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tirono pure medici e chirurgi e infermieri con biancherie e filacce. Si cercava riparare con la maggior sollecitudine e intelligenza ma il disastro era immenso, soprattutto in Basilicata; e la stagione cruda e la mancanza di viabilità, specie in quella provincia, lo rendeva addirittura terribile.

I morti superarono i 10000. Nel solo distretto di Potenza, che fu il più colpito, si ebbero 8909 morti e 1126 feriti; nel Principato Citeriore, 1213 morti e 347 feriti; nel distretto di Matera, 60 morti e 29 feriti; in quello di Lagonegro, 266 morti e 203 feriti: uno dei meno disgraziati fu il distretto di Melfi, che ebbe tre morti soli. Gli edifizii, rovinati o distrutti, non si contano. Picerno, Marsiconuovo, Calvello, Viggiano, Montemurro, Tramutola, Saponara, Guardia, Sarconi, Castelsaraceno, Spinosa, Anzi, Alianello furono in gran parte distrutti. Viggiano andò a fuoco e Vignola fu molto danneggiata. I campanili delle chiese rovinarono quasi in tutta la provincia e quelli, che non caddero, rimasero assai malconci. A Brienza si apri la terra attorno la piazza e i morti superarono il centinaio. A Pietrapertosa si temè di peggio, perchè enormi macigni si distaccarono dal monte con fracasso e spavento. La gente errava nell’aperta campagna, atterrita e piangente; i vescovi ricoveravano in luogo sicuro le monache, i cui monasteri eran caduti. A Calvello, per ricordare uno dei tanti casi, rovinò il monastero delle Teresiane, le cui monache furono dall’arcivescovo d’Acerenza e Matera fatte condurre in Acerenza, dove restarono sino al marzo del 1858; e poiché il monastero di Calvello non fu potuto restaurare tanto presto, l’arcivescovo Rossini allogò sette di quelle suore a Gravina, quattro in Altamura e dodici a Matera, nei monasteri dell’Annunziata e di santa Lucia. A descrivere tanti orrori, Paolo Cortese, che poi fu deputato e ministro e negli ultimi anni di sua vita pose in versi nientemeno che una sentenza della Cassazione, pubblicò nell’Epoca una poesia, che cominciava con questi versi rettorici:


È profonda la notte, alto il silenzio
Delle cose create, e al mesto raggio
De la pallida luna vagolanti
Le presaghe degli avi ombre lamentano
La prossima sventura.... Oh ciel! qual rombo,
Qual tristo prolungato orrido rombo
Tutti riscuote dall’imo letargo! . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .