La bancarotta o sia Il mercante fallito/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Bottega di Pantalone, fornita di panni e sete e altri capi di mercanzia, aperta sopra la strada e corrispondente di dentro alla casa del medesimo.

Leandro e Truffaldino.

Leandro. Eccoci, per grazia del Cielo, ritornati in bottega.

Truffaldino. Siori panni, siore stoffe, siore pezze de roba, mi no credeva d’aver più l’onor de vederve e de manizarve.

Leandro. Possiamo ringraziare il Dottor Lombardi che ci ha assistito, e possiamo ringraziare la signora Vittoria, ch’ella per amor mio avrà sollecitato il padre a interessarsi cotanto pel nostro bene.

Truffaldino. Le donne qualche volta le fa del ben, qualche volta le fa del mal. [p. 370 modifica]

Leandro. Le donne buone fanno sempre del bene.

Truffaldino. L’è vera, ma delle donne bone se ghe ne stenta a trovar.

Leandro. No, Truffaldino, non dir così, che sei una mala lingua. È molto maggiore il numero delle donne oneste e dabbene; ma queste, siccome vivono per lo più ritirate, non figurano al mondo e da pochi son conosciute. Le cattive all’incontro, per poche che siano, si fanno scorgere facilmente, e il mondo, mal persuaso di loro, biasima il sesso senza distinguere le persone.

Truffaldino. Donca le bone le sarà quelle che vive retirade, e le cattive quelle che pratica.

Leandro. Nè meno questa distinzione è bastante per giudicare di loro. Possono le più sagge, le più discrete, le più esemplari conversare liberamente, ed è ben fatto anzi ch’esse conversino, per dare un esempio di bontà sociabile; ma per assicurarsi della bontà di una donna, vi vuol del tempo, e le cattive si conoscono presto, onde, come diceva, si crede maggiore il numero di queste che di quell’altre.

Truffaldino. Vostra madregna ela bona o cattiva?

Leandro. A me non tocca parlar di lei; è moglie di mio padre e debbo usarle rispetto.

Truffaldino. E mi che son so parente, digo e sostegno che l’è cattiva, pessima e dolorosa.

Leandro. Orsù, mutiamo discorso. Prendiamo per mano la mercanzia che vi era, e riscontriamone le misure; e della nuova, venuta ora in bottega, facciamo la separazione e il registro. Va tu nella stanza di sopra. Prima di tutto leverai la polvere che in quattro giorni sarà caduta sopra la roba, e fatto questo, avvisami, che verrò a riscontrarla.

Truffaldino. Sior sì, vado subito. (Fortuna, te ringrazio, son tornà in stato de farme onor colla mia Smeraldina. Se trovo un taio a proposito, ghe porto da far un busto. Za, se vien sior Pantalon in bottega, no passa una settimana che la se torna a serrar). (parte) [p. 371 modifica]

SCENA II.

Leandro, poi il conte Silvio, poi Brighella.

Leandro. E pure, in mezzo alla consolazione di rivedermi nel mio negozio, mi dà pena il pensare che, per ragione del credito mio anteriore e per quello di mia matrigna, abbiano a perdere i creditori. Ma se il Cielo mi darà fortuna, protesto di volere soddisfar tutti. Spero che mio padre cambierà il sistema di vita che ha menato finora, e aiuterà il negozio a risorgere colla pratica e coll’attenzione. Potrei escluderlo dal maneggio, ma il rispetto che ho per lui non me lo permette.

Silvio. Oh, signor Leandro, vi riverisco.

Leandro. Servidore di vossignoria illustrissima.

Silvio. Mi rallegro di rivedervi in bottega.

Leandro. Grazie alla bontà del signor conte.

Silvio. Avete accomodato i vostri interessi?

Leandro. Per ora si sono accomodati alla meglio; ma spero in avvenire che tutti saranno soddisfatti e contenti.

Silvio. Avete bene assortito il vostro negozio?

Leandro. Sufficientemente per poter servire chi ci onorerà comandarci.

Silvio. Avete di queste stoffe moderne di Francia, che diconsi Peruviane1?

Leandro. Di Francia non ne abbiamo, signore, ma bensì di quelle dello stato nostro, lavorate principalmente in Vicenza, che sono belle quanto quelle di Francia, e ben passate, e di buona seta, e di vaghi colori, che costano meno e fanno ancora miglior riuscita.

Silvio. Lasciatemene veder qualche mostra.

Leandro. Appunto, eccone qui tre pezze sul banco. Veda se alcuna di queste può soddisfarla.

Silvio. Per dire la verità sono vaghissime, e come dite voi, i fiori sono assai ben passati ed hanno corpo, e i colori sono bene distribuiti. Questa mi piace più delle altre. Staccatene venti braccia per farmi un abito intero. [p. 372 modifica]

Leandro. M’immagino che il prezzo le sarà noto.

Silvio. Appunto, mi era scordato di domandarne il prezzo. Quanto ne volete al braccio?

Leandro. (Cattivo segno, se si scorda di domandare il prezzo). (da sè) Con chi conosce la roba, non si domanda di più del giusto. Il solito è di domandar venti lire, per poi discendere ad una lira alla volta sino alle undici. A me piace l’usanza inglese: vale quindici lire e non le domando di più.

Silvio. La domanda è onestissima; non vi si può battere un soldo. Tagliatene venti braccia.

Leandro. Permetta ch’io le domandi una cosa.

Silvio. Dite pure.

Leandro. Il negozio nostro deve andar per ora con un’altra regola. Mi figuro ch’ella mi conterà il danaro immediatamente.

Silvio. So bene anch’io che ora non potete stare in esborso; mi appago della convenienza. Tagliate il drappo e non ci pensate.

Leandro. La servo subito, (misura le venti braccia di stoffa) Ne avanzano due sole braccia; se non ha difficoltà di prender tutta la stoffa, può servirsene per un paio di calzoni di più.

Silvio. Sì, la prenderò tutta. Piegatela; ehi, Brighella.

Brighella. Illustrissimo. (Leandro piega la stoffa)

Silvio. Porterai questa stoffetta dal sarto, e gli dirai che sono ventidue braccia, che faccia in modo che v’escano due paia di calzoni. (Portala dove ti ho detto). (piano a Brighella)

Brighella. La sarà servida. (Come halo fatto a tor sto abito senza quattrini?) (da sè)

Silvio. Consegnate la roba al mio servitore. (a Leandro)

Leandro. Vuol che facciamo il conto, signore?

Silvio. Sì, fatelo.

Leandro. Ecco qui. Braccia ventidue, a lire quindici il braccio, importano lire trecento e trenta.

Silvio. Va benissimo. Portala al sarto, e digli che voglio l’abito per dopo domani. (a Brighella)

Brighella. Vado subito. (vuol prender la stoffa) [p. 373 modifica]

Leandro. Aspettate, galantuomo. (a Brighella, ritirando la roba) Il danaro, signore. (a Silvio)

Silvio. Ad un par mio si fanno di queste scene? quando ho detto di pagarlo, avete paura ch’io non lo paghi? quanti zecchini fanno trecento e trenta lire?

Leandro. Quindici zecchini in punto.

Silvio. E bene, quindici zecchini. (tira fuori una borsa) Prendi la roba e portala al sarto. (a Brighella)

Brighella. La possio tor? (a Leandro)

Leandro. Prendetela.

Brighella. Non occorr’altro; la porto subito. (Ancora me par impossibile che el ghe la paga), (da sè; prende la pezza e parte)

Silvio. Non ho tanto nella borsa che basti. Dopo pranzo venite da me, che sarete pagato.

Leandro. Come, signore? Ehi, galantuomo. (verso Brighella)

Silvio. Che? ardireste richiamare il mio servitore, diffidando della mia parola? (arrestando Leandro)

Leandro. I nostri patti non sono questi. Ha detto di pagar subito.

Silvio. Poche ore non guastano. Pagando oggi, vi pago subito. Non vi faccio scrivere a libro. Venite oggi da me.

Leandro. Mi perdoni; questa non è la maniera. Se verrò oggi da lei, mi farà quello che mi ha fatto per lo passato. Ci son venuto sessanta volte per riscuotere il conto vecchio, e la partita non è saldata.

Silvio. La vostra temerità meriterebbe che vi facessi correre altre sessanta volte, ma ho compassione delle vostre disgrazie, e voglio pagarvi non solo questo, ma tutto quel che vi devo di vecchio ancora. Unite i due conti insieme, e poi venite da me.

Leandro. I libri del negozio sono fuori di bottega, in mano de creditori. Per ora mi paghi questo.

Silvio. No, no, assolutamente. Voglio pagar tutto insieme. Quando avete i libri in bottega, fatemi un conto solo, e venite a riscuotere il vostro danaro.

Leandro. Mi paghi questo, signore, che ha obbligo di pagarlo subito, se ha coscienza, se ha riputazione. [p. 374 modifica]

Silvio. Se ho riputazione! Ad un par mio si dice se ha riputazione? Non so chi mi tenga, che non vi lasci una memoria sul viso...

Leandro. Così si tratta coi galantuomini?...

Silvio. Che galantuomini? Mercantuccio fallito.

SCENA III.

Pantalone e detti.

Pantalone. Coss’è sto strepito?

Leandro. Il signor conte...

Silvio. Vostro figliuolo è temerario a tal segno, che mi ha perduto di rispetto.

Leandro. Ha preso ventidue braccia di Peruviana... Trattenetevi, signor padre, in bottega, che a costo di tutto voglio ricuperarla. (parte)

SCENA IV.

Pantalone ed il conte Silvio.

Silvio. (Vada pure. Di Brighella posso fidarmi). (da sè)

Pantalone. Cossa vol dir, sior conte, invece de pagarme el debito vecchio, la vien a far un debito novo?

Silvio. Ho detto a vostro figliuolo che venga oggi da me, che sarà pagato. Che impertinenza è questa di voler diffidare per poche ore?

Pantalone. Mio fio no xe patron de disponer, e se la vuol qualcossa, che la parla con mi.

Silvio. Con voi ho da parlare? credete forse che io non sappia che voi nel negozio non c’entrate più nè poco, nè molto?

Pantalone. Mi no gh’intro? Cossa songio mi?

Silvio. Siete un fallito.

Pantalone. Sior conte, mi no me voggio scaldar el sangue, perchè i mi interessi presentemente vuol che gh’abbia pazenzia, [p. 375 modifica] per no fenirme de precipitar. M’avè dito falio, gh’ave rason. Son andà in desordene per diversi motivi, ma tra questi ghe xe anca la rason delle male paghe; i prepotenti della vostra sorte xe quelli che rovina i poveri botteghieri; volè far da grandi col nostro sangue, e a forza de far scriver su i libri, e de prometter e no pagar, ridusè i mercanti a falir. Ma se al marcante se ghe dise falio co nol pol pagar, cossa se ghe ha da dir a un par vostro, che fa i debiti per no pagar? Sior conte, in confidenza, che nissun ne sente, el xe un robar bello e bon.

Silvio. A me questo?

Pantalone. A vu, sior; e se gh’ho cuor de dirlo, gh’ho anca cuor de mantegnirvelo, se bisogna.

Silvio. Orsù, vedo che la disperazione in cui siete vi fa uscir di voi stesso, nè voglio perdere il mio decoro con un uomo capace di ogni più vil debolezza.

Pantalone. Mi capace de viltà? Mi capace de debolezze?

Silvio. Sì, voi che avete avuto il coraggio di ripetere da una donna trenta zecchini, dopo di averglieli regalati.

Pantalone. Chi v’ha dito sta cossa?

Silvio. Clarice istessa, che si burla di voi.

Pantalone. Me par impussibile che la me possa trattar cussì mal, dopo quel che ho fatto per ela. Se poderave dar che sior conte avesse suppià sotto, per un poco de rabbia de no aver podesto far elo quello che ho fatto mi. I trenta zecchini ghe li ho imprestai. Xe ben vero che aveva animo de donargheli, ma adesso che so cussì, li voggio se credesse de precipitar.

Silvio. Farete un’azione da vostro pari.

Pantalone. Cossa vorla dir, patron? la se spiega.

Silvio. Non occorre che d’avvantaggio mi spieghi. Intendetela come volete; imparate per l’avvenire a trattar le donne di merito, ed a cozzarla co’ pari miei. Ecco il fine che vi si doveva. La signora Clarice di voi si ride, e fa la stima che dee farsi della mia protezione.

Pantalone. Ghe vol altro che protezion! i vol esser bezzi. [p. 376 modifica]

Silvio. Danari a me non ne mancano.

Pantalone. La paga i so debiti, co l’è cussì.

Silvio. Vi pagherò, quando mi parrà di pagarvi. (parte)

SCENA V.

Pantalone, poi il Servitore di Clarice.

Pantalone. El gh’ha rason che adesso no son in stato de far bravure, da resto ghe voria far veder quel che son bon de far; e se le cosse mie le se drezza, el vederà chi son. Ma da sta sorte de prepotenti no se pol recever de meggio. Quel che più me fa specie xe el trattamento de siora Clarice: rider delle mie disgrazie? burlarme sora marca? E no responderme gnanca alla lettera che gh’ho scritto? Chi sa che no la m’abbia resposo malamente, e no la sia quella lettera che m’ha dito el Dottor? Ma come porla esser in te le so man? no so, non ho più visto Truffaldin; poi esser tutto; ma se la xe cussì, anca sta siora farò che la se penta d’averse burlà de mi.

Servitore. Servitor umilissimo, signor Pantalone.

Pantalone. No seu vu el servitor de siora Clarice?

Servitore. Per obbedirla.

Pantalone. Xe vero che la vostra patrona?...

Servitore. La mia padrona lo riverisce e gli manda questo viglietto.

Pantalone. Lasse veder. (prende il biglietto e lo apre) Sentimo cossa che la sa dir.

Carissimo Amico.

Mi consolo di cuore che gl’interessi vostri riprendano miglior aspetto, assicurandovi ch’ero per voi in una agitazione grandissima. Non fate caso di quanto vi scrissi nell'altro mio viglietto, poichè un eccessivo dolor di testa mi aveva tratto fuor di me stessa. Se avrete la compiacenza di venir da me, parleremo dei trenta zecchini, e siate certo che [p. 377 modifica]potete disporre di me stessa. Vi prego dunque consolarmi colla vostra presenza, assicurandovi ch’io sono e sarò sempre colla più sincera amicizia

Vostra vera2 amica
chi voi sapete.


(Cossa me andava disendo quel caro sior conte, che la se burla de mi, che no la fa più stima de mi? Se pol scriver con più sincerità, con più amor? Capisso che el conte Silvio parla per invidia, per rabbia, e giusto per farghe despetto vôi andar, vôi seguitar l’amicizia e lo voggio far desperar). Andè dalla vostra patrona, diseghe che la ringrazio e che sarò a reverirla. (al Servitore)

Servitore. Sì, signore, sarà servito. (Non mi dona niente?) (da sè)

Pantalone. Coss’è? voleu gnente?

Servitore. Avrei bisogno di comprare un poco di nastro color di rosa per un certo affare.

Pantalone. Aspettè. Questo ve serviravelo?

Servitore. Questo sarebbe a proposito. Quanto al braccio?

Pantalone. Servelo per vu?

Servitore. Per me, sì, signore.

Pantalone. Co el serve per vu, tolè la pezza e portevela via.

Servitore. Obbligatissimo alle sue grazie. (Se farà così, anche la mia padrona gli tornerà a voler bene e non dirà più male di lui, come diceva questa mattina). (da sè, e parte)

SCENA VI.

Pantalone solo.

Nissun m’ha visto a darghe quella cordella; no l’ho più da far e no lo vôi più far; ma son in impegno per causa de sior conte de farghela veder co sta donna. Fenio sto impegno, lasso tutte le pratiche e me metto a tender al sodo. No posso miga [p. 378 modifica] tutto in t’una volta scambiarme affatto. Sta mutazion improvvisa gh’ho paura che la me farave crepar. Un pochetto alla volta me userò. Za con siora Clarice no gh’ho bisogno de spender per adesso; se ghe dono i trenta zecchini che la m’ha da dar, la xe discreta, ghe basterà. La me userà le solite distinzion, e sto sior conte scacchio, affamà, el vederemo a batter la retirada e el metterà le pive in tel sacco. (parte)

SCENA VII.

Leandro, poi Aurelia.

Leandro. Pazienza; non mi è riuscito ritrovar Brighella. Ma se porterà al sarto la roba, egli è avvisato, e gliela farò sequestrar nelle mani. Ecco qui; mio padre se ne va altrove e lascia la bottega sola. Continua colla solita sua negligenza. Almeno avesse chiamato i giovani. Chi è di là? c’ è nessuno?

Aurelia. Chi chiamate, signor Leandro? (viene dall’interno della bottega)

Leandro. Qualcheduno che stia qui, sicchè non resti la bottega sola.

Aurelia. Si è rimesso roba che basti nella bottega?

Leandro. Abbiamo un passabile sortimento da servire anche uno sposalizio, se occorre. Molta roba era ordinata; capitò nei giorni passati ed io l'ho avuta sulla mia parola; altra mi è stata fidata da’ miei amici, che hanno avuto compassione di me.

Aurelia. Che bei drappi ci sono all’ultima moda?

Leandro. Uno fra gli altri mi par bellissimo, con poco argento, ma bene distribuito. Non costa molto, ma in opera deve riuscire assai bene.

Aurelia. Potrei vederlo? Per semplice curiosità.

Leandro. Ma voi, signora, non istate bene in bottega.

Aurelia. Ora non passa nessuno. Vedo questo drappo e me ne vado subito.

Leandro. Eccolo qui. Osservate, (le fa vedere una pezza di broccatello)

Aurelia. Veramente bello; bello, di ottimo gusto. Quanto lo venderete al braccio? [p. 379 modifica]

Leandro. A me lo mettono cinquanta lire; faccio il conto di venderlo tre zecchini.

Aurelia. È bellissimo veramente.

Leandro. Vi piace dunque.

Aurelia. Sì, mi piace tanto, che ne voglio un taglio per me.

Leandro. Oh, signora, perdonate, ora non è il tempo che vi facciate un abito di questa spesa.

Aurelia. Lo voglio assolutamente.

Leandro. Bel guadagno che farà il negozio.

Aurelia. Segnatelo a mio conto. Mi ha promesso il signor Dottore, che avrò una mesata di tre zecchini.

Leandro. Da chi avrete questa mesata?

Aurelia. Da vostro padre, da voi, dal negozio.

Leandro. Tre zecchini il mese? mi contenterei poterne ricavar tanti da mantener la famiglia, senza aggravarci di maggiori debiti.

Aurelia. Basta, per ora voglio quest’abito e poi la discorreremo.

Leandro. Non signora; non l’avrete.

Aurelia. Non l’avrete? A me si dice non l’avrete? Colla mia dote si è assicurata la roba della bottega.

Leandro. Colla vostra dote e coll’eredità di mia madre.

Aurelia. E per conto mio voglio ora quest’abito.

Leandro. Ed io a proporzione posso dire di volerne quattro.

Aurelia. Prendetene anche sei, non m’importa. Intanto porto via questa pezza e fate conto di non averla. (parte e si porta seco il broccato)

SCENA VIII.

Leandro, poi Truffaldino.

Leandro. Tutti tendono a consumare, ed io sarò il sacrificato? Se si vogliono rovinare, che si rovinino. Truffaldino.

Truffaldino. Signor.

Leandro. Prendi queste tre pezze di broccato e portale dalla signora Vittoria. [p. 380 modifica]

Truffaldino. Se fala sposa?

Leandro. Non pensar altro. Portale colà, e dille che le tenga, fino che da me o da suo padre saprà cosa ne debba fare. (Prima che il diavolo le porti, le voglio mettere in salvo). (da sè, e parte)

Truffaldino. Coll’occasion che porto ste tre pezze alla patrona, porterò sto taggio de manto alla serva. (prende la roba, e parte)

SCENA IX.

scena1

Clarice e Brighella.

Clarice. Venite qui, che parleremo con libertà.

Brighella. E1 mio padron ghe fa riverenza e el ghe manda sta stoffa peruviana per farse un abito.

Clarice. Sono bene obbligata al signor conte. Mettetela qui su questo tavolino.

Brighella. L’è un drappo all’ultima moda.

Clarice. Certo, è vago, è di buon gusto. Ringraziatelo voi intanto, che poi farò io le mie parti.

Brighella. La sarà servida.

Clarice. Aspettate, voglio darvi da bere l’acquavite.

Brighella. No la s’incomodi.

Clarice. Non volete?

Brighella. Per non refudar le so grazie, riceverò quel che la se degna de darme.

Clarice. Mi dispiace che non ho moneta. Un’altra volta.

Brighella. Come la comanda. (Avara del diavolo. Ho fatto tanta fadiga a sconderme da sior Leandro che me vegniva drio; se saveva cussì... basta). (da sè) A bon reverirla.

Clarice. Verrà presto il signor conte?

Brighella. L’ha dito che el vegnirà avanti sera. (Che bel cuor che ha el me padron! Portar via la roba a un povero desgrazià, per farse merito con una donna! e mi ghe la porto? Voggio andar adesso a cavarme sta maledetta livrea). (da sè, e parte) [p. 381 modifica]

SCENA X.

Clarice, poi Pantalone.

Clarice. Gran prodigio è questo del signor conte. Non ha mai fatto altrettanto. Ad onta delle sue grandiose parole, l’ho sempre creduto spiantato, ma convien dire ch’ei possa spendere, se ha fatto per me il sacrifizio di parecchi zecchini. Ciò mi fa sperare qualche cosa di più... Ma penso poi fra me stessa, che il vivere di regali e di protezioni è una cosa di troppo pericolo e di molto poco decoro. Pazienza! Ho gettato il tempo a imparare la musica, e la voce mi ha tradito. Sono stata allevata con morbidezza, e ora non so ridurmi... Oh, converrà che ci pensi e che mi procuri un marito, o che mi determini ad un mestiere che possa darmi da vivere con un poco più di riputazione.

Pantalone. Con grazia. Se pol vegnir?

Clarice. Venga, venga, signor Pantalone.

Pantalone. Cossa feu, fia mia? Steu ben?

Clarice. Benissimo, per servirla. Ed ella, signore, come si porta?

Pantalone. Mi stago da re. Pochi bezzi, ma sanità e bon tempo no me ne manca.

Clarice. Chi ha spirito, non si lascia abbattere dalle disgrazie.

Pantalone. Parlemo de cosse alliegre. Son vegnù a disnar con vu; me voleu?

Clarice. Mi farà piacere. Ma sa ch’io son sola; se si contenta di quel poco che e è.

Pantalone. Me contento de tutto. Me basta la compagnia de siora Clarice. M’ho tolto la libertà de portarve un per de pernise. Tolè, fia, che le farè cusinar.

Clarice. Bene obbligata al signor Pantalone. Le mangeremo in compagnia, se si contenta.

Pantalone. No so se poderò restar. Se no vegnirò mi, le magnerà vu, una stamattina e una sta sera. Le metto qua su sto taolin. (pone le pernici sul tavolino e vede la stoffa) Cossa xe sta roba? qualche spesa da novo? [p. 382 modifica]

Clarice. Sì, signore, mi faccio un abito.

Pantalone. Se pol veder?

Clarice. Guardate pure e ditemi s’è di buon gusto.

Pantalone. Oh bella! sto drappo el xe vegnù fora dalla mia bottega.

Clarice. Ho piacere che la spesa sia stata fatta da voi.

Pantalone. Anca sì che indovino3 chi v’ha porta sto regalo?

Clarice. Lo credete un regalo?

Pantalone. Mi sì, certo; e una donna sincera come vu, no me lo negherà.

Clarice. È vero, non lo posso negare. (È meglio confessarlo, per metterlo al punto di far altrettanto). (da sè)

Pantalone. Sto regalo ve l’ha fatto sior conte Silvio.

Clarice. Verissimo. Si credeva ch’ei non potesse spendere, ma ha fatto vedere che ne ha e che è un galantuomo.

Pantalone. Anzi in sta occasion el fa veder che el xe un miserabile e un poco de bon. Sta roba el l’ha cavada de man a mio fio con inganno, con prepotenza. Nol l’ha pagada e nol gh’ha intenzion de pagarla. E vu, se sè quella donna d’onor che ve vantè de esser, no l’ave da ricever.

Clarice. Ma egli me l’ha mandata per il suo servitore ed io l’ho ricevuta; come avrei a fare presentemente?

Pantalone. Mandeghela indrio; ma gnanca: el xe capace de venderla e mi averave perso el mio capital. Fè cussì, demela a mi, fideve de mi. Diseghe che l’ho vista, che l’ho cognossua...

Clarice. Ed io, poverina, ho da perdere miseramente un vestito? (con afflizione)

Pantalone. Aveu paura che mi no sia capace de farvene uno compagno?

Clarice. Questo mi piace tanto! (come sopra)

Pantalone. Aspettè. Gh’aveu el vostro servitor in casa?

Clarice. Ci deve essere.

Pantalone. Deme della carta e el calamar, e lasse far a mi, che sarè contenta. [p. 383 modifica]

Clarice. Eccovi il calamaio e la carta.

Pantalone. Scrivo do righe, e spero che sarè consolada. (si pone a scrivere)

Clarice. (Veramente, se il signor Pantalone ritorna com’era prima, mi giova più la di lui amicizia; è più splendido, è più generoso, e poi presso la gente del mondo un vecchio dà meno di osservazione). (da sè)

Pantalone. Ho sentio. Sentì quel che scrivo a mio fio.

Carissimo figlio.

Mi è riuscito ricuperare la Peruviana, carpita dal signor Conte, e la rimando a bottega. In compagnia del datore della presente, mandatemi per un garzone le quattro pezze di ganzo, perchè ho un’occasione di esitarne a pronti contanti.

Clarice. Perchè avete detto a pronti contanti?

Pantalone. Digo cussì con mio fio, perchè no voggio che el sappia i fatti mii. Chiame el servitor. Demoghe sto drappo e che el porta i ganzi d’oro e d’arzento, che ve scieglierè quello che più ve piase.

Clarice. Ho da rimandar questo? e se non manda le pezze di ganzo, ho da restar senza?

Pantalone. Fideve de mi, no abbiè paura.

Clarice. Lo farò per compiacervi; (ma lo faccio mal volentieri). (da sè)

Pantalone. Tanto più me impegnè a far per vu tutto quello che poderò far.

Clarice. Vado subito a consegnar al servitore il drappo e la lettera. (Arrischio dieci per aver trenta; non mi par cattivo negozio). (da sè, indi parte portando seco la stoffa e il viglietto)

SCENA XI.

Pantalone, poi Clarice,

Pantalone. Voggio farghela veder a sto sior conte. Sior sì, un abito de ganzo per farghe despetto. E che l’impara a donar [p. 384 modifica] la roba soa e no la roba dei altri. Nol xe un piccolo affronto quello che per causa mia ghe fa sta donna, a scoverzer le so magagne e mandar la so roba dove el l’ha tolta senza pagarla. Questo xe segno che la me vol ben, che la fa stima de mi.

Clarice. Posso far di più per il signor Pantalone?

Pantalone. Giusto adesso pensava tra de mi, che certo ve son obbligà e che no so per vu cossa che no farave.

Clarice. Che mi dite ora sul proposito dei trenta zecchini?

Pantalone. Che ve li dono e che no ghe ne parlemo mai più.

Clarice. Se li volete, son pronta a restituirveli.

Pantalone. No v’incomode, no ve travagiè, che no i voggio.

Clarice. Avea fatto un pegno per ritrovarli.

Pantalone. Poverazza! gradisso el vostro bon cuor. Avereu speso gnente pel pegno che ave fatto?

Clarice. A chi mi ha fatto il piacere, bisognerà ch’io doni almeno un zecchino.

Pantalone. No voi che ghe remettè del vostro per causa mia. Tolè el zecchin e recuperè la vostra roba. (le dà uno zecchino)

Clarice. Grazie al signor Pantalone. (Anche questo è buono. Non era così pazza io d’impegnar per lui la mia roba). (da sè)

Pantalone. Me basta che me voggiè ben, e sora tutto che ve desfè interamente de sto sior conte, che no merita d esser praticà da una donna della vostra sorte.

Clarice. Mi dispiace una sola cosa.

Pantalone. Cossa ve despiase?

Clarice. Che questa sera mi ha invitata a una festa di ballo e ad una cena ancora, ed io gli ho dato la parola d’andarvi.

Pantalone. Se trova una scusa e no se ghe va.

Clarice. È vero, lo potrei fare e lo farei volentieri, ma ho preso impegno di condurvi due signore del mio paese coi loro amici e parenti, e mi dispiace di dover fare una cattiva figura.

Pantalone. Anca co sti signori se trova un pretesto.

Clarice. Non saprei qual pretesto ideare. Questa è una cosa che mi mortifica infinitamente. [p. 385 modifica]

Pantalone. Cara fia, me despiase anca mi. Ma da sior conte no gh’ave d’andar.

Clarice. Per farmi comparir bene coi miei patrioti, non potrebbe supplire il signor Pantalone? Delle feste e delle cene me ne ha date ancora; non mi potrebbe favorir questa sera?

Pantalone. Lo faria volentiera. Ma adesso gh’ho i mii riguardi.

Clarice. Che sia vero quel che hanno detto?

Pantalone. Cossa hali dito?

Clarice. Che il signor Pantalone non comanda più, non maneggia più, non è padrone di spendere, neè di cavarsi una soddisfazione?

Pantalone. No xe vero gnente. Son patron mi, comando mi, posso spender a modo mio, e che sia la verità, stassera gh’averè la cena e la festa da ballo.

Clarice. Davvero, vi sarò tanto obbligata e avrò piacere per voi, acciò si smentiscano le lingue dei maldicenti.

Pantalone. Son quel che giera e sarò sempre a vostra disposizion. Che xe sta in casa un poco de borrasca, ma ho butta l’àncora a fondi e me son defeso.

SCENA XII.

Il Servitore di Clarice e detti.

Servitore. Son qui colla risposta.

Clarice. Dov’è la roba? (al Servitore)

Servitore. Io non ho altra roba che questo pezzo di carta.

Pantalone. No i v’ha dà delle pezze de ganzo? No xe vegnù co vu nissun de bottega?

Servitore. Non c’è nessuno con me, e il ganzo non l’ho veduto.

Pantalone. Mio fio ghe gerelo?

Servitore. Questa polizza l’ha scritta egli stesso.

Pantalone. Cossa diselo? (vuol aprire)

Clarice. A me, a me; voglio leggerla io. (prende la carta) [p. 386 modifica]

Carissimo signor Padre.

Delle pezze di ganzo che vi erano, la più bella l’ha voluta per sè la vostra signora consorte. Le altre le ho poste in salvo, perchè non periscano, e penso di barattarle. Ho venduto le Peruviane e quella ancora che avete mandato, ricuperata dalle mani del Conte.

Pantalone. (Stago fresco da galantomo). (da sè)

Clarice. Ecco il bell’abito che mi farà il signor Pantalone. Già il cuore me lo diceva, ho perduto quello che aveva, ed ora sono senza dell’uno e senza dell’altro.

Pantalone. Mia muggier s’ha tolto una pezza de ganzo? La me ne renderà conto. Farò che la lo metta fora e ve lo manderò avanti sera.

Clarice. No, no, non voglio entrare in impegno con vostra moglie. Ciò potrebbe farmi perdere la riputazione presso di lei e presso del mondo. Pazienza! Farò di meno e imparerò in avvenire a fidarmi poco delle promesse degli uomini.

Pantalone. Vu me mortifichè senza rason.

Clarice. Non ho ragione di lamentarmi? Che dirà il signor conte? Come potrò giustificarmi con lui della mala azione che per causa vostra gli ho fatto?

Pantalone. Ghe remedieremo.

Clarice. Eh, non vi è altro rimedio che dirgli che voi mi avete sedotta...

Pantalone. Cussì me volè trattar?

Clarice. Compatitemi, è grande la passione di aver perduto un vestito in tempo che ne ho bisogno.

Pantalone. No son capace de farvene un altro?

Clarice. Non so di che cosa siate capace. Vedo ora il bel frutto delle vostre lusinghe.

Pantalone. L’hoggio fatto fursi per lusingarve?

Clarice. Se diceste davvero, non mi avreste fatto perdere il certo per l’incerto. [p. 387 modifica]

Pantalone. Son un galantomo, patrona.

Clarice. Alle prove si conosce la verità.

Pantalone. Alle prove? Tolè, siora, ve farò veder chi son. Tolè, questi xe cinquanta zecchini; feve un abito de ganzo, e comprevelo da chi volè. (getta sul tavolino una borsa)

Clarice. Basteranno cinquanta zecchini?

Pantalone. Se no i basterà, supplirò per el resto. Adesso4 no ghe n’ho altri. Voleu che me despoggia in camisa?

Clarice. No, il mio caro signor Pantalone, vi sono tanto obbligata. Vedo l’amore, la bontà che avete per me. Vi ho sempre conosciuto per il re de’ galantuomini. Non farei un dispiacere a voi per trattare un altro, s’ei mi volesse indorare da capo a piedi. Tratterò il signor conte com’egli merita. Non isperi egli d’avermi al suo festino. Voglio venire al vostro, che sarà bello, che sarà magnifico e che mi sarà tanto più caro, perchè mi viene offerto dal bel cuore del mio amatissimo signor Pantalone.

Pantalone. Volè anca el festin?

Clarice. Sì, certo, e anche la cena. Non me l’avete promesso? Un galantuomo come voi, non manca alla sua parola.

Pantalone. No occorre altro. Faremo tutto. (Ghe son e bisogna starghe).

Clarice. Ma non vi è tempo da perdere, se volete far le cose con buona maniera. Conviene che andiate a dare gli ordini per questa sera.

Pantalone. Aspettè, xe a bon’ora. Lasseme goder un poco la vostra compagnia.

Clarice. No, se mi volete bene, non perdete tempo. Mi preme che riesca la cosa con pulizia; andate subito ad ordinare quel che bisogna.

Pantalone. E ho d’andar subito?

Clarice. Via, non mi fate andar in collera.

Pantalone. Vago, vago. Par che me scazzè via.

Clarice. Questa sera ci divertiremo.

Pantalone. Stassera se divertiremo. Sarè avvisada del logo. [p. 388 modifica] Invidè vu chi volè, che mi no invido nessun. Arecordeve sora tutto che sior conte nol veggio.

Clarice. Il signor conte non lo pratico più.

Pantalone. Brava, a revederse stassera. Voggieme ben, tendè al sodo, no v’indubitè gnente. Fin che gh’averò bezzi, i sarà tutti a vostra disposizion. (parte)

Clarice. Va subito dal signor conte Silvio, digli che venga qui che mi preme (al servitore) (Non voglio perdere ne l’uno, nè l’altro). (parte)

Servitore. La mia padrona ha giudizio. È una cacciatrice che tende le reti ai fagiani, alle starne, ai passeri ed ai merlotti. (parte)

SCENA XIII.

Camera in casa di Pantalone.

Aurelia e Marcone.

Aurelia. Sì, certo, questa sera portatemi tutti i miei vestiti, che il danaro ci sarà per riscuoterli.

Marcone. Quand’ella abbia il danaro, sto qui vicino, mi mandi a chiamare, che vengo subito.

Aurelia. Ma che vi pare de’ miei vestiti? Mi sembrano antichi, non è egli vero?

Marcone. Certo che sono antichi, per una giovane come lei. Anzi la consiglierei a venderli e farsene de’ più moderni.

Aurelia. Ecco qui del broccato per farne uno di gusto.

Marcone. Il drappo è bello. All’ultima moda. Ma la pezza è grossa; ve ne sarà per più di un vestito.

Aurelia. L’ho misurato. Sono cinquanta braccia.

Marcone. Si cavano due vestiti interi senza risparmio. Ne potrebbe vendere uno.

Aurelia. Anzi lo voglio vendere, perchè ho bisogno di cento cose e non voglio dipendere da mio marito.

Marcone. Quanto ne vuole al braccio?

Aurelia. Alla bottega lo vendono tre zecchini. [p. 389 modifica]

Marcone. Oh, non merita questo prezzo. Vi è pochissimo argento. Il drappo è leggiero e anche poco battuto. Al più, al più gli si potrebbero dar tre filippi.

Aurelia. Se lo volessi dare per tre filippi, voi lo comprereste?

Marcone. Se si trattasse di far a lei un piacere, lo comprerei, cioè ne comprerei ventidue braccia per un andriene.

Aurelia. E ventidue sono quarantaquattro. Avanzerebbero sei braccia. Potreste comperare anche i5 sei braccia che restano.

Marcone. Per farne che? basta, per servirla li comprerò a un zecchino al braccio.

Aurelia. Quanto mi verrebbe in tutto?

Marcone. Dei ventidue braccia sedici zecchini e mezzo, e sei ventidue e mezzo.

Aurelia. Datemi il danaro e prendetevi ventiotto braccia del drappo.

Marcone. Ma, favorisca in grazia, se questa sera ha da riscuotere i suoi vestiti, perchè ora vuol farne uno di nuovo, ch’è inferiore dei suoi?

Aurelia. Non mi avete detto che non sono alla moda?

Marcone. Ora mi sovviene che due di essi sono moderni ancor più di questo, e più massicci, e di maggior valore. Non sarebbe meglio che ella si prendesse di tutta la pezza cento e cinquanta filippi?

Aurelia. Cencinquanta filippi non mi sarebbero discari. (Potrei divertirmi alla conversazione). (da sè)

Marcone. (Se me la dà, ne guadagno almeno cinquanta). (da sè)

Aurelia. Sono quasi persuasa di farlo.

Marcone. Ed io son pronto a darle il danaro.

Aurelia. Animo dunque, il negozio è fatto.

Marcone. Misuriamo la pezza.

Aurelia. Misuriamola; ma di me vi potete fidare.

Marcone. Non occorr’altro; sto sulla sua parola. Contiamo il danaro. (tira fuori la borsa e principia a numerare) [p. 390 modifica]

SCENA XIV.

Pantalone e detti.

Pantalone. (Mia muggier co sto dretto de piazza? Son curioso de saver cossa se contratta). (da sè, in disparte)

Aurelia. Sopratutto che i zecchini siano di Venezia e di peso.

Marcone. Io mi fido di lei ed ella dee fidarsi di me.

Pantalone. (Bezzi? Per diana, che ghe n’avena bisogno anca mi, che siora Clarice me n’ha dà una bona destrigada). (da sè)

Marcone. Settanta e cinque settantacinque; questi sono settantacinque zecchini....

Pantalone. Alto là, patroni. Cossa xe sti negozi?

Aurelia. (Oh maledetto! è capitato in tempo). (da sè)

Pantalone. Coss’è sior Marcon carissimo, che interessi gh’aveu con mia muggier 7

Marcone. Signore, ella vuol vendere questa pezza di broccato, ed io per farle piacere la compro.

Pantalone. Per farghe piaser!

Marcone. Io non sono venuto a pregarla.

Aurelia. E bene, che vorreste dire per questo? (a Pantalone)

Pantalone. Voggio dir, che me maraveggio dei fatti vostri, che in tel caso che se trova la nostra casa, abbiè cuor de tor la roba in bottega e de venderla per buttarla via.

Aurelia. Finalmente la roba di bottega è assicurata dalla mia dote.

Pantalone. Se fare cussì, andarà la dota e la bottega e la casa. Pensè a regolarve, pensè al bisogno che gh’avemo d economia. Ai debiti che un zorno bisognerà pagar. Moderè l'ambizion, scambiè el modo de viver e tolè esempio da mi. Via, mostreve una donna savia e prudente. Aspettè che la sorte se mua per nu e allora poderè soddisfarve; abbiè giudizio, vive con regola e tolè esempio da mi.

Aurelia. Orsù, per causa mia non voglio che dite che siete andato in rovina. Vi lascio il broccato e mi privo di questa soddisfazione, sperando che voi pure farete lo stesso. Ma se [p. 391 modifica] mi accorgo che voi gettiate malamente un paolo, vi assicuro che anch’io non lascierò di fare la parte mia. (parte)

SCENA XV.

Pantalone e Margone.

Marcone. Dunque riprendo il mio danaro e vi chiedo scusa se mai....

Pantalone. Aspettè. Quanto ghe devi de quella pezza de ganzo?

Marcone. Dirò, capisco che in bottega lo venderete di più a chi verrà a comprarlo; ma cercando di volerlo vendere, non si può pretendere...

Pantalone. Via, quanto ghe devi?

Marcone. Sono cinquanta braccia in ragione di tre filippi il braccio, cencinquanta filippi.

Pantalone. Podeu crescer gnente?

Marcone. Niente affatto.

Pantalone. Che bezzi xe quelli?

Marcone. Settantacinque zecchini.

Pantalone. Tolè su el ganzo e portevelo via. (si prende i zecchini)

Marcone. Ma voi avete sgridato la moglie...

Pantalone. Ela li toleva per buttarli via. Mi togo i bezzi per impiegarli ben.(Ela li averave zogai, mi almanco li spenderò meggio sta sera). (da sè, e parte)

SCENA XVI.

Margone, poi Leandro ed il Dottore.

Marcone. Mi pareva impossibile che Pantalone avesse fatto giudizio. (prende il broccato sotto il braccio)

Leandro. Che fate qui voi? (a Marcone)

Marcone. Prendo la roba mia e me ne vado.

Leandro. Da chi avete avuto quel broccato? Dalla signora Aurelia? [p. 392 modifica]

Marcone. Non signore. L’ho avuto dal signor Pantalone e a lui ho contato settantacinque zecchini.

Leandro. Cinquanta braccia di quel broccato a tre filippi il braccio? Con che coscienza lo prendereste?

Marcone. Cosa mi andate voi discorrendo? L’ho preso da un mercante; se non me lo avesse potuto dare, non me lo averebbe dato. Egli ha avuto il danaro, ed io mi porto meco la mercanzia; sono un galantuomo, e voi, se siete di ciò malcontento, lamentatevi di vostro padre. (parte)

SCENA XVII.

Leandro e il Dottore.

Leandro. Sentite, signor Dottore? Mio padre continua a precipitare i negozi come ha sempre fatto.

Dottore. E vi è di peggio ancora. Tengo persone all’erta per sapere i suoi andamenti; e so ch’egli è stato a fare una lunga visita alla signora Clarice.

Leandro. Possibile che ciò sia vero?

Dottore. Che volete di più? La locanda è dirimpetto alla nostra casa. L'hanno veduto entrare ed uscire mia figlia e la serva.

Leandro. Ora capisco dove voleva esitare le pezze di broccato, che mi mandò a chiedere.

Dottore. E vi dirò ancora di peggio. So che ha parlato con de’ suonatori per una festa di ballo.

Leandro. Povero me! Sono assassinato.

Dottore. Convien trovarvi rimedio. Sin ora negli accomodamenti ho avuto riguardo al suo decoro, da qui in avanti penserò soltanto all’interesse vostro: povero innocente sagrificato!

Leandro. Venero e rispetto mio padre, ma la sua condotta ci vuol ridurre un’altra volta agli estremi. (parte)

Dottore. Vi rimedierò io; chi non ha fede, non merita compassione. (parte)

Fine dell’Atto secondo.

  1. Stoffe tessute con fili a due colori.
  2. Savioli e Zatta: sincera.
  3. Così Gavelli e Zatta; Paper., Fantino-Olzati, Savioli ecc.: indivino.
  4. Così Savioli e Zatta; Paperini, Corciolani, Fantino-Olzati ecc.: a dosso.
  5. Savioli e Zatta: le.