale si