Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

La signora Costanza, la signora Isabella, Lisetta: tutte tre lavorano.

Isabella. Come è bello questo lino, signora madre.

Costanza. Vuol venire una bellissima tela.

Isabella. Mi par mill’anni che si dia a tessere.

Costanza. Sollecitatevi a dipanare.

Isabella. Ne ho dipanato quattro matasse, e non è un’ora che Lisetta mi portò l’arcolaio.

Lisetta. Ed io, dopo che son levata, ho empito un fuso.

Costanza. Vi siete portate bene. Vi meritate la colazione.

Isabella. Da noi non si fa come dalla signor’Angiola, che dormono sino a mezza mattina.

Costanza. Via, badate a voi e non dite degli altri. Fate quello che vi si comanda di fare, e basta così. Cosa potete voi [p. 344 modifica]sapere in casa della signor’Angiola, se si dorma o si vegli? e se dormono la mattina, veglieranno la sera; e faranno in due ore più di quello forse che si fa da noi in una giornata intiera. Delle persone si ha sempre da pensar bene, figliuola. Ve l’ho detto altre volte, non voglio nè che si dica, nè che si pensi mal di nessuno.

Isabella. In verità, signora, io non ho detto per dir male. Buon prò faccia a chi leva tardi. Per me, quando è giorno, non ci starei nel letto, se mi legassero.

Lisetta. Certo, appena vede uno spiraglio di chiaro dalla finestra, mi desta, e si vuol alzare. Qualche volta, per dir il vero, mi alzo per compiacerla, che sono ancor cascante di sonno.

Isabella. Ci ho gusto io a vederla un po’ sbadigliare.

Costanza. In tutte le cose ci vuole moderazione. Alzarsi presto va bene, perchè quello che non si fa la mattina per tempo, non si fa più; ma la natura vuole il suo riposo. Quando le notti son lunghe, va bene il levarsi col sole; ma quando son corte, conviene starci qualche ora di più. La povera Lisetta va a coricarsi dopo degli altri; lasciatela dormire un’ora di più, se qualche volta è assonnata.

Lisetta. Eh no, no, signora; ho piacere di levarmi presto, e di fare le faccende grosse di casa, prima che sia levata la mia padrona; e la padroncina non voglio che si vesta da sè, voglio io pettinarla, assettarle il capo, vestirla e farla bella la mia padroncina d’oro, che le voglio tutto il mio bene.

Isabella. Cara la mia Lisetta, compatitemi se vi desto; non lo faccio per farvi dispetto, anzi se qualche mattina non vi sentite bene, sapete quel che v’ho detto: son pronta a far io le faccende di casa, se non le potete far voi.

Costanza. Brava, ragazza, così mi piace: umiltà, buon amore, carità per tutti.

Lisetta. Oh signora padrona! davvero può ringraziare il cielo d’aver due figliuoli che sono la stessa bontà.

Costanza. Sì certo, lo ringrazio di cuore. Anche Cecchino è un ragazzo di buona indole, che mi fa sperare d’averne consolazione. [p. 345 modifica]

Lisetta. Ma! quando la madre è buona, anche i figliuoli riescono bene.

Costanza. No, Lisetta, io non ci ho merito nessuno. Il cielo ha dato loro un temperamento sì docile, che con poca fatica si allevano bene.

Lisetta. Eh signora, se non fosse il buon esempio che loro date...

Costanza. Circa al buon esempio, non hanno da guardar me che ho dei difetti moltissimi, ma il padre loro, che è tanto buono, e l’avolo, che è il più amabile, il più esemplare vecchietto di questo mondo.

Isabella. Voglio tanto bene io al signor nonno.

Lisetta. Ed egli ne vuol tanto alla sua cara nipote.

Costanza. Certo, posso dire d’esser venuta in una casa, dove tutto spira bontà. Dal marito e dal suocero non ho mai avuto un menomo dispiacere; non cercano che di contentarmi.

Lisetta. Ma ci vuol poco a contentar lei, per altro.

Costanza. Eppure potrebbe darsi, che se avessi a fare con gente aspra ed ingrata, mi venissero di quelle voglie che ora non ho. Che importa a me di certe pompe, di certi divertimenti, se in casa mia godo la vera pace, che è il maggior piacere e la maggior ricchezza di questo mondo?

Lisetta. Oh, questo poi è verissimo. Anch’io, che nelle altre case dove ho servito non vedeva l’ora di andarmi un po’ a divertire, qui non mi vien mai voglia d’escire. Il maggior piacere ch’io possa avere, è allora quando li vedo tutti uniti, o a tavola, o dopo tavola in conversazion fra di loro. Oh! questa sì davvero può dirsi che sia una buona famiglia. Prego il cielo che alla signora Isabellina tocchi una fortuna simile, se il cielo la chiamerà per la strada del matrimonio.

Costanza. È ancora presto di parlare di queste cose.

Isabella. Dove volete ch’io vada per istar meglio di qui? Fino che la signora madre mi vuole, non vi sarà dubbio certo ch’io me ne vada.

Costanza. Non avete d’aver riguardi, figliuola mia: avete da fare tutto quello che il cielo vi suggerisce; ma non vi fidate [p. 346 modifica]di voi medesima nella scelta dello stato, nè di me, nè di quelli che vi amano, perchè l’amore ci potrebbe far travedere. Consigliatevi con persona saggia, indifferente, dabbene.

Isabella. Oh! ecco il signor nonno.

Lisetta. Ci farà ridere un poco. Il gran buon vecchio! Proprio gli si vede la bontà negli occhi.

Costanza. La quiete di animo, figliuola, è quella che rende gli uomini allegri; quando vi sono de’ rimorsi, il viso non può mai esser sincero.

SCENA II.

Anselmo e dette.

Anselmo. Buon giorno, figliuole care, buon giorno.

Costanza. Buon giorno a lei, signor suocero; ben levato.

Isabella. La mano, signor nonno. (s’alza e gli bacia la mano)

Anselmo. Il ciel vi benedica, la mia gioja. (ad Isabella)

Lisetta. Anch’io, signor padrone. (bacia la mano ad Anselmo)

Anselmo. Sì, anche voi, cara.

Costanza. Ha riposato bene?

Anselmo. Benissimo, grazie al cielo, benissimo. Fabrizio è fuori di casa?

Costanza. Sì signore, è sortito presto stamane.

Anselmo. Ma perchè andar fuori senza dirmi niente? È pur solito ogni mattina, prima d’escire, di venire a salutar suo padre.

Costanza. Ha dovuto andar di buon’ora da un avvocato, per una certa differenza che ha con un altro mercante.

Anselmo. Poteva ben venire a dirmi qualche cosa.

Costanza. Ha pensato che vossignoria dormisse, e non ha voluto destarlo.

Anselmo. Non importa; ancor ch’io dorma, ho piacere che mi desti e mi dia il buon giorno, prima di escir di casa. Lascio per questo la porta aperta, e il mio figliuolo, finchè vivo, ho piacer di vederlo. È andato dunque per una lite? [p. 347 modifica]

Costanza. Certo, signore, stamattina è stato avvisato che quel mercante, che ieri gli ha promesso quella partita di cere, ha trovato di migliorar il negozio con altri, e vuol mancar di parola.

Anselmo. E per questo vuol far lite Fabrizio? No, per amor del cielo; s’aggiusti, se può, con reputazione, ma non faccia lite. E Cecchino dov’è? E andato ancora alla scuola?

Costanza. Non signore, è di là che fa la lezione.

Anselmo. Voleva dire, che fosse andato senza baciarmi la mano! Quando ha finito la sua lezione, ho una cosa da dargli.

Isabella. E a me, signor nonno?

Anselmo. Anche a voi, se la meritate.

Isabella. La merito io, signora madre?

Costanza. Non so...

Lisetta. Eh, la merita sì, la merita. Quattro matasse ha dipanato stamane.

Anselmo. Quattro matasse? Brava.

Isabella. E faremo la tela, e faremo delle camiscie al signor nonno.

Anselmo. Oh tenete, che vi voglio dare una cosa buona.

Isabella. Davvero?

Anselmo. Ecco un pezzo di torta con il candito. (tira fuori della torta)

Isabella. Oh buona!

Lisetta. E a me?

Anselmo. Te la meriti? (a Lisetta)

Isabella. Signor sì. Ha empito un fuso a quest’ora.

Anselmo. Ce ne sarà anche per te dunque della torta.

SCENA III.

Franceschino e detti.

Franceschino. E a me niente?

Anselmo. Ah briccone, hai sentito l’odore eh?

Franceschino. Ho sentito ch’era qui il signor nonno, son venuto a baciargli la mano.

Anselmo. Tieni. (gli dà la mano) Ti piace la torta?

Franceschino. Mi piace. [p. 348 modifica]

Isabella. Anche a me mi piace.

Anselmo. Aspettate; prima a vostra madre.

Costanza. Obbligata, signor suocero, non posso mangiare a quest’ora.

Anselmo. Un pochino solo.

Costanza. Per aggradire ne prenderò un pochino.

Anselmo. L’ho fatta fare a posta; tenete. (dà un pìccolo pezzo a Costanza) Questa a voi. Prima al maschio. (ne dà a Franceschino) Questa a voi. (ne dà ad Isabella) Questa a Lisetta; e questa a me.

Costanza. E per mio marito, poverino, niente?

Anselmo. Oh povero me! me l’era scordato. Non gli dite niente, che me l’avessi scordato. Gli serberò questa.

Costanza. Io, io gli serberò questa.

Anselmo. No, mangiatela, che gliene serberò della mia.

Costanza. In verità, gli do la mia volentieri.

Anselmo. Poverina! siete pure amorosa. Mio figlio può ben dire aver avuto la grazia d’oro, avendo trovato una sì buona moglie.

Costanza. Io, signore, non era degna d’averlo.

Franceschino. Vado alla scuola, signora madre.

Costanza. Andate, che il cielo vi benedica.

Anselmo. Nardo. (chiama)

SCENA IV.

Nardo e detti.

Nardo. Signore.

Anselmo. Accompagnate questo ragazzo alla scuola. (E badate bene, che per la via non si fermi a guardare le bagattelle, che non si accompagni con qualche cattivo giovane). (piano a Nardo)

Nardo. (Non vi è pericolo, signore. Egli non tratta mai con nessuno. Va per la sua strada, e non vede l’ora di arrivare alla scuola. Io poi, quando altro facesse, non lo lascierei fare a sua voglia). (piano ad Anselmo)

Anselmo. Bravo, Nardo. Tieni, un po’ di torta a te pure.

Nardo. Grazie, signore. [p. 349 modifica]

Anselmo. Che tutti godano; di quel poco che c’è, che tutti abbiano la parte loro. Siamo tutti di carne; e dice il proverbio, che le gole sono tutte sorelle. Via, andate, e portatevi bene. (a Franceschino)

Franceschino. Non lo sa, signor nonno, che alla scuola sono l’imperatore?

Anselmo. Sì, lo so; bisogna conservarsi il posto, veh.

Franceschino. Certo, se voglio avere il premio.

Costanza. Ne ha avuti quattro de’ premi Cecchino.

Isabella. Ed io che premio averò, quando sarà fatta la tela?

Anselmo. Eh, a voi ne preparo un bello de’ premi.

Isabella. Davvero? Che cosa mi prepara di bello?

Anselmo. La saprete un giorno.

Isabella. Quanto pagherei di saperlo adesso.

Anselmo. Eh, curiosità! Basta... voglio anche soddisfarvi. Andate alla scuola voi, che non facciate tardi. (a Franceschino)

Franceschino. Eh signore, vado. Non importa a me di sentire. Il signor maestro m’ha detto che non bisogna essere curiosi. Le voglio bene alla sorellina. La mano, signor nonno. La mano, signora madre. Ho piacere io, che mia sorella abbia dei regali. Quando sarò grande, le voglio fare un busto, una gonnella e un paio di scarpe ricamate d’argento. (parte con Nardo)

SCENA V.

Costanza, Isabella, Anselmo, Lisetta.

Costanza. È amorosissimo quel ragazzo.

Anselmo. È figlio di buona madre.

Costanza. Ha tutte le massime di suo padre.

Isabella. E così, signor nonno, che cosa mi prepara di bello?

Anselmo. Vi dirò, figliuola mia, è vero che avete padre e madre che non vi lascieranno mai mancar niente, e un fratello da cui col tempo potete sperare assai; ma io non voglio che nessuno abbia da incomodarsi per voi. Non si sa come andar possano le cose di questo mondo. Ho avuto un’eredità mia [p. 350 modifica]particolare di diecimila scudi: questi gl’investo in un capitale in nome vostro, con condizione che i frutti vadano in aumento del capitale, fino che siete in grado di prender stato.

Costanza. Caro signor suocero, questa è una gran bontà che avete per il vostro sangue.

Lisetta. Mi fa piangere per tenerezza.

Isabella. E se io non avessi volontà di escir di casa, ho da perdere dunque?

Anselmo. Io questo caso... cara Isabellina, non voglio mica che perdiate il frutto dell’amor mio. In età di trent’anni, se non siete ancor collocata, lascierò che possiate disporre.

Isabella. Disporrà il signor nonno.

Anselmo. Eh, io non ci sarò più, figliuola.

Isabella. Signor sì che ci ha da essere.

Anselmo. Sono un pezzo in là, cara... Basta, non parliamo di malinconie; fino che vuole il cielo, e niente di più...

SCENA VI.

Fabrizio e detti.

Anselmo. Oh Fabrizio, figlio mio, siete qui eh?

Fabrizio. Perdonatemi, se sono uscito senza venirvi a riverire; parevami troppo presto.

Anselmo. Non me la fate più questa. Venite, se fosse di mezza notte.

Fabrizio. Favorite. (gli vuol baciar la mano)

Anselmo. Tenete. (gli dà la mano) (Ehi! la signora Costanza ha una cosa buona da darvi). (sottovoce)

Fabrizio. È egli vero? Che cosa ha di buono mia moglie da regalarmi?

Costanza. Un po’ di torta donatami da vostro padre.

Anselmo. Non ha avuto cuor di mangiarla senza di voi. (a Fabrizio)

Fabrizio. Vi ringrazio del buon amore. Mangiatela voi per me.

Costanza. Io no; è vostra.

Fabrizio. Datela a Isabellina. [p. 351 modifica]

Costanza. Ne ha mangiato abbastanza. Non vo’ che le faccia male.

Isabella. Mi desta i bachi la roba dolce.

Anselmo. Via, date qui. Se nessuno la vuole, la mangerò io.

Lisetta. Io non ho detto di non volerla.

Anselmo. Ghiotta! metà per uno. (divide la torta fra lui e Lisetta1)

Lisetta. Grazie, signor nonno.

Anselmo. Tutti mi dicono nonno. Anche fuori di casa, quando arrivo dallo speziale, dal libraio, da mio compare, mi dicono il nonno. Ma io non me ne ho a male: lo dicono per amore. Fabrizio, è egli vero che siete andato per una lite?

Fabrizio. Non è lite, se vogliamo; ma mi vogliono mancar di parola, ed io intendo che mi si mantenga il contratto.

Anselmo. Non litigate, per amor del cielo; che all’ultimo, ancor che vi diano ragione, tutto il guadagno anderà nelle spese. Mangiamoci in buona pace quello che abbiamo, che per grazia del cielo ci basta, e non istiamo da noi medesimi a procurarci delle inquietudini per avere di più.

Fabrizio. Questa volta c’entra un po’ di puntiglio, per dir il vero.

Anselmo. No, no, puntigli; no, figliuolo mio, non abbadate a puntigli. Se ci avessi badato io ai puntigli, non sarei arrivato a quest’età, grazie al cielo, sano e robusto come mi trovo. Se vi fanno un insulto, una soverchieria, la vergogna è sempre di loro. Quando il mondo sa che siete un galantuomo, che non meritate di essere trattato male, peggio per quelli che vi fanno la cattiva azione. Che vi può fare il puntiglio? Scaldarvi il capo e mettervi dalla parte del torto. Volete illuminare e convincere chi vi fa del male? Date loro tempo di riflettervi sopra: credetemi, che le coscienze sono giudici di se medesime, e presto o tardi, chi opera male s’ha da pentire d’averlo fatto.

Costanza. Ascoltatelo bene vostro padre, che in verità non può dir meglio di quel che dice.

Fabrizio. Ho sempre fatto a modo vostro, signore, e me ne son trovato contento. Lo farò ancora nell’avvenire. Se l’amico mi [p. 352 modifica]manca di parola, pazienza. Il danno non è gran cosa, e la piazza già lo condanna.

Anselmo. Bravo, che tu sia benedetto. (gli dà un bacio)

Isabella. È picchiato all’uscio, mi pare.

Lisetta. Andrò a vedere. (s’alza e parte)

SCENA VII.

Costanza, Isabella, Fabrizio, Anselmo.

Anselmo. Mangiamoceli noi i denari che ci avrebbono a mangiar le liti. Questa sera ha da venirmi a trovar mio compare collo speziale e il dottore. Volete voi Fabrizio che diamo loro un po’ di merenda?

Fabrizio. Non siete voi il padrone, signore?

Anselmo. Ma io ho piacere che tutto quello si fa, sia concordemente fatto. L’aggradite voi, signora nuora?

Costanza. Sì signore, quello che è di vostro piacere, è di piacer mio.

Anselmo. Volete invitar nessuno, voi? (a Costanza)

Costanza. Non saprei chi invitare io, perchè in oggi non si può trattar nessuno senza mettersi in soggezione. Da noi si va a letto presto, e pare, quando viene qui qualcheduno, che gli si faccia uno sgarbo a dirgli che siamo avvezzi a ritirarci per tempo. Io godo la mia quiete; mi diverto colla mia famiglia, e non pratico volentieri.

Anselmo. Oh, si sta pur meglio soli. Mio compare e lo speziale sono come siam noi; e il dottore, che è ragionevole, si ritira per tempo.

SCENA VIII.

Lisetta e detti.

Lisetta. Sa ella chi è, signora? (a Costanza)

Costanza. Chi mai?

Lisetta. La signor’Angiola, che la vorrebbe riverire. Ha fatto picchiare all’uscio, per vedere se le torna comodo ora, o più tardi. [p. 353 modifica]

Costanza. Per me la faccio padrona di venir quando vuole, se il signor suocero o mio marito non hanno niente in contrario.

Anselmo. Non siete voi la padrona? Ricevetela pure.

Fabrizio. Anzi è meglio che la facciate venir subito: più tardi, vi può venir da fare qualche altra faccenda.

Costanza. Appunto aspetto il tessitore verso il mezzogiorno.

Isabella. Oh, che mi solleciti a dipanare dunque.

Costanza. Fatele dire che è padrona quando comanda. (a Lisetta)

Lisetta. Ci avrebbe a essere qualche guaio in casa della signora Angiola. La serva m’ha fatto de’ gesti col capo. In quella casa ci si sta pur male.

Costanza. Badate a voi.

Lisetta. Compatisca. (parte)

SCENA IX.

Costanza, Isabella, Fabrizio, Anselmo.

Anselmo. Tornate fuori di casa, voi? (a Fabrizio)

Fabrizio. Non signore, per questa mane. Ho le lettere di Germania; anzi, se vi torna comodo, signore, vorrei che le leggessimo insieme e discorressimo sopra certi progetti che fanno al nostro negozio.

Anselmo. Sì, figlio, come volete. Già sapete che ho rinunziato il maneggio a voi non per sottrarmi dalla fatica, ma per impratichirvi degli affari nostri, prima della mia morte; son qui per altro ad assistervi, se vi occorre.

Fabrizio. Ed io ho accettato il carico per sollevarvi: ma intendo da voi dipendere, e valermi sempre dell’utile consiglio vostro.

Anselmo. Andiamo dunque a leggere le lettere di Germania. Nuora, a rivederci. Nipotina, addio, cara: il mio sangue, il mio sangue. Cielo, dammi allegrezza del mio sangue. (parte) [p. 354 modifica]

SCENA X.

Costanza, Isabella, Fabrizio.

Fabrizio. Vi occorre niente? (a Costanza)

Costanza. Niente, per ora.

Fabrizio. Cecchino sta bene?

Costanza. Benissimo. È ito alla scuola.

Fabrizio. Ho parlato col suo maestro. Si contenta molto di lui. Spero che ci voglia dare consolazione.

Costanza. Lo faccia il cielo per sua bontà.

Fabrizio. Dal canto mio non mancherò certo di dargli tutti gli aiuti possibili.

Isabella. Perchè non fa insegnare anche a me, signor padre, che imparerei tanto volentieri le lettere?

Fabrizio. Figliuola mia, le lettere non sono per voi. Non dico già che non aveste ingegno atto ad apprenderle, che so benissimo altre vedenti donne averle egregiamente apprese; ma le cure devono essere distribuite. La briga della casa non è poca briga, sapete? e le donne vi si adattano meglio; e voi, o qui o altrove, avrete bisogno d’essere istruita in ciò più che in altro; e i lavori di mano che fate voi altre donne, sono utili alla famiglia quanto le arti che proprie sono dell’uomo. Contentatevi di far quello che a voi si destina, e più del talento fate conto della bontà di cuore. Imitate la madre vostra e sarete certa di riuscir bene. (parte)

SCENA XI.

Costanza e Isabella.

Isabella. Non vorrei se ne avesse avuto a male il signor padre, perchè ho detto così.

Costanza. No, no, figliuola, non è puntiglioso vostro padre. Non sentite ch’egli anzi vi loda? Ma vi consiglia a quello che crede meglio per voi. [p. 355 modifica]

Isabella. Io non farò mai se non quello che mi vena comandato.

Costanza. E ciò riescirà in profitto vostro ed in nostra consolazione.

SCENA XII.

Angiola e dette, poi Lisetta.

Angiola. Si può venire?

Costanza. È padrona la signor’Angiola. (s'alza, e fa lo stesso Isabella)

Angiola. Stiano comode, stiano comode. Proseguiscano le faccende loro, ch’io non intendo d’incomodarle.

Costanza. Niente, signora. Lisetta. (chiama)

Lisetta. Signora.

Costanza. Una sedia alla signor’Angiola. Tieni questa calza.

Angiola. Seguiti a far la sua calza; non si stia per me ad incomodare.

Costanza. Non ho più voglia davvero; ho piacere di starmi un poco a godere la compagnia della signor’Angiola.

Isabella. Seguiterò a dipanare io, se mi dà licenza.

Angiola. Sì, cara, fate pure. Bella consolazione aver di queste figliuole! (a Costanza)

Costanza. Bisogna ch’io le faccia questa giustizia a Isabellina, non è cattiva ragazza.

Angiola. Ma! la pace in casa è un gran bene. Io non l’ho questo bene, povera me!

Costanza. Ha qualche cosa che la disturba?

Angiola. Sono venuta a posta da lei per consiglio, per aiuto, e per isfogare un poco le mie passioni.

Costanza. Incomoda la ragazza?

Angiola. Oh niente, può sentir ella pure.

Costanza. Che cosa ha ella che la disturba, signora?

Angiola. Ho un marito pessimo, inquieto, pieno di vizi, di mal animo, che mi riduce agli estremi.

Costanza. Non si faccia sentire a parlar così del marito. (guarda un poco Isabella) [p. 356 modifica]

Angiola. Già tutto il vicinato sa il suo modo di vivere. Da pochi giorni in qua ha una certa pratica d’una donna...

Costanza. Isabella, andate a dipanare in quell’altra camera.

Isabella. Sì signora. (s’alza) con sua licenza. (ad Angiola) (Quasi quasi aveva curiosità di sentire, ma la signora madre comanda). (da sè, e parte)

Costanza. Portatele l’arcolaio. (a Lisetta)

Lisetta. Sì, signora. (Ne vuole avere un pesto ora la mia padrona). (da sè; prende l'arcolaio e parte)

SCENA XIII.

Costanza e Angiola.

Angiola. (Gran delicatezza che ha per la sua figliuola! Mia madre non ha fatto così con me). (da sè)

Costanza. Ora possiamo parlare con libertà.

Angiola. Eh, non avrei detto cose...

Costanza. È meglio così: le fanciulle fanno caso di tutto.

Angiola. Per tornare dunque al proposito nostro, signora Costanza, io sono una femmina disperata.

Costanza. Perchè mai? Il signor Raimondo è un galantuomo, un uomo civile; hanno del bene, sono senza figliuoli, dovrebbono vivere colla maggior quiete del mondo.

Angiola. Eh signora, se non vi è giudizio nel capo di casa, non vi può essere la quiete. Mio marito ha una pratica.

Costanza. Ma lo sa di certo? Potrebbono essere le male lingue che l’avessero detto.

Angiola. Lo so di certissimo. Pur troppo per me, che dacchè ha quest’impegno, non mi può più vedere, e non dorme nemmeno nella mia camera, e se gli dico una buona parola, mi risponde di bu e di ba.

Costanza. Oh, che dice mai? Manco male che non vi è la ragazza.

Angiola. Le dirò solamente questa...

Costanza. Cara signor’Angiola, sono cose che il dirle a me non le può recare sollievo alcuno; si risparmi il rammarico di raccontarle. [p. 357 modifica]

Angiola. Ma è necessario che gliele dica, se ho da arrivare alla cagione per cui sono venuta da lei.

Costanza. Non saprei. Si sfoghi con me, che può farlo; ma non lo faccia con tutti, che la riputazione ci scapita.

Angiola. Pur troppo siamo la favola del paese; e perchè? per il poco giudizio di mio marito. Oltre l’amica che gli succhia il sangue, ha di più il giuoco ancora.

Costanza. In verità non la vorrei nemmeno conoscere.

Angiola. E fra un vizio e l’altro ha tanti debiti, che non sa dove rivoltarsi.

Costanza. Povera signor’Angiola! sono una compagnia dolorosa i debiti.

Angiola. Uno ne ha fra gli altri della pigione di casa, che può farci scorgere pubblicamente; si tratta di dire che il padrone ci vuol mandare i birri alla porta.

Costanza. Oimè, mi sento tutta rimescolare.

Angiola. E mio marito non ci pensa. Mangia, dorme, va a divertirsi, e non vede il precipizio vicino.

Costanza. Come mai si può dormire con simili batticuori? Divertirsi? Io non credo che sia possibile.

Angiola. Eppure si diverte, che lo so di certo; e a me tocca pensarci.

Costanza. Ma ella che cosa può fare, se non si muove il marito?

Angiola. Che cosa posso fare? Ecco qui le mie povere gioje: anderanno di mezzo. Per ora i pendenti e l’anello; e voglia il cielo che uno di questi giorni non vada a spasso il gioiello ed il resto ancora.

Costanza. Vuol ella privarsi delle gioje per pagar i debiti?

Angiola. Che vuol ch’io faccia? Mi svenerei per la riputazion della casa.

Costanza. Non so che dire. È ammirabile la di lei bontà, e meriterebbe che il marito le fosse grato davvero. Ma lo sarà certo, l’animo mi dice che le sarà grato. Un’azion simile l’ha da convincere, se avesse un cuor di macigno.

Angiola. Mi consiglia anche ella a farlo? [p. 358 modifica]

Costanza. Quando non v’è altro modo, l’aiutarsi col suo è sempre bene. Le gioje si fanno anche con questo fine, per valersene nelle occasioni.

Angiola. Mi dispiace che andar in mano di certi cani, l’usura mangia il capitale.

Costanza. Quanto sarebbe il bisogno suo, signor’Angiola?

Angiola. Cento scudi, signora, e se non fosse il mio troppo ardire...

Costanza. Basta così; non dica altro, che voglio aver il piacere di servirla senza che provi pena nel domandare. Mi figuro anch’io, (quantunque per grazia del cielo non mi sia trovata mai in questo stato) mi figuro quanto rincrescimento abbia da provare una persona civile a confidare le sue indigenze; ma avendole confidate a me, può esser certa che non lo saprà nessuno. Cento scudi li ho di mio, uniti a poco per volta coi regaletti che mi fa mio marito, ed alcuni utili che mi lascia sopra certi capi minuti del negozio nostro.

Angiola. Certo ella farà una carità fiorita.

Costanza. Terrò le gioje in deposito. E quando potrà...

Angiola. E mi ho da privare d’una parte delle mie gioje?

Costanza. Non so che dire. Io mi esibisco servirla, e mi prendo la libertà di farlo senza chiedere la permissione a nessuno. È vero che i denari sono in mio potere; ma quello che è della moglie, è del marito; e all’incirca sa bene egli ancora quanti denari trovar mi posso. E se venisse un giorno in curiosità di vederli, che vorrebbe ch’io gli dicessi? Finalmente, se troverà le gioje, dirò che ho creduto bene far un piacere...

Angiola. La prego di non dirglielo almeno senza una precisa necessità. Mi vergognerei ch’egli lo sapesse.

Costanza. Le prometto che non lo dirò, quando non fossi in necessità di doverlo dire.

Angiola. Tenga i pendenti e l’anello. Glieli raccomando.

Costanza. Favorisca di passar meco nel mio stanzino; dove mi vedrà metterli, li troverà sempre, volendo.

Angiola. Vada pure; non vi è bisogno ch’io veda.

Costanza. Venga, che le conterò il denaro. [p. 359 modifica]

Angiola. Riceverò le sue grazie.

Costanza. Favorisca passar innanzi.

Angiola. Per obbedirla. (entra)

Costanza. Poverina! Mi fa compassione. Gran cose si sentono a questo mondo! e per questo, chi ha un poco di bene, deve ringraziar il cielo di cuore. (entra)

SCENA XIV.

Anselmo, Fabrizio, poi Nardo.

Anselmo. Regolatevi così, figliuolo, e non fallerete. Pochi negozi, ma sicuri: non intraprendete mai negozi nuovi con persone che non conoscete ben bene, e fidatevi poco di chi vi offre avvantaggi grandi.

Fabrizio. Veramente quel progetto di mandare le sete per conto nostro e ritirarne poscia i lavori, pare, secondo il calcolo che ci fanno, che potrebbe rendere un venti per cento; ma ci sono vari pericoli, come voi riflettete prudentemente.

Anselmo. Volete veder chiaro il maggior de’ pericoli? Quello che a noi suggerisce un negozio sì vantaggioso, perchè non lo fa da sè? Qualche cosa c’è sotto. Io non soglio pensar male di nessuno; ma in materia di mercatura si vedono tanti cattivi esempi, che il pensar male in oggi è diventata la prima massima del commercio.

Nardo. Signore. (a Fabrizio)

Fabrizio. Che c’è?

Nardo. È qui il signor Raimondo che vorrebbe parlar con lei.

Anselmo. Bellissima! la moglie dalla moglie, il marito dal marito. Questi fanno le visite al contrario della gran moda.

Fabrizio. Bisognerà ch’io lo faccia venire. (ad Anselmo)

Anselmo. Sì, fatelo.

Fabrizio. Ditegli che è padrone. (Nardo parte)

Anselmo. Io me n’anderò a fare una cosa fuori di casa.

Fabrizio. Dove, signor padre?

Anselmo. In un luogo; basta... [p. 360 modifica]

Fabrizio. Non lo posso saper io?

Anselmo. Ve lo dirò, ma che nessuno lo sappia. Una povera famiglia civile non ha pan da mangiare, le porto questo zecchino. Credo che non vi dispiacerà ch’io lo faccia.

Fabrizio. Oh signor padre, dategliene due, se veramente ha bisogno.

Anselmo. Per ora questo le può bastare. Ma non lo diciamo a nessuno. Parrebbe, se si sapesse, che volessimo far pompa di un po’ di bene che il cielo ci ha dato. Non l’ha da sapere il mondo; basta che si sappia lassù. (parte)

SCENA XV.

Fabrizio e poi Raimondo.

Fabrizio. Questi sono negozi sicuri. Le opere di pietà non impoveriscono mai.

Raimondo. Servo, signor Fabrizio.

Fabrizio. Riverisco il signor Raimondo.

Raimondo. Non vorrei esser venuto in occasione di darvi incomodo.

Fabrizio. Siete sempre padrone in ogni tempo, ma ora, in verità, non ho niente che mi occupi.

Raimondo. Sono bene occupato io nel cuore, nella mente, nell’animo da mille agitazioni, da mille tetri pensieri.

Fabrizio. Che cosa mai v’inquieta a tal segno?

Raimondo. Una moglie trista, pessima, dolorosa.

Fabrizio. Caro amico, non parlate così della vostra moglie. Fate pregiudizio a voi stesso.

Raimondo. Già è conosciuta bastantemente. Ha tutti i difetti, cred’io, che dar si possono in una donna; e poi una certa amicizia ch’ella coltiva, mi vuol far dare nei precipizi.

Fabrizio. E a voi che siete marito, non dà l’animo di farla praticare a modo vostro?

Raimondo. Eh pensate; per la mia soverchia bontà mi ha posto il piede sul collo, e non vi è rimedio.

Fabrizio. Siete bene, per dir il vero, in una deplorabile situazione. [p. 361 modifica]

Raimondo. Aggiungete allo stato mio quest’altra piccola circostanza. Ho tanti debiti, che non so dove salvarmi.

Fabrizio. Come mai li avete fatti questi gran debiti?

Raimondo. Causa la moglie; mi giuoca ogni cosa.

Fabrizio. E voi la lasciate giuocare?

Raimondo. Sono stato compiacente al principio; ora mi converrà venire a qualche strana risoluzione.

Fabrizio. Voi non avete bisogno de’ miei consigli: ma si trova il rimedio, quando si vuol trovare.

Raimondo. Dite bene voi, che avete una moglie buona; ma se l’aveste come la mia, non so come la v’anderebbe.

Fabrizio. Basta; ringrazio il cielo... Certo è una cosa dura il non avere la pace in casa.

Raimondo. In cambio della pace, ci ho i debiti io in casa.

Fabrizio. Dite piano; non vi fate sentire.

Raimondo. La passione mi trasporta. Caro amico, se voi non mi aiutate, io sono all’ultima disperazione.

Fabrizio. Ma caro signor Raimondo, gli è vero ch’io maneggio e sono alla testa del negozio e della famiglia; ma rendo conto d’ogni cosa a mio padre. Se volete che gliene parli...

Raimondo. No, no, vostro signor padre è un galantuomo, è un uomo dabbene; ma non avrei piacere che lo sapesse nessuno. Io ho bisogno di dugento scudi, e vi darò in ipoteca un gioiello di diamanti con due spilloni da testa.

Fabrizio. Le avete voi queste gioje?

Raimondo. Eccole qui. Voi ne averete pratica.

Fabrizio. Bene; vi servirò. In ogni caso che mio padre mi ricercasse dei conti, con queste potrò appagarlo.

Raimondo. Sopra tutto, che nessuno lo sappia.

Fabrizio. Non dubitate; vi prometto che non si saprà. Favorite passare nell’altra stanza, che vi conto subito i dugento scudi.

Raimondo. Voi mi farete il maggior piacere di questo mondo, (entra)

Fabrizio. Prestar danari senza timore di perderli, è un servizio di di niente; e poi siamo obbligati in questo mondo ad aiutarci potendo. (entra) [p. 362 modifica]

SCENA XVI.

Lisetta e Nardo.

Nardo. Ci sono ancora le visite dai padroni?

Lisetta. Ci sono. Anzi la padrona colla signor’Angiola sono passate nello stanzino, e parvemi che aprisse l’armadio, e ci giocherei che le presta delli denari.

Nardo. È facile, perchè in casa del signor Raimondo contrasta, come si suol dire, il desinar colla cena.

Lisetta. Zitto, che la padrona non vuole che si dica mal di nessuno.

Nardo. Fin qui non c’è male, che s’abbia a dire si mormora; ma se si volesse discorrere sopra di loro, si farebbero de’ romanzi.

Lisetta. Raccontatemi qualche cosa.

Nardo. No, no; i padroni non hanno piacere che si mormori.

Lisetta. Non si può dire senza mormorare?

Nardo. Non lo so io; se, per esempio, dicessi che marito e moglie giocano da disperati?

Lisetta. Si dice che giocano per divertimento.

Nardo. E se dicessi che il giuoco li ha rovinati?

Lisetta. Basta dire che hanno giocato del suo, che del suo ciascheduno può far quel che vuole.

Nardo. Ma se hanno fatto dei debiti per giocare?

Lisetta. Si può soggiungere che li pagheranno.

Nardo. Basta, in quanto al giuoco si può colorire la mormorazione; ma se passassimo a certi altri vizietti?

Lisetta. E sono?

Nardo. No, no; se lo sapessero i padroni, l’averebbono a sdegno; e non abbiamo da fare in segreto cosa che da loro ci vien comandato non fare.

Lisetta. Si può ben dire qualche cosa, senza entrar nel massiccio; e in tutte le cose sento dire che vi è il più ed il meno. Non dico che mi diciate tutto; ma così, delle coserelle che non sieno cosaccie.

Nardo. Per esempio, se dicessi che il signor Raimondo ha una comare, con cui ci spende l’osso del collo? [p. 363 modifica]

Lisetta. Si può dire che lo faccia per carità.

Nardo. Carità pelosa un poco.

Lisetta. Via, fra il bene e il non bene. Ma non s’ha per questo da mormorare.

Nardo. Lo stesso si può dire della signor’Angiola, che va con certe compagnie di poco credito, con certi giovanotti di mondo, che fanno che mormori il vicinato.

Lisetta. Ma noi non abbiamo da mormorare, per questo che la padrona non vuole.

Nardo. E m’ha detto il suo servitore, che cento volte ha ella augurata la morte al marito.

Lisetta. Per voglia forse di rimaritarsi.

Nardo. Certo, perchè fra quei che la servono, vi sarà alcuno che le darà nel genio.

Lisetta. Eh, si vede ch’ella è d’un temperamento bestiale, capace d’ogni risoluzione.

Nardo. Si sono bene accoppiati. Marito e moglie, due veri pazzi.

Lisetta. Oh basta, non diciamo altro; non vorrei che principiassimo a mormorare.

Nardo. Se non fosse il freno che ci han messo i padroni!

Lisetta. Anch’io ne direi di belle; ma non vogliono che si dica.

Nardo. Ecco la signor’Angiola che se ne va.

Lisetta. E di là viene il signor Raimondo. Che si che s’incontrano?

Nardo. Andiamo, andiamo. Non ci troviamo fra questi pazzi.

Lisetta. Non mormorate. (parte)

Nardo. Non vi è pericolo. (parte)

SCENA XVII.

Angiola da una parte, Raimondo dall’altra.

Angiola. (Con questi cento scudi... Qua mio marito?) (da sè)

Raimondo. (Angiola qui? che vuol dire?) (da sè)

Angiola. Qua, signor marito?

Raimondo. Qua ancor ella, signora moglie?

Angiola. Sono venuta a far una visita alla signora Costanza. [p. 364 modifica]

Raimondo. Ed io al signor Fabrizio.

Angiola. Avreste bisogno di venirci spesso da lui, per imparare a vivere.

Raimondo. E voi stareste bene un paio d’anni in educazione della signora Costanza, per cambiar sistema; ma non fareste niente, io credo; avete troppo il capo sventato.

Angiola. La padella dice al paiuolo che non la tinga. Oh, voi avete del sale in zucca!

Raimondo. Più di voi certo, che una donna alla fin fine non dee mettersi in paragone degli uomini, e dee pensare che la riputazione si perde presto.

Angiola. Io non faccio cose che non sieno da fare. Nè di me si può dire quello che si dice di voi.

Raimondo. Io so che dacchè siete venuta voi in questa casa, vi è entrato il diavolo.

Angiola. C’era il diavolo prima che ci venissi. Ce l’ho trovato io.

Raimondo. Che sì, che siete venuta qui per denari?

Angiola. Per denari? per farne che? Tocca a voi a pensare al mantenimento della casa, non tocca me.

Raimondo. Voi pensate al mantenimento del giuoco.

Angiola. E voi al giuoco e alla comare.

Raimondo. E voi al giuoco e al compare.

Angiola. Chi mal fa, mal pensa. Ci giuoco io, che siete venuto voi per denari.

Raimondo. Oh sì, che in questa casa ne danno a chi ne vuole. Sono genti che hanno giudizio; non ne prestano sì facilmente.

Angiola. Gli è vero che sono cauti per non gettare; ma col pegno in mano, potrebbono anche far un piacere.

Raimondo. Che sì, che ve l’hanno fatto col pegno in mano?

Angiola. Sì eh? Basta così, ho capito. So perchè ci siete venuto.

Raimondo. Voi mi credete tinto della vostra pece.

Angiola. Or non c’è più niente in casa. Quelle poche gioje, e poi è finita.

Raimondo. Spero non averete l’ardire di disporne senza consenso mio. [p. 365 modifica]

Angiola. Io non dico... che si sa che servono per comparire. Ma voi certo non vi prenderete la libertà... Il gioiello e i spilloni che si sono dati al gioielliere per accomodare, quando tornano in casa?

Raimondo. Li porterà il legatore, quando saranno accomodati. Erano scassate tre pietre del gioiello, e i spilloni s’hanno da rilegare di nuovo.

Angiola. No, no; io li voglio in casa.

Raimondo. E i pendenti e gli anelli dove sono eglino, che non ve li vedo?

Angiola. Sono, sono... nel mio armadio sono.

Raimondo. Cara signora, andiamo a casa, che li voglio vedere.

Angiola. Prima d’andar a casa, voglio ire dal gioielliere a veder un po’ il fatto mio.

Raimondo. Che occorre che voi ci andiate? Tocca a me a vedere...

Angiola. Eh, non m’infinocchiate, caro. Vo’ andarvi ora da me; e se non ci sono le gioje mie, vo’ che dite davvero ch’io sono un diavolo. (parte)

Raimondo. L’animo mi dice, ch’ella abbia impegnati i pendenti. Vo’ aprir l’armadio senza le chiavi; e se non ci sono, troverà in me un diavolo più indiavolato del suo. (parte)

Fine dell’Atto Primo.



Note

  1. Nel testo, per errore è stampato Isabella.