La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XVII
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CAPITOLO XVII
Nel 1859, quando Francesco, duca di Calabria, sposò Maria Sofia Amalia di Baviera, contava ventitre anni. Ferdinando II, deciso che ebbe di dargli moglie, condusse da sè e in segreto le trattative, che furono parecchie in più di una Corte di Europa. Si era trattato due anni prima con la Corte belga, per dare in moglie all’erede della Corona la bellissima principessa Carlotta, figlia del Re Leopoldo I, la quale sposò poi l’arciduca Massimiliano d’Austria e perdè la ragione dopo la tragedia di Queretaro; ma tanta fu la discrezione, con cui quelle pratiche si svolsero, che non se ne seppe nulla, come nulla si seppe del fidanzamento con l’arciduchessa Maria Sofia di Baviera, prima della richiesta ufficiale. Si disse, e non è improbabile, che la scelta della sposa fosse consigliata al Re dal conte Guglielmo Ludolf, ministro in Baviera; ma considerazioni politiche di non lieve importanza dovettero indurre il Re di Napoli a stringere maggiormente i legami di famiglia con l’impero austriaco, dando in moglie al figliuolo una cognata dell’Imperatore. Memore forse dei versi, uditi un anno prima alla rappresentazione della Stella di Mantova, egli passò in rassegna le principesse italiane, e forse si fermò su Maria Clotilde di Savoia, figliuola di Vittorio Emanuele II; ma non pare che vi siano state trattative neppure alla lontana. Il ricordo del suo matrimonio con una principessa di Savoia e l’astio, che palesemente nutriva verso la Corte ed il governo sardo, non potevano certo favorevolmente disporre l’animo del Re a quella scelta. A determinare invece quella della giovane duchessa di Baviera e a vincere le perplessità di lui, se mai ne ebbe, dovè concorrere la regina Maria Teresa. Ferdinando II teneva dietro, non senza inquietudine, agli avvenimenti che si succedevano in Europa; le sue diffidenze verso Napoleone e il Piemonte aumentavano di giorno in giorno, e pur non credendo ancora o fingendo di non credere, che i francesi sarebbero scesi in Italia per far guerra all’Austria e venire in aiuto della rivoluzione, un senso di timore lo aveva invaso.
Da qualche tempo il Re non si sentiva bene. Era incanutito, divenuto pingue, in maniera da non poter più montare a cavallo agilmente, ne rimanervi a lungo e di tanto in tanto, avvertiva una grande spossatezza. Il Ramaglia, qualche mese prima, aveva scoperta intorno al collo di lui un’eruzione erpetica di un rosso vivace, che lo impensierì e prescrisse una cura che non fu eseguita. Dieci giorni prima di lasciare Caserta, la Regina volle consultare nuovamente l’insigne clinico circa l’opportunità del viaggio, e il Ramaglia rispose: “Il Re non ha florida salute, ed io sono di parere che il viaggio nelle Puglie si dovrebbe rimandare alla prossima primavera; se irrigidisse il tempo, non so quanto ne soffrirebbe la salute del Re„. Alla Regina non piacque quel franco linguaggio e licenziò il Ramaglia con freddezza. Fu riferito anzi, che il Re dicesse al Ramaglia: "Don Piè, quant’hai avuto pe darme sto consiglio?„ E risolvette due cose: partire il giorno 8 gennaio per le Puglie e far celebrare per procura il matrimonio, nello stesso giorno, a Monaco di Baviera. Ordinò inoltre che la sposa, imbarcandosi a Trieste il 16 gennaio a bordo del Fulminante, sbarcasse a Manfredonia, rinnovandosi così, dopo 62 anni, la cerimonia che nel 1797 ebbe luogo a Foggia, nella chiesa della Madonna dei Sette Veli, quando Francesco I, allora principe ereditario, condotto da suo padre Ferdinando, sposò in prime nozze Maria Clementina, arciduchessa d’Austria, sbarcata appunto a Manfredonia. Colà cominciarono subito i preparativi per lo sbarco, venne stabilito minutamente tutto il cerimoniale, si pose mano a costruire il padiglione sullo sbarcatoio, e a ridurre in modo conveniente l’episcopio, dove la famiglia reale avrebbe alloggiato.
Le condizioni esteriori della felicità coniugale forse non mancavano. Cattolica e devota la Corte di Baviera, semplice l’educazione delle figliuole di Massimiliano Giuseppe e di Luisa Guglielmina, duca e duchessa di Baviera, tra per avito costume, tra perchè otto erano i figliuoli, e tra perchè assai modesto il patrimonio, tanto che Maria Sofia ebbe in dote soli 25 000 ducati, cioè cinquanta mila fiorini bavaresi, come risulta dal contratto nuziale stipulato a Monaco il 4 novembre 1858 e firmato dal barone De Pfordten, presidente del Consiglio dei ministri e ministro della Real Casa, e dal conte Ludolf. Ferdinando II costituì alla futura nuora una controdote di ducati trentaseimila. La dote fu pagata a Napoli, per mezzo del banchiere Hirsch. Ma quella semplicità era libertà nel tempo stesso, libertà comune alle grandi e alle piccole Corti tedesche. Maria Sofia e le sue sorelle giravano Monaco da sole, in carrozza e a piedi, guidavano cavalli, tiravano di scherma, si esercitavano al nuoto, avevano, insomma, educazione affatto moderna. Il padre loro, bellissimo uomo, il più bell’uomo di Baviera ai suoi tempi, era in fama di stravagante. Separato da sua moglie, viveva a Wützbourg fra amici e dissipazioni; e la moglie, zia del Re e sorella dell’arciduchessa Sofia, madre dell’Imperatore, attendeva personalmente all’educazione delle cinque figliuole. Non bella, la duchessa Guglielmina era dotata di grande energia e di vivace spirito d’intrigo. Non senza orgoglio aveva veduta la seconda delle sue figlie, la bellissima Elisabetta, divenire imperatrice d’Austria, e vedeva ora la quarta, Maria Sofia, avviarsi, non ancora compiuti i diciotto anni, al trono delle Due Sicilie. Fu lei, che condusse le trattative del matrimonio, mentre il duca se ne stava a Wützbourg e solo tre volte comparve a Monaco: il giorno della richiesta ufficiale, 22 dicembre 1858; il giorno del matrimonio, 8 gennaio 1859, e il 13 gennaio, quando la sposa parti. Una principessa bellissima e giovanissima, cresciuta in un ambiente non volgare, ardita e fantastica come suo padre e le sue sorelle, e vivace come la madre, non era la più adatta a entrare veramente nella Corte napoletana, immagine di tristezza, di vecchiezza e di pregiudizio; nè a divenire moglie di un principe bonaccione e credulone, soggiogato dagli scrupoli religiosi e inesperto della vita, che non aveva conosciuto mai donne, anzi le fuggiva, facendosi rosso nel viso quando non ne poteva evitare gli sguardi, e con un suocero giovane e vigoroso, soggiacente alla imperiosa volontà della Regina, matrigna del principe ereditario e austriaca.
Ma a tanta disparità intrinseca Ferdinando II non badò più che tanto, persuaso che avrebbe fatta lui l’educazione della principessa ereditaria: pretensione e leggerezza tutta borbonica, dalla quale non bastò a stornarlo l’esempio del suo primo matrimonio con Maria Cristina di Savoia, la cui educazione e le cui tendenze erano tanto diverse dalle sue.
La richiesta ufficiale venne fatta dunque, con grande solennità, il 22 dicembre a Monaco, dal conte Ludolf, ministro di Napoli. Era aggiunto di legazione Domenico Bianchini, oggi direttore capodivisione al ministero degli affari esteri, il quale ebbe l’incarico di presentare alla sposa sopra un cuscino di velluto il ritratto del fidanzato, dopo che la sposa ebbe dato pubblicamente il suo assenso. Era una miniatura ovale, molto fine. Francesco vi era raffigurato in costume di ufficiale degli usseri della guardia, e a tutti fece buona impressione. Corse la voce che fosse offeso in un occhio, tanto che una principessa di Corte ne chiese, riservatamente, al ministro e all’aggiunto, i quali si affrettarono a smentirla. Il matrimonio religioso ebbe luogo, con la stessa solennità, il giorno 8 gennaio. Procuratore dello sposo fu il principe Luitpoldo, fratello del Re e attuale Reggente. Il 13, la sposa lasciò Monaco, accompagnata dal fratello Luigi, dalla contessa Rechberg, dama di palazzo, dalla baronessa di Taenzl-Tratzberg, dama d’onore, dal tenente colonnello Heüsel, aiutante di campo del duca di Baviera, e da donna Nina Rizzo, mandata da Napoli come cameriera personale della giovane duchessa e che divenne via via, come si dirà, persona che più Maria Sofia amasse in Napoli e con la quale avesse maggiore familiarità. A Trieste, la duchessa di Calabria fu ricevuta a bordo del Fulminante dalla principessa di Partanna-Statella e dalla duchessa di San Cesario: signore piuttosto anziane e dal conte di Laurenzana, e che l’accompagnarono sino a Bari, insieme col duca di Serracapriola, commissario per la consegna della sposa. Ferdinando II aveva mandata a Monaco, oltre a donna Nina Rizzo, un’altra cameriera, donna Giovannina Lo Giudice, ma le due donne, contendendosi l’onore di fare ’a capanota alla duchessa di Calabria, si bisticciarono così clamorosamente, che Ludolf fu costretto a rimandarne una. Restò donna Nina, di certo più intelligente e vivace; e tornata l’altra in Napoli, andò in ogni parte narrando il caso suo, contandone di tutte le tinte contro la rivale, come napoletanamente si costuma, nè apparve più in Corte.
I giornali di Napoli ebbero tutti parole cortesi e auguri per il matrimonio. Il Nomade scriveva: “Ecco benedetto dal Cielo un legame, che riempie di gioia due Regni e compie i voti più cari di due Reali Corti. Possa la loro gioia esser duratura, secondo gli augurii reciproci degli uni e delle altre„. Auguri sinceri, perchè Francesco, in fondo era assai ben voluto e si aveva fiducia in lui, come si ha generalmente nei principi ereditarli: fiducia alla quale purtroppo risponde spesso, dopo che sono saliti al trono, il più malinconico disinganno. Tutti eran curiosi di vedere la sposa, che i giornali decantavano per la bellezza, per lo spirito e l’ardimento. Si diceva che, arrivando lei, la Reggia si sarebbe riaperta alle feste ed ai ricevimenti; che sarebbe ritornata la Corte a Napoli, e un nuovo soffio di vita avrebbe animato tutto quel vecchio mondo aristocratico e brontolone, condannato all’inerzia, pur essendo così avido di svaghi gratuiti. Nessuno fece sinistri prognostici, anzi tutti bene augurarono da quella unione, che riscaldò la musa di tanti poeti, ispirò narrazioni iperboliche a prosatori, e procurò forse la morte di quel povero Niccola Sole, il quale, non sapendosi sottrarre agli inviti insistenti di scrivere la celebre cantata, che Mercadante musicò e fu poi eseguita al San Carlo, n’ebbe, lui già cantore
1 dell’Arpa Lucana e autore delle famose ottave sulla tomba di Alessandro Poerio, tale pentimento o rimorso, che ne mori di crepacuore, si disse, nel Natale del 1859.
Poi avrà luogo la gran cantata, Niccola Sole. |
Cosi mordacemente verseggiava Carlo Zanobi Cafferecci in una specie di satira, dopo che egli stesso aveva stampata nell’ Omaggio Sebezio, volume di occasione per festeggiare il matrimonio, un’enfatica ode alla sposa. Eccone un saggio:
Oh! bel connubio! Qual d’avventurosi Borbonii gigli! |
Preparativi per il viaggio del Re nelle Puglie, e addobbi d’intendenze di palazzi di signori non vi furono, né dissipazioni di amministrazioni provinciali; che anzi, fino all’ultimo, l’itinerario fu tenuto segreto. Il Re stabili di compiere il viaggio in una quindicina di giorni, distribuendo le tappe cosi: da Caserta ad Avellino, da Avellino a Foggia, da Foggia ad Andria, da Andria ad Acquaviva, da Acquaviva a Lecce, da Lecce a Bari per l’andata; e per il ritorno: da Bari a Barletta, a Manfredonia, a Foggia, ad Avellino e a Caserta. Sarebbe stato ospite degli intendenti o dei vescovi, e mai di privati, anzi da nessuno avrebbe accettato colazioni o pranzi, così come fece nell’ultimo viaggio in Calabria. Aveva disposto che la cucina reale, col cuoco direttore Cammarano, facesse parte del seguito, portando tutto, anche l’acqua da bere in recipienti chiusi con lucchetto, perchè il Re era abituato a bere l’acqua detta del Leone di Posillipo. Gl’intendenti e i vescovi erano persone di sua assoluta fiducia, anzi dal Mirabelli, intendente di Avellino che sapeva a lui devotissimo, accettò un’ospitalità completa. Al Re erano poi fedelissimi il vescovo di Andria, Longobardi e l’arciprete mitrato di Acquaviva, Falconi.
Le carrozze da viaggio erano sei: tre di Corte e tre postali. L’amministrazione delle poste provvide al servizio dei cavalli. Il marchese Targiani e i fratelli, Maldura avevano l’appalto del servizio delle poste e procacci; e loro ispettore, incaricato del servizio cavalli e postiglioni, era Federico Lupi, in questo genere, assai capace. Egli ebbe pieni poteri per la scelta delle bestie e la loro impostazione lungo la strada. Fu uno dei pochi, che conoscesse tutto l’itinerario dal primo giorno. Egli portava, anche allora, trionfalmente, i suoi enormi baffi biondi, e fu perciò soprannominato dal Re, durante il viaggio, Mostaccione. Il Cervati era amministratore generale delle poste; lo stesso uffizio che ebbe nel 1860 il barone Gennaro Bellelli, quando andò a ricevere Vittorio Emanuele al confine di Abruzzo. Le poste dipendevano dal ministero delle finanze.
Opportune disposizioni furono date per la sicurezza delle strade. Squadroni di cavalleria e di gendarmi a cavallo perlustravano la strada consolare: più frequenti alla salita di Monteforte e nel vallo di Bovino, vecchi nidi di malandrini. Furono dati ordini alle guardie d’onore delle provincie di Terra di Lavoro e di Napoli di tenersi pronte ad accompagnare il Re, di tappa in tappa, e di raccogliersi a Nola, dove difatti si raccolsero, sotto il comando del duca di San Teodoro, caposquadrone, e di don Pasquale del Pezzo, duca di Cajaniello, caposquadrone in secondo. Il brigadiere don Riccardo di Sangro, comandante in capo di quelle guardie e cavaliere di compagnia del Re, fece parte del seguito dei Sovrani, il quale oltre al Re, alla Regina e ai reali principi: il duca di Calabria, il conte di Trani e il conte di Caserta, era formato dal Murena, ministro delle finanze; dal Bianchini, direttore dell’interno e della polizia generale; dal principe e dalla principessa della Scaletta; dal colonnello Severino, segretario particolare del Re; dal generale Ferrari, aiutante del duca di Calabria; dal colonnello Cappetta, istruttore dei principi secondogeniti e dal conte Francesco Latour, gentiluomo di settimana. Era un seguito ristretto, addirittura intimo. Il principe della Scaletta, Vincenzo Ruffo, e la bella principessa, nata contessa Wrbna di Vienna, dama di Corte della Regina, erano come persone di famiglia. Maria Teresa condusse inoltre una cameriera, la Rossi, moglie di un alabardiere, e il Re, il suo cameriere fido Gaetano Galizia. Vi andò pure una sorella nubile della Rossi, e si rise lungo il viaggio, credendosi che il Galizia facesse la corte a questa ragazza.
Gli addii di famiglia furono commoventi. Il Re e la Regina abbracciarono più volte i piccoli principi, che restavano, ma il Re pareva preoccupato; e se ostentava un po’ di loquacità scherzosa, tutti sentivano che quella loquacità non era spontanea, e difatti spari appena varcata la soglia della Reggia. Ne la Regina, né i principi che partivano e neppure lo sposo davano segno di gaiezza; anzi alcuni del seguito, napolitanamente, mormoravano, confidandosi paure e prognostici non lieti, per l’ostinazione, anzi per il capriccio del Re di compiere un lungo viaggio nel cuore dell’inverno.
Si fece colazione a mezzogiorno. Era di sabato; rigida la giornata, anzi cruda. Pesanti mantelli e pellicce coprivano gli augusti viaggiatori. Ferdinando II vestiva, come al solito, l’uniforme col tradizionale berretto di colonnello, portava guanti scamosciati e fumava i suoi favoriti sigari napoletani: anche i tre principi vestivano da militari.
Nel Chiuso — così chiamavasi quel punto del parco ad occidente del palazzo, dove la famiglia reale era solita salire in carrozza — si trovavano raccolti ministri, generali, direttori, impiegati e personale di servizio, per baciar la mano ai Sovrani e dar loro il buon viaggio. Le carrozze, dove montarono, erano naturalmente coperte. Nella prima presero posto il Re, la Regina, il duca di Calabria e il conte di Trani; nella seconda, il conte di Caserta, il generale Ferrari, il colonnello Cappetta e il colonnello Severino; nella terza, il principe e la principessa della Scaletta, il duca di Sangro e il conte Latour; nella quarta. Murena e Bianchini coi rispettivi segretari, Costantino Baer e Florindo de Giorgio; nella quinta carrozza, Galizia e le due donne di servizio della Regina, e nell’ultima, il cuoco Cammarano e due servi di cucina. Quest’ultima carrozza portava alcune provviste e quanto occorreva per mangiare, non che due brande e alcuni piccoli materassi. Seguiva un’altra vettura, ma non di Corte e vi prese posto Federico Lupi, supremo condottiero della spedizione, il quale calzava stivaloni sino al ginocchio e si dava molto da fare. Ad ogni carrozza erano attaccati quattro cavalli a coppie, con postiglioni.
Saliti tutti in vettura a un’ora pomeridiana, il Re diè ordine di aprire il cancello di fronte al quartiere della cavalleria ed aperto che fu dal vecchio guardaportone, Giuseppe de Flora, avendo visto appoggiati due cappuccini alle mura del quartiere, i quali si sprofondavano in inchini, Ferdinando li salutò, ma voltosi alla Regina, le disse: "Terè, che brutto viaggio che facimmo sta nota!2 Varcando il cancello, i Sovrani si segnarono e cominciò così quel viaggio, che doveva avere per epilogo una triste tragedia.
Verso il tramonto dello stesso giorno si scatenò un violento aeromoto su Caserta, che schiantò alberi secolari del bosco e mandò in frantumi parecchi vetri del palazzo reale. Il mattino seguente, neppure il treno tra Caserta e Napoli potè passare liberamente, perchè la via era ingombra da un grosso pino abbattuto dalla bufera nel giardino Ciccarelli, presso la stazione.
La prima tappa fu Avellino, dopo una sosta al celebre santuario di Santa Filomena, in Mugnano. Questo santuario fu, sino alla metà del secolo, celebratissimo per opera di don Francesco de Lucia, sacerdote mugnanese, il quale si era assunta la missione di far conoscere al mondo i miracoli di Santa Filomena, una santa bizzarra, come la chiamava lui. Per fortuna del santuario, Mugnano divenne per Ferdinando II un altro San Leucio. Quand’era a Caserta, vi andava per divertimento anche due volte il mese, nella buona stagione, e le sue gite avevano creata molta intimità fra lui e i mugnanesi. Se uno di questi riceveva un torto, esclamava invariabilmente: "Va bene; ce la vedremo quando viene il Re„. Al De Lucia erano succedute nella direzione del santuario le suore della carità, ma i decurioni, su proposta del sindaco Giuseppe Cavaliere, si avvisarono di donare il tempio a Ferdinando II, credendo con questo eccesso di zelo recar maggior vantaggio al paese. Però il Re non accettò il dono curioso e solo per soddisfare la molta vanità del marchese Del Vasto e di Pescara, lo nominò nel 1850 sopraintendente di quel santuario. A Mugnano si recò anche Pio IX nel 1849; vi celebrò la messa e dalla foresteria benedisse il popolo.
Il marchese d’Avalos fece gli onori del ricevimento, nella chiesa di Santa Filomena. Le case del paese erano imbandierate; e da ogni parte si allineavano compagnie di fanteria e squadroni di cavalleria. Le musiche militari annunziarono l’arrivo dei Sovrani. Alla porta del santuario, li attendeva monsignor misano, vescovo di Nola, che li benedisse con l’acqua santa, mentre le alunne dell’educatorio Maria Cristina cantavano un inno. La reale famiglia si prostrò innanzi all’altare di Santa Filomena, e il Re vi stette sempre con gli occhi bassi. Il suo contegno fece a tutti impressione: nessuno riconosceva più in lui il Sovrano, che tante volte nella stessa chiesa aveva suscitate le risa di tutti, con i suoi motti napoletaneschi e salaci. Si ricordava che la penultima volta, in cui egli era tornato a Mugnano per far celebrare le solite messe pontificali, volgendosi alla Regina, aveva esclamato a voce abbastanza alta, additando il capitano di gendarmeria Rega: "Guarda, Terè, com’è brutto Rega!...„ Ohe era accaduto? Il calore della chiesa piena di gente aveva disciolta la mala mistura, con cui il Rega si tingeva i capelli, e la mistura, colando, gli rigava di nero la fronte ed il volto. In quel giorno invece, non una parola scherzevole usci dalle labbra del Re. Dopo mezz’ora gli augusti viaggiatori, ricevuta la solenne benedizione, lasciarono Mugnano. Prima di partire, il Re volle che i principi donassero al santuario i bottoni di ametista e malachita, di cui avevano fregiate le camicie, per farne un ostensorio nel quale dovesse conservarsi il sangue di Santa Filomena. Il rettore della chiesa di Mugnano non dimentica di raccontare questo presente dei bottoni, quando narra le glorie del tempio ai pellegrini.
A Mugnano furono attaccati alle carrozze sei cavalli vigorosi, provveduti dal maestro delle poste Antonio Ippolito, che ebbe una lauta gratificazione. Tre erano i postiglioni del Re. Guidava la prima coppia di cavalli, Modestino Testa; la seconda, Giuseppe Tuccillo, tutt’e due di Avellino, giovanissimi; e la terza, un vecchio postiglione, detto Bellavomma. Il Re non parve soddisfatto di vedersi in balia di due giovanotti, ma Mostaccione, il quale nelle salite scendeva dalla sua vettura e camminava a piedi accanto a quella del Re, lo rassicurò pienamente.
Cosi mossero da Mugnano, in mezzo al popolo plaudente, scortati da un plotone di gendarmi a cavallo. Cresceva il freddo e cominciò a cadere la neve. I cavalli non potevano andare sempre di trotto; anzi, alla salita del Gaudio, il Re e alcuni del seguito dovettero fare un piccolo tratto a piedi. Fu questo l’unico momento durante il viaggio, in cui parve che al Re tornasse il suo umore abituale. I postiglioni erano soesi di sella e, camminando il Re accanto alla prima coppia di cavalli, poco discosto da Modestino, questi, vedendolo fumare, gli disse: "Maestà, me vuliti rà sta mozzone?.„3 Il Re, credendo di fargli cosa più gradita, gli dette un sigaro intiero, che l’altro prese di mala voglia, rigirandolo fra le dita e non decidendosi ad accenderlo, nè a metterlo in tasca. Il Re capi, e ridendo gli disse: "Nè, Modestiniè, te vuoi sfizià ’nfaccia ’o mozzone, eh? E pigliatillo.4 Rimontando in vettura, il Re ricadde nel suo mutismo. Nella discesa di Monteforte, per quella strada serpeggiante con dolce pendio che egli aveva fatto costruire dodici anni prima, allorché, discendendo per l’antica via, era ribaltata la sua carrozza, rimanendone incolume, Ferdinando II invitò la Regina e i figli a recitare il rosario, in memoria dello scampato pericolo.
Era già notte, e i cavalli andavano adagio fra la neve. Alla borgata Speranza, quasi alle porte di Avellino, s’incontrò un plotone di guardie d’onore con alcune carrozze di autorità e di notabili, e fu udita rumoreggiare, fra tutte, la voce stridente e calabrese dell’intendente Mirabelli, che ossequiava i Sovrani e i principi. Le guardie d’onore, dopo aver reso il saluto militare, presero il posto dei gendarmi attorno alla carrozza reale. Le comandava Giuseppe de Conciliis, e ne facevano parte parecchi giovani delle primarie famiglie. E da ricordare che ogni guardia d’onore doveva avere almeno una rendita di trecento ducati e mantenere il cavallo a proprie spese. Si giunse in Avellino alle sei e mezzo.
La città era illuminata e, nonostante il gran freddo, il popolo si accalcava per le vie. L’accoglienza però non fu molto clamorosa. Era corsa voce che il Re mal avrebbe sopportato un chiasso smodato, e si confortavano gli zelanti con la speranza di preparare feste maggiori per il ritorno, cioè all’arrivo degli sposi. Il contegno di Ferdinando II non era tale da suscitare entusiasmi. Il corteo riuscì confuso e disordinato, e chi volle entrò nel palazzo dell’Intendenza, dove si erano preparati per gli augusti ospiti tre stanze a un angolo del palazzo: quelle che si chiamano anche oggi appartamento reale, e formano i gabinetti del prefetto e del suo segretario. Su uno dei terrazzini di quel palazzo, sporgenti sul corso, che ora s’intitola Vittorio Emanuele, e allora si chiamava via dei Pioppi, Ferdinando II, quattro anni prima, sull’imbrunire di una splendida giornata estiva, prendeva un gelato conversando con vari personaggi. Scorgendo sulla via alcune signore, che passavano in carrozza sventolando i fazzoletti, il Re si sporse per salutarle, e nel fare quell’atto, gli scappò di mano il cucchiaino d’oro che cadde sulla strada. Era a guardia del portone un vecchio caporale di gendarmeria, Antonio Tamburrino, noto al Re. Ferdinando II, temendo che il cucchiaino venisse rubato, gli gridò dal balcone: " Tamburrì, Tamburrì: piglia sto cucchiarino, primma che i guagliuni ’o fanno volà„.5 Questa volta però i balconi erano ermeticamente chiusi per la tramontana, che soffiava, gelida e tagliente, e il Re, in cambio del gelato, prese una bibita calda, poi assistette alla presentazione delle autorità che gli venne fatta dall’intendente, con teatralità e lusso di aggettivi. La Regina fu ricevuta dalla signora Mirabelli e dalla gentile figliuola.
Don Pasquale Mirabelli Centurione era mezzo calabrese e mezzo basilisco, e da circa dieci anni governava quella provincia. Fedelissimo al Re, cui doveva l’elevato posto, per la simpatia ispiratagli dai suoi modi di attore da arena e dal suo spirito rozzo, ma non senza qualche acume, egli, nativo di Amantea, vi era stato sindaco e poi sottointendente, dalla quale ultima carica fu destituito durante il periodo costituzionale del 1848. La gesticolazione teatrale e l’enfasi calabrese erano gran parte della sua natura, ed egli, anzichè temperarle, le esagerava simulando sensi feroci, mentre in fondo aveva indole non cattiva, tranne coi liberali. Per questi perdeva addirittura la testa. Erano nemici del Re, e tanto bastava, perchè egli si potesse permettere ogni nequizia a loro danno, come fece con Poerio, Castromediano, Schiavoni, Braico, Pica, Nisco e gli altri condannati politici, rinchiusi nelle galere di Montefusco. Il suo governo fu demoralizzatore per necessità degli eventi e per la quasi assoluta assenza di carattere. Certo la dignità umana non deve molta riconoscenza al Mirabelli, ma egli fu personalmente onesto, e, perduto l’ufficio nel 1860, visse a Napoli in miseria il resto della sua vita. Suo figlio Filippo era sottointendente di Altamura.
Primi ad esser presentati furono il sindaco della città, don Niccola Maria Galasso, vecchio ed onesto amministratore; il segretario generale dell’intendenza Tortora-Brayda, che da poco tempo vi era stato destinato da Foggia; don Michele La Mola, presidente della Corte criminale e padre dell’attuale prefetto; don Giuseppe Spennati, procuratore generale; il presidente del tribunale Giuseppe Talamo e don Gaetano Barbatelli, ricevitore generale della provincia, il quale, perchè devoto ai Borboni, fu destituito nel 1860, e non avendo svincolata a tempo la grossa cauzione, vide andare in fumo la sua sostanza. Il Talamo, presidente del tribunale, aveva sensi liberali, nè li nascondeva. La casa sua e quella del vecchio colonnello de Concily erano il ritrovo dei liberali. Quest’ultimo, tornato nel Regno in virtù della Costituzione del 1848, era stato invitato dal Re a riprender servizio nell’esercito col suo grado di colonnello, ma ricusò e solo cedette alle insistenze dei suoi amici, Raffaele Carrascosa e Guglielmo Pepe, i quali lo vollero colonnello della guardia nazionale di Napoli. Abolita la Costituzione, si ritirò in Avellino e visse quasi da solitario. Garibaldi, con decreto del 10 settembre 1860, lo promosse generale, e Cavour, senatore del Regno, subito dopo l’annessione delle provincie meridionali. Mori nel 1866 in Avellino, all’età di 92 anni. In casa del De Concily convenivano in quegli anni Pirro de Luca, nobile animo e mente colta e geniale; Emidio de Feo, che ha lasciata onorata fama di sè; Gioacchino Orta, Domenico Capuano, Gioacchino Testa, Enrico Capozzi conservatore delle ipoteche, che univa alla grande fortuna spirito colto e gusto d’artista, il dottor Giuseppe Amabile, padre di Luigi, Angelo e Giuseppe Santangelo, Niccola e Vincenzo de Napoli, Tommaso Imbimbo e, fra i più giovani, Raffaele Genovese, Vincenzo Salzano, Florestano Galasso e Tito Criscuolo, i quali più tardi vedremo figurare tra i più ardenti nel movimento rivoluzionario. Motto d’ordine dei liberali avellinesi fu l’astensione completa dalle feste. La rigidità della stagione e l’età del De Concily, che aveva superato gli 85 anni, potevano rendere non sospetta l’assenza di lui, ma Ferdinando II la notò, nè mancò chi a lui la commentasse malignamente.
Furono poi presentati il commissario di polizia Iannuzzi, assai malvisto per i suoi eccessi sbirreschi, il capourbano don Domenico, don Micariello Festa, innocua persona e il generale Michelangelo Viglia, comandante militare della provincia. Viglia era succeduto al barone Flugy, morto tre anni prima, lasciando buona fama di se, perchè non aveva mancato più volte di rilevare in Corte gli eccessi sbirreschi del Mirabelli. Svizzero di origine, egli aveva natura generosa; era stato fedele soldato di Murat, compagno del De Concily e intinto di carbonarismo anche lui.
Queste furono le autorità avellinesi presentate al Re, insieme al mite vescovo monsignor Gallo ed ai principali cittadini: don Carlantonio Solimene, don Fiorentino Zigarelli, don Gianfrancesco Lanzilli, l’avvocato Luigi Trevisani, padre di Gaetano, ma per sentimenti politici da costui assai diverso e don Crescenzo Capozzi, fratello di Enrico e padre di Michele, deputato di Atripalda. Don Crescenzo era inquisitore costantiniano per la provincia. Erano tutti, naturalmente, in giamberga e guanti gialli. Il ricevimento fu breve e freddo. Il Re era visibilmente impaziente, parlò poco e tagliò corto sulle iperboliche adulazioni, che riuscivano insopportabili anche a lui; e alla fine, quasi seccato da tante cerimonie, chiese all’intendente: "Ne, Mirabè, che ce dai da magna stasera?„6 "Pacchere, pacchere, Maestà„, rispose il Mirabelli, ridendo e saltellando. E il Re: "E comme pacchere? Bella accoglienza ca ci fai coi pacchere; non è vero, principè?7 rivolgendosi alla principessa della Scaletta. Alle otto si andò a pranzo, e alla mensa reale presero posto i personaggi del seguito, l’intendente e la sua famiglia. Si mangiarono i famosi paccheri, fatti preparare dal cuoco del Mirabelli, felice che incontrassero il favore dei Sovrani, dei principi, ma soprattutto del principe ereditario. Il Re mangiò poco, seguitò a celiare con l’intendente, e levandosi di tavola, prima che il pranzo finisse, con un asciutto buona sera salutò i commensali e se ne andò a letto, aeguito pochi minuti dopo dalla Regina. Il seguito alloggiò in case private, e il principe e la principessa della Scaletta furono ospiti dell’avvocato Carlantonio Solimene.
La dimane il Re si levò di buon’ora. Era impaziente di partire, benché il tempo fosse orribile e seguitasse a cadere la neve, resa più tormentosa dal vento che soffiava gelido. Non ascoltò quanti lo consigliavano a sospendere la partenza. Volle mostrarsi anzi faceto, perchè alla principessa della Scaletta disse, appena la vide: “principè, vi che bella sorpresa viaggio cumbinata! Non ve pare de sta a Vienna, co tutta sta neve?„8 Il Re aveva ricevute molte suppliche per grazie e sussidi, e prima di lasciare Avellino dispose, insieme con l’intendente, alcune elargizioni di pani, doti, abiti e letti, ed offri un sigaro al Mirabelli, che questi conservò, finché visse, sotto una campana di cristallo. Elargizioni ne fece in tutti i luoghi dove si fermò, onde, quando giunse a Bari, si erano già distribuiti 35 000 pani, 400 doti di 60 e di 30 ducati, 230 abiti, 109 gonne, 540 camicie, 60 letti, oltre i sussidii in danaro. Atti di amministrazione, però, di cui si serbi memoria, non ne compi in Avellino, e si astenne persino dal visitare la cattedrale, come poi fece nelle altre città. Ma atti di amministrazione, rimasti memorabili, egli li aveva compiuti in Avellino tre anni prima, in un pomeriggio estivo, quando vi giunse, all’improvviso per la via di Monteforte, in un carozzino scoperto a due posti guidato da lui, con un altro personaggio, di cui non si ricorda il nome. Arrivò di cattivo umore, e fece subito chiamare alla sua presenza il direttore dei ponti e strade, non che l’ispettore e il vice-ispettore forestale. Con parole brusche rimproverò a quest’ultimo la sua imprevidenza, avendo viste dissodate alcune terre a pendio a Monteforte, e senz’ascoltar ragioni lo sospese dall’ufficio. Rivoltosi poi al direttore dei ponti e strade, rampognò anche questo pubblicamente per il cattivo mantenimento delle strade, come disse aver notato egli stesso. E poiché il direttore osò timidamente osservare, che dalla carrozza Sua Maestà non poteva essere stata in grado di valutare esattamente lo stato della strada, il Re gli rispose bruscamente: "Lo stato delle vie si valuta col e ... e non con gli occhi„.
Da Avellino si parti alle 11, e le guardie d’onore si spinsero fino a Piano d’Ardine. Giunte qui, il E,e volle che tornassero indietro, a causa della bufera che imperversava. Le ringraziò, assicurandole del suo prossimo ritorno con gli sposi e promettendo una fermata più lunga. Di là le carrozze reali tirarono via di corsa. I freschi rilievi, forniti dal maestro di posta, Vincenzo Siciliani, trottarono vigorosamente fino all’altura della Serra con soddisfazione del Re, cui il viaggio recava sempre maggiori disagi. Ma la soddisfazione ebbe corta durata. Da quell’altura la strada precipita sull’opposto declivio, in linea quasi retta, sino a Dentecane. Due miglia di fortissima pendenza e due palmi di neve ghiacciata! I cavalli sdrucciolavano, parecchi caddero, le ruote delle carrozze non resistevano ormai più alle martinicche. Si dovette scendere e andare a piedi per un miglio. Il Re camminava a stento, appoggiandosi al braccio di don Leopoldo Zampetti, guardia d’onore di Montefusco, uomo di statura gigantesca. I terrazzani, i sindaci e i decurioni dei vicini borghi, accorsi al passaggio con stendardi e bande musicali, si studiavano di diminuire l’asprezza del cammino, o spargendo terra sopra il ghiaccio, o battendo con grida festive i piedi sopra la neve, in modo da lasciarvi le impronte, sulle quali le Loro Maestà potessero camminare più sicuramente. Anche le donne buttavano i caratteristici mantelli sulla via, per renderla più agevole alla Regina, Cosi si continuò, per tutta la forte discesa, fra una bufera di neve. Tali dimostrazioni d’affetto confortavano assai mediocremente il Re, ma resero possibile la continuazione del viaggio. A Dentecane si rimontò nelle carrozze, che i contadini avevano sorrette per mezzo di funi. A memoria d’uomo non si ricordava una nevicata simile. Alle cave di Scarnecchia, i cavalli si dovettero staccare e le carrozze trascinare dai contadini. Federico Lupi moltiplicava la sua attività e bestemmiava sottovoce come un eretico, perchè il Re non lo udisse. Questi e alcuni del seguito scesero di nuovo e percorsero a piedi un altro buon tratto di strada. Non avevano stivaloni ferrati e perciò scivolavano, malamente ruzzolando per terra, e la Regina che aveva scarpine di seta fu li li per cadere anch’essa. Si sorreggevano al braccio delle guardie d’onore, imbarazzate nell’uniforme che non. erano avvezze a indossare. Alle cinque, come Dio volle, si giunse sotto Ariano, dov’era il cambio dei cavalli.
Il Re era assiderato e con lui quasi tutto il seguito, di cui facevano parte uomini avanzati negli anni e non avvezzi a tali disagi. Di tratto in tratto, egli prendeva qualche sorso di rum. La Regina mostrava una certa intrepidezza, che non riusciva però a dissipare la nota di malinconia, che su tutti incombeva. Non pareva gente diretta a una cerimonia di nozze, ma un corteo funebre, che la rigidità della stagione rendeva più lugubre, e un destino inesorabile spingeva su quelle vette solitarie, coperte di neve. Tutta Ariano aspettava alla stazione della posta. I Sovrani furono ricevuti dal sindaco Ottavio Carluccio, dal sottointendente Ercole della Valle, dal vescovo monsignor Michele Caputo e dalle minori autorità. Era calato il sole e il freddo si sentiva più intenso. Ariano non era segnata fra le tappe, e perciò, cambiati i cavalli, si sarebbe dovuto proseguire immediatamente per Foggia. Mostaccione affermava che nel vallo di Bovino era caduta una canna di neve e sconsigliava di andare innanzi. Il Re, disceso dalla vettura, andò a chieder consiglio ai personaggi del seguito, i quali risposero che si rimettevano a lui. Le autorità e la popolazione imploravano con alte grida che il Re rimanesse quella notte in Ariano, e il Re finì per acconsentirvi, rassegnato innanzi a forza maggiore. Si salì in città e bisognò, in fretta e in furia, preparare gli alloggi nella casa del vescovo per il Re, i principi e gli Scaletta, nel seminario e in case private per gli altri. Il Re scelse per sua camera da letto il salone e vi fece rizzare la branda. Volle che nella camera accanto dormissero gli Scaletta. Le due camere erano in comunicazione mercè una porta, ma don Vincenzo Ruffo vi addossò il letto, per rendere più libera la camera del Re. Aiutato dal cuoco del vescovo, Cammarano preparò in due ore un discreto pranzo, e alle 8 si andò a tavola e si mangiò di buon appetito, facendo specialmente tutti onore al piatto dolce, formato da magnifiche " meringhe„ . Si tentò di riscaldare le camere con bracieri, ma vi si riuscì molto imperfettamente. Quella notte non fu allegra per nessuno. La mattina di buon’ora il Re picchiò alla porta della camera dove dormivano gli Scaletta, dicendo al principe: “Paisanuzzo, sienti che frìddo; che stai facenno?„9 Scaletta: "Maestà, sto dormenno„ . Scaletta era siciliano e Ferdinando II, nato anch’egli in Sicilia, lo chiamava con quel vezzeggiativo familiare e parlava con lui il natio dialetto.
Si disse che il Re nella notte fosse colto da fortissima febbre e tormentato da visioni paurose. Fu anche stampato che Galizia, udito rumore nella stanza del Sovrano, vi entrasse e vedesse Ferdinando II in piedi, con una pistola in pugno, in atto di difendersi da un assassino immaginario. Si disse pure che il Re passasse il resto della notte insieme col Galizia e coi marinai di scorta, che non c’erano. Fantasie e bugie non si può dire se più strampalate o più sciocche. Alle nove del di seguente, il Re scese in duomo, per ascoltare la messa celebrata dal vescovo e i numerosi convenuti rimasero impressionati dal volto pallido di lui, dopo quel viaggio e quella notte così disagiata. Ma forse questa circostanza contribuì a creare la favola postuma che monsignor Caputo avesse avvelenato Ferdinando II. Il vescovo di Ariano apparteneva all’Ordine dei Predicatori ed era nato nel 1808 a Nardo; preconizzato, nel 1852, vescovo di Oppido in Calabria, fu traslato nel 1858 ad Ariano. Non era uomo da immaginar regicidii, anzi, fino al 1860, nessuno seppe mai che avesse nutriti sentimenti liberali, e lo si aveva invece in conto di fanatico reazionario. Fu solo dopo il 1860, che venne fuori la favola dell’avvelenamento, avvalorata dalla circostanza che il Caputo fu dal governo dittatoriale nominato cappellano maggiore, e dalla sua amicizia con quel padre Prota, domenicano anche lui, che svestì e rivestì la tonaca dell’Ordine. Monsignor Caputo era un bell’uomo, cui aggiungeva dignità l’abito bianco, ornato della croce episcopale. L’avvelenamento per cibo o per bevanda era impossibile, perchè il Re mangiò quello che mangiarono gli altri, e il pranzo non fu fornito dal vescovo, ma preparato dal Cammarano. Si disse che l’avvelenamento fosse stato compiuto per mezzo di un sigaro estero, regalato al Re dal vescovo dopo il pranzo, mentre è noto che Ferdinando II fumava solo sigari napoletani, e per quanto il suo fervore religioso gli facesse baciare la mano ai vescovi, nessuno di questi, e meno di tutti il Caputo, era con lui in tale dimestichezza, da prendersi la libertà di offrirgli un sigaro. Però la tradizione è rimasta viva fra i vecchi legittimisti, ed a conservarla contribuirono l’inconcludente vanità, meglio l’imbecillità del vescovo, il suo postumo liberalismo e l’affermazione di Mostaccione, che il vallo di Bovino biancheggiasse di una canna di neve, mentre non ve n’era punta. Si ritenne che il vescovo Caputo e Federico Lupi ubbidissero alla “setta„ che aveva giurata la morte di Ferdinando II. E vi contribuì anche il bisogno di attribuire la morte del Re, giovane a quarantanove anni e di complessione atletica, a ragioni straordinarie: tanto parve strana, nei suoi fenomeni, la malattia e più strana la circostanza, che nessuno degli altri viaggiatori, molti dei quali erano più anziani, soffrì nulla di grave, oltre l’incomodo del viaggio; nulla soffrì la Regina e nulla i giovani principi, i soli che si permettessero qualche volta di celiare, ma di nascosto, sull’imbarazzo dei pacchiani cerimoniosi e intirizziti dal freddo.
Alle 10 1/2 gli augusti viaggiatori mossero da Ariano per Foggia. Era la seconda parte di quella tappa assurda, che il Re voleva compiere da Avellino a Foggia: assurda, anche se le strade fossero state in buone condizioni, ma sempre però meno assurda dell’ultima tappa, da Acquaviva a Lecce, della quale si dirà appresso. Nell’atto della partenza non nevicava, anzi per un poco si vide il sole. Ma qualche miglio più in là, prima di entrare nello storico vallo di Bovino, riecco la bufera e con essa le difficoltà di andare innanzi. Alla salita di Camporeale, si scese di nuovo dalle vetture e il Re, che si sentiva molto stanco, si mise a sedere sopra un mucchio di sassi, che copri col suo mantello e vi rimase alcuni minuti. Nel levarsi, senti un acuto dolore all’inguine e stentò a rimontare in vettura. All’ingresso della Capitanata, là dove si succedono le montagne di Greci e di Savignano, si trovarono le autorità dei comuni del Vallo, con le guardie urbane e le bande musicali e con una folla di popolo, che acclamò i Sovrani. Al primo cambio postale presso Montaguto, furono incontrati da don Raffaele Guerra, intendente della provincia, dal comandante delle armi e da altre autorità provinciali. Tutto il Vallo era perlustrato da gendarmi a cavallo. L’intendente presentò al Re gli omaggi della provincia e n’ebbe in risposta poche e fredde parole. Fu ripreso il cammino che divenne men disagevole, di mano in mano che si discendeva in Puglia. La via era popolata da deputazioni dei vicini comuni e le guardie urbane, disposte in doppia fila, battevano i denti dal freddo, ma si sforzavano di simulare un aspetto marziale. Non vi era più neve. Le deputazioni e i decurionati avevano stendardi di mussolina bianca con gigli, e vi si leggeva il nome delle rispettive comunità, con la scritta Viva il Re. Al secondo cambio, al ponte di Bovino, altre autorità e nuove acclamazioni. Al terzo di Pozzo d’Albero, aspettavano le autorità comunali di Troja. Si giunse a Foggia alle quattro, tra una moltitudine di popolo plaudente.
Era sindaco di Foggia Vincenzo Celentano; caposquadrone delle guardie d’onore, Gaetano della Rocca; capo delle guardie urbane, Francesco Paolo Siniscalco. Foggia aveva fatti splendidi preparativi per l’arrivo dei Sovrani. Componevano la commissione dei festeggiamenti, Alessio Barone, Gaetano de Benedictis, Antonio Bianco, il marchese Saggese, Lorenzo Scillitani, che poi fu sindaco e deputato di Foggia e il notaro Andrea Modula. Rossi e Recupito furono gli architetti degli addobbi. Un arco trionfale sorgeva al principio del corso Napoli, ora Garibaldi: arco grandioso, coronato da statue rappresentanti il genio borbonico, che corona la Giustizia e la Virtù. Altro arco trionfale s’innalzava sulla via di Cerignola, e un tempio addirittura si estolleva accanto all’Intendenza, dove prese alloggio la famiglia reale. Su questo tempio erano dipinte su trasparenti le immagini delle Loro Maestà, con questa epigrafe: A Sua Real Maestà — Ferdinando II — Re del regno delle Due Sicilie — monarca e padre augusto clementissimo — Foggia — glorificata da un avvento sospirato memorando — colma d’ineffabil gratitudine — l’omaggio avito di sua devota sudditanza — e d’incrollabile fede — tributa reverente.
Festoni di mortella, candele di bengala e illuminazioni dappertutto. Le feste costarono, si disse, 6000 ducati, anticipati dagli appaltatori dei diversi servizi. Si aprirono sottoscrizioni private, ma fruttarono poco e fini col pagare il Comune, stornando quasi tutta la somma dalla fabbrica del porticato della villa. L’entusiasmo dei foggiani si spiega anche con questo, che consideravano Ferdinando II quale uno de’ loro, perchè era andato più volte alla loro celebre fiera di maggio, in borghese, con stivaloni e con grossa mazza ad uncino, a comprar cavalli e a vendere i prodotti delle sue tenute di Tressanti e di Santa Cecilia. Egli, che ci teneva ad essere un latifondista del Tavoliere, conosceva quasi tutti a Foggia, vi stava con grande fiducia e aveva preso a voler bene al brigadiere dei gendarmi, certo Fujano, borbonico furente.
Il corteo entrò da porta Napoli. Sotto il primo arco erano raccolte le altre autorità, col vescovo monsignor Berardino Frascolla, col clero e le congreghe. Il Re baciò la mano al vescovo e volle che la baciassero la Regina, i principi, l’intendente e tutti i personaggi civili e militari che l’accompagnavano. Mentre il Re baciava la mano al vescovo, si vuole che la statua della Giustizia, posta, come ho detto, sopra l’arco e fatta di cartapesta, girasse sul suo perno e che da ciò abbia poi avuto origine il detto locale, a riguardo della giustizia: “purché non si volti come la statua„. Il reale corteo si diresse alla cattedrale e il Re entrò nel tempio sotto un ricco baldacchino dorato, retto da otto decurioni. All’ingresso, monsignor Frascolla gli offrì l’acqua benedetta e l’ossequiarono i vescovi di Sansevero e di Lucera. Sull’altar maggiore della chiesa, riccamente addobbata con damaschi e broccati, era posto il quadro della Madonna dei Sette Veli, protettrice della città. Tutti s’inginocchiarono e fu cantato il Te Deum a piena orchestra, poi le litanie, alle quali segui la benedizione. Ferdinando II fissò il binoccolo sul quadro della Madonna per vederla meglio e, non riuscendovi, pregò il vescovo di fargli trovare, al ritorno, il quadro più in basso. Il quadro fu infatti abbassato, ma Ferdinando non lo rivide più. Dalla chiesa al palazzo reale, o dogana del Tavoliere, fu un cammino trionfale in mezzo a tutta la popolazione, stranamente esaltata. Saliti che si fu nell’appartamento, le ovazioni non cessarono. Il Re dovette ringraziare dal balcone che guarda la piazza San Francesco Saverio, mentre la Regina rimase dietro i vetri. I principi occupavano un altro balcone, e il principe ereditario gettava tarì10 al popolo, sollazzandosi coi fratelli a vedere il pigia pigia della folla per raccoglierli.
Durante la breve dimora in Foggia, Ferdinando II firmò l’atto sovrano, col quale volle "per così fausto avvenimento impartire i tratti della sua sovrana clemenza a coloro, che, per commessa violazione a’ precetti di legge, sono colpiti dalla corrispondente retribuzione delle pene„. Furono diminuite di quattro anni le condanne ai ferri, e di due le pene correzionali; vennero condonate le detenzioni ed ammende per contravvenzione, ma furono esclusi dalla sovrana indulgenza gl’imputati o condannati per furto, per falso, per frode, per bancarotta e per reati forestali. Quest’atto sovrano, datato da Foggia il 10 gennaio, comprese pure i condannati politici rimasti nelle prigioni, poichè a sessantasei di loro, ritenuti i più pericolosi, Ferdinando II, tre giorni prima di partire da Caserta, aveva commutata con altro decreto, come ho detto, la pena dell’ergastolo e dei ferri, in esilio perpetuo dal Regno. Di quei sessantasei, pochi sono i superstiti. Ricordo Achille Argentino e Domenico Damis, che furono dei Mille e poi deputati; Niccola Schiavoni, già deputato di Manduria e senatore del Regno. Damis entrò nell’esercito italiano, salì al grado di maggior generale e ora è in riposo anche lui; Argentino fu direttore di una succursale del Banco di Napoli; il duca di Caballino, Sigismondo Castromediano, morì nel 1895; due anni fa è morto Gennaro Placco, e l’anno scorso, Carlo Pavone, consigliere di Corte d’Appello a Roma.
Note
- ↑ Fraae di gergo dialettale, che vuol dire pettinare.
- ↑ Teresa, che brutto viaggio facciamo questa volta!
- ↑ Maestà, mi volete dare questo mozzicone?
- ↑ Nèh, Modestiniello, vuoi gustarti il mozzicone, eh? — Prendilo.
- ↑ Tamburrino, Tamburrino, raccogli questo cucchiaino, prima che i ragazzi lo facciano volare.
- ↑ Nè, Mirabelli, che ci dai da mangiare questa sera?
- ↑ Paccheri, specie di grossi maccheroni, che sono una ghiotta specialità di Avellino. Nel linguaggio dialettale paccheri vuol dire schiaffi, e perciò il Re scherzava sul doppio senso della parola.
- ↑ Principessa, guardate che bella sorpresa vi ho preparata! Non vi pare di stare a Vienna, con tutta questa neve?
- ↑ Paesanuzzo, senti che freddo; che fai?
- ↑ Moneta d’argento, equivalente a 35 centesimi.