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collocarono sul palcoscenico, presso ai due palchi di proscenio. La Regina sedeva allato al Re, e i principi presero posto in un palchetto accanto. Alzato il telone, gli alunni del reale ospizio di San Ferdinando cantarono un inno achillinesco, scritto per la circostanza da Enrico Mastracchi e musicato dal maestro Carlo Cesi. Cominciava:
Salve, o Re, che tua gloria ponesti |
E finiva:
Ah, se un dì funestissimo, il tempo |
Il poeta serbò fede ai Borboni, e io lo conobbi, venticinque anni dopo, in Roma, direttore d’un giornale clericale e borbonico impenitente.
Durante la rappresentazione, Ferdinando II parlò con Murena, con l’intendente, col ricevitore generale Daspuro e con le altre autorità. E poiché, come ho detto, aveva l’abitudine di tirarsi su per la cintola i calzoni, gli spettatori dovettero levarsi, quattro cinque volte, in piedi, credendo che egli si levasse per andar via. Alla fine del primo atto si alzò veramente per tornare all’Intendenza. Era stanchissimo; la notte avanti non aveva dormito; in teatro aveva sentito più forti brividi di freddo, nonostante il pesante cappotto militare. All’Intendenza ebbe luogo una suntuosa cena, dopo che dal balcone i Sovrani ebbero veduti i fuochi artificiali, che chiusero le feste di quel giorno. Alle dieci il Re si mise a letto. La partenza per Bari era fissata la mattina seguente, alle nove e mezzo.
Ma nella notte il Re si senti peggio. Crebbe il suo dolore ai lombi e un senso di oppressione gl’impedi di chiudere occhio. Aveva la febbre. All’alba (era di sabato) l’intendente fu chiamato in tutta fretta dalla Regina; ed entrato nell’appartamento reale, apprese in anticamera il malessere e la insonnia del Re, nella notte. Dopo un momento comparve la Regina, che