La Marfisa bizzarra/Canto VIII

Canto VIII

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Canto VII Canto IX
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CANTO OTTAVO.


ARGOMENTO.


Il duello non segue per la mente
di don Gualtier. Marfisa è screditata.
La corregge Ermellina. Agiatamente
Gano sen muore in forma inaspettata.
Bandito è Filinor: resta furente
Marfisa e fuor di modo disperata.
A Turpino arcivescovo Ruggero
chiede di porla a forza in monastero.


1
     De* costumi del secol predicava
il fraticel, se vi ricorda, ho detto.
Pulitamente ogni punto toccava
dell’andazzo vizioso maledetto.
Nel suo quaresimal non si trovava
sermon che fosse, come quel, diretto,
della gola, dell’ozio e degli amori.
Le costure scuoteva agli uditori.
2
     Delle miglior cucine di Parigi,
de* miglior letti e delle miglior tresche,
de’ luoghi ove scorrevano i luigi
per gozzoviglie e per guanciotte fresche,
dove dell’allegria sempre i vestigi,
era, e del giuoco e delle piú dolci esche:
avea *1 frate studiato in fra l’imtume
del secolo il sermon sopra il costume.

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3
     Donde sapea del secol la malízia,
perché vivea nel secol veramente;
ma al minacciar la divina giustizia,
il secol si rideva apertamente;
che gli equivoci, i vini e la dovizia,
ch’egli ogni di cercava in fra la gente,
facea che il detto: «Fa’ quel ch’io ti dico,
non quel ch’io fo» non s’apprezzasse un fico.
4
     Turpin sotto al suo ricco baldacchino
era nel duomo, e avea presso Dodone.
Si volse a quel, dicendo: — Paladino,
perdio! questo è un bel pezzo di sermone.
Dovria pentirsi il secolo assassino
a tai sudor di noi sacre persone.
Farmi che passi delle vostre colpe
questo sant’uom piú addentro che alle polpe.
5
     Dodon rispose: — Arcivescovo mio,
del secol questo frate ha detto il vero;
ma fatemi un piacer, se amate Dio:
i vostri frati radunate e il clero,
che un giorno voglio lor predicar io,
e facilmente di provarci spero
che il maggior mal, che nel mio secol sia,
deriva dalla vostra sacristia. —
6
     Turpin prudente e grave parti zitto
con la sua cappa magna e il pastorale,
dicendo: — Un bel tacer non fu mai scritto. —
Benediceva il mondo universale,
ed alla mensa vescovil, che vitto
pareva d’Epicuro, la morale
rammemora del frate, disprezzando
gli stravizzi del secolo nefando.

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7
     Ma dove scorro? Io chiedo umil. perdono
a Turpin, che dal ciel forse m’ascolta.
Altro non penso ed altro non ragiono
che fatti da lui scritti quella volta.
Ora a Terigi ritornar fía buono,
che la disfida del guascone ha tolta
a esaminar col cappellan, dicendo:
— Tu vedi, prete: me tihi commendo. —
8
     Prete Gualtier non era senza testa:
conosce ben che il guascone era accorto;
che il gradasso facea nella richiesta,
perché Terigi era grassotto e corto.
E disse: — Nulla non temete; a questa
disfida io vi trarrò con lode in porto.
Qui deluder convien l’arte con l’arte,
come c’insegnan le moderne carte. —
9
     Gli pose innanzi penna e calamaio,
dicendo: — Quel ch’io detto voi scrivete. —
Disse Terigi: — Io scrivo tutto gaio;
ma pensa a quel che detti, caro prete. —
Dicea Gualtier: — Ho il guascon nel mortaio.
Scrivete pur, che non vi pentirete. —
E finalmente il buon Terigi scrisse
ciò che volle Gualtier, che cosí disse:
10
     «Io Terigi, marchese e duca e conte
e signore di eccetera, al guascone
Filinor dice ch’egli ha le man pronte
al duello minacciato e lo spadone;
che sceglie il campo, e fía di lá dal ponte,
di Senna in sulle rive, al torrione;
ma avverto Filinor che prima impari
che i duelli non seguon che fra pari.

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11
     Voi del re Carlo Magno e imperatore
di cavalier di camera nel posto
siete, e persona pubblica; io signore
privato son: sicché tutto all’opposto.
S’io v’ammazzo, vedete in qual errore
di lesa maestade incorro tosto.
Nessun mi può salvar dalla rovina
del fisco e della morte repentina.
12
     Se voi mi trafiggete, io son privato:
v’è assai piú facil rattoppar la cosa.
Questa disuguaglianza è gran peccato
e una sopraffazione vergognosa.
Quando avrete l’incarco rinunziato,
non sará la disfida difettosa;
e allora al torrione oltre alla Senna
v’attenderò diritto come antenna».
13
     Scritta la lettra, diceva Terigi:
— Non vo’ mandarla, grida a tuo talento.
Può rinunziare, e allor, per san Dionigi!
venga a me l’olio santo pel cimento. —
Dicea Gualtieri: — Io sfido Malagigi
a ritrovar piú sano pensamento
co’ suoi dimon. Non abbiate paura,
che vi fa grande onor la mia scrittura. —
14
     Questo viglietto il prete, buona lana,
fé’che Terigi a Filinor spedisce.
Al guascon la risposta parve strana:
pensa e ripensa e nulla stabilisce.
Lasciar l’incarco non è cosa sana;
questa risoluzion forte abborrisce,
perocch’è necessaria la prebenda:
e par che la risposta non intenda.

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15
     Replica la disfida e chiama vile
il marchese Terigi e poltroniere.
Gualtieri è corbacchion di campanile:
risponde che l’accetta con piacere;
ma che rinunzi prima, s’è civile,
il suo pubblico incarco all’imperiere,
e poscia che sará di lá dal ponte,
in sulla Senna, come un Rodomonte.
16
     Comincia Filinor pubblicamente
a narrar per la piazza le faccende.
Terigi è* in sull’avviso, e colla gente
narra la sua risposta e si difende.
Ognun gli dá ragione apertamente,
e la bassezza del guascon riprende.
Tutto Parigi entrato era in questione,
e si dava al marchese la ragione.
17
     Ne’ pubblici discorsi la canzona
finiva in sulle spalle di Marfisa.
Se le metteva in capo una corona
di pazza, d’immodesta e d’altra guisa.
Si sa che, quando un popolo ragiona,
ha piú valor chi muove maggior risa,
né si guarda alla dama o alla plebea
ne’ titoli, ne’ detti o nell’idea.
18
     Se avea Marfisa amica donna alcuna,
si potea dir che questa era Ermellina.
La moglie del danese era quell’una
che sola le poteva star vicina.
Era una dama fatta in buona luna,
che si piccava d’esser indovina,
sincera, perspicace e di coraggio,
atta a dar un consiglio molto saggio.

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19
     Sentendo il mormorio de’ susurroni
e Io sparlar contro Marfisa amica,
aveva detto a parecchi: — Bricconi
e della caritá gente nimica! —
Poi per andare a far le ammonizioni,
si fece portar via ’n una lettica,
e le stimate fece con le mani,
giunta a Marfisa, e disse: — Ho degli arcani.
20
     Cara figliuola mia, tutto il paese
discorre che Terigi t’ha piantata.
Ma poco stimo il fatto del marchese:
piú mi trafigge l’altra intemerata;
che mille lingfue serpentine accese
t’hanno assai malmenata e screditata.
Si fanno sopra te discorsi orrendi,
come se fosti qualche... tu m’intendi.
21
     Queste imprudenze, questi nascondigli,
il voler a tuo modo senza freno,
le lettere amorose, i tuoi puntigli
per certi Filinor sono un veleno;
e désti a sospettar sino a’ conigli,
e a dir ch ’è il tuon, dove appare il baleno.
Io ti difendo, ma una lingua sola
non può frenar d’un popolo la gola. —
22
     Rispose allor Marfisa: — A modo mio
la vorrò sempre; non son piú ragazza.
Perché ho mente e intelletto e spirto e brio,
dal volgo ignaro son creduta pazza;
ma se innocente sono appresso Dio,
non bado a’ pregiudizi della piazza.
Terigi, i maldicenti e le lor voci
io tengo dove soffiansi le noci. —

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23
     L’Ermellina soggiunse: — Adagio un poco,
cara sorella, non vi riscaldate.
Con questo furor vostro e troppo foco,
credendo farvi onor, vi rovinate.
Gesú, Giuseppe e la Madonna invoco,
e vi farò veder che v’ingannate,
e che il vostro cervello ha un po’ di vizio,
credendo il mondo sempre in pregiudizio.
24
     Sonvi tre leggi, e la divina è prima,
la seconda è del re che ci corregge,
forma il popol la terza in ogni clima;
benché non paia, ella è purtroppo legge.
L’ubbidir la divina e farne stima
fa, dopo morte. Dio iel ciel ci elegge;
chi la seconda offende, non fa bene,
perché ha morte, prigione ed altre pene.
25
     Gli offensor della prima, al pentimento,
trovan misericordia ed han perdono.
Il re pietoso, ed anche oro ed argento,
fa cambiar la seconda nel suo trono.
Se il popol giudicato ha il portamento
di donna, d’uomo, o l’ingegno, non buono,
perdio! s’è santo ed ha cervel divino,
è un ladro, un traditor, un Truffaldino.
26
     Le colpe innanzi a Dio non sono oscure,
il re co’ suoi processi le fa chiare;
il mondo guarda, e fa sue conietture:
dritte o torte che sien, vuol giudicare.
E, verbigrazia, tu non vuoi misure
nel viver, nel parlar, nel praticare;
nel cor potresti anch’esser santa Rosa,
t’ha giudicata il mondo un’altra cosa.

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27
     E se viver pur dèi del mondo in mezzo
con buona fama e con riputazione,
s’ei col giudizio t’ha posta nel lezzo
e sei del mondo in trista opinione,
dell’innocenza attenderai da sezzo
premio nel ciel, ma non fra le persone;
né t’appagar di qualche riverenza
d’adulazione o di concupiscenza.
29
     Molto ben sa la legge nel suo core
la maritata, che le pose il mondo;
la sa la vedovella pel suo onore,
e la fanciulla la conosce a fondo:
ma la foia, il capriccio ed il furore,
la vanitá mena la mazza a tondo;
e maritate, vedove e donzelle
spezzan le leggi e fabbrican novelle.
29
     Un «costume novel» detto è l’abuso.
Gli scrittoracci pieni di lussuria
co’ lor riflessi aiutano il mal uso,
perché godon veder le donne in furia;
e i giovinastri lor dicon sul muso
ch’è sciocco pregiudizio il far penuria.
Ma il mondo in pieno a chi non ha cervello,
credi, Marfisa, dietro fa un libello.
30
     Scommetterei, sorella, che se sposa
t’esibisci al guascon, ch’è tuo piacere,
la tua gioia, il tuo core, la tua rosa,
e che speri che t’ami di sapere;
ei rivolge il discorso ad altra cosa,
facendo il sordo o albanese messere,
che quanto piú vizioso è l’uomo e franco,
men vuol Marfise per ispose al fianco.

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31
     Credi alfin che la donna in suo contegno,
che dello stato suo la legge osserva,
laudata vien dal degno e dall’indegno,
e general riputazion conserva.
Questo sciòr matrimoni a un picciol segno
e del proprio capriccio farsi serva,
il cambiar Filinori a fantasia
e il cagionar duelli, è una pazzia. —
32
     Dall’Ermellina in fuori, la bizzarra
un tal discorso non avria sofferto.
In sulla lingua avea la scimitarra;
pur disse cheta: — Io non credea per certo
che mi veniste innanzi con le carra
di riflession, ch’io dono al vostro merto.
Leggi o non leggi, universale o mondo,
io nulla intendo e nulla mi confondo.
33
     Piú libera di me ne’ portamenti
è la duchessa Fulvia de’ Migliori,
e la reina Isotta fa portenti,
e la marchesa Ilaria co’ signori.
— Allega delle matte piú di venti
in tua difesa, alfin poco t’onori
— disse Ermellina, — ch’anche i disperati
dicon: — Non sarem soli in fra i dannati. —
34
     Orsú, tu dèi lasciar cotesta vita
e devi Filinoro abbandonare.
Pónti in contegno, ed a Terigi unita
voglio vederti e il filo rappiccare.
La giovinezza fugge, e quando è gita,
sai che non suole addietro ritornare.
Ti ridurrai vecchiaccia ricusata,
abborrita, ridicola e muffata. —

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35
     Scrive Turpin che a questa volta sola
pianse Marfisa assai dirottamente.
Abbracciando Ermellina, la parola
non potea sciór pel singhiozzar frequente.
Poi disse alfine: — Amica, la tua scola
non voglio disprezzar, sarò prudente;
ma dell’abbandonare il mio guascone
io non ho cor per tal risoluzione.
36
     Caro colui! Quegli occhi, i capei biondi,
lo spirito elevato, l’eloquenza,
que’ sospir caldi, i sguardi moribondi,
la franchezza, l’affabile presenza,
le erudizion che vaglion mille mondi,
quella non so qual nobile insolenza,
quel sprezzar snello e quella maggioranza
fanno che del cor mio non me n’avanza.
37
     E’ tiene un alfabeto regolato,
co’ nomi e colle nascite a puntino,
d’ogni tenor, di qualunque castrato,
e d’ogni ballerina e ballerino,
e d’ogni cantatrice sa il casato,
l’abilitá, la vita e il vagheggino;
insomma un cavalier d’usanza nuova
piú pulito di lui non si ritrova.
38
     Dio ti dica per me se delle mode
ei s’intende all’eccesso, e del buon gusto
e delle acconciature e delle code,
d’un abito, d’un drappo e d’un imbusto;
se in un teatro sa chi merta lode,
se d’un poeta sa decider giusto.
Di Marco e di Matteo nelle riforme
scopre il bel, vede il buono, è a me conforme.

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39
     Ponlo con un cattolico, è cristiano;
ponlo con un eretico, ei s’adatta;
con un pagano, e’ par nato pagano;
con un giudeo, giudeo sembra di schiatta.
Accorda tutto, è universale e piano,
e veramente sa come si tratta;
coltiva tutti, con ognuno è amabile,
e infine è un uom moderno, inarrivabile.
40
     Io non posso, Ermellina; ti prometto
che sono indiavolata per colui:
non lascerò giammai quel caro oggetto;
mai piú, Ermellina, d’uom si cotta fui.
Se tu provassi il foco e’ ho nel petto
per le bellezze, per i merti sui,
tu piangeresti e mi compatiresti,
e per compassion m’aiuteresti. —
41
     E qui Marfisa al collo d’Ermellina
piangeva e singhiozzava amaramente.
L’altra avea la corata tenerina,
e sapea ben che Amore era possente;
donde, commossa, scorda la dottrina,
comincia a lagrimar dirottamente,
e quando il singhiozzar le permettea:
— Convien lasciar... convien lasciar... — dicea.
42
     Marfisa sempre va crescendo il pianto,
dicendo: — Io non lo posso, che son morta. —
Intenerisce l’altra, che altrettanto
apre a un ruscel di lagrirne la porta.
Ma finalmente disse: — Vedo quanto
sei spolpata d’amore; ti conforta.
Io scopro che a guarirti le parole
son vane e che un miracolo ci vuole.
e. Gozzi, La MarJUa btMMarra. 13

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43
     E però del caffé, del cioccolate
io vo’ mandare a certe donne sante,
acciò con le preghiere infervorate
ti facciano scordar cotesto amante;
ed io per tre domeniche ordinate
farò la comunion santificante.
Tu alla sacra famiglia fa’ orazione,
e t’uscirá dal cor questo guascone. —
44
     Marfisa alle sue massime rispose
pazzi detti del secolo d’allora,
che gli Ottimismi e l’altre opre famose
le avean mandato il cerebro in malora.
L’altra le mani agli orecchi si pose
fuggendo, e credo ch’ella fugga ancora,
maledicendo l’ozio, gli scrittori,
il costume novello e i Filinori.
45
     Quel di Guascogna intanto al torrione
di lá da Senna ogni di passeggiava:
con lungo spaventevole spadone,
per far duello, il marchese aspettava.
Il marchese alla corte di Carlone,
a veder se l’incarco rinunzia va,
manda ogni giorno; e pur lo trova saldo,
e lascia che passeggi nel suo caldo.
46
     Poi di soperchiator gli dá la taccia
e lo predica vile e prepotente.
I paladini con scoperta faccia
condannan Filinoro apertamente.
A poco a poco fuggon la sua traccia;
dove son, non lo vogliono per niente;
come un codardo, un messo, un contadino,
non l’accettano piú nel lor casino.

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47
     Per sua maggior sventura il conte Gano,
suo direttore, a novant’anni giunto,
per il catarro è a letto, dalla mano
del medico sfidato, al duro punto,
né se gli può parlar, perché il piovano,
che con l’estrema unzion giá l’aveva unto
e gli accomanda l’anima, dicea
che andarlo a disturbar non si potea.
48
     Berta piangente e mezza in sfinimento
dicea che certo ella gli andava dietro,
che si sentia nel cor presentimento,
che non potea soffrire il caso tetro;
e poi chiede al piovan se testamento
faceva il conte Gano, e di qual metro,
soggiungendo: — Kovano, io sono certa
che gli ricorderete la sua Berta. —
49
     Il piovan rispondea: — State pur cheta,
ch’egli ha disposto con somma prudenza.
Un’anima di Dio, né piú discreta,
non ho trovata in altra mia assistenza.
Gran confession da dottor, da profeta!
gran sottile, illibata coscienza!
Ma giá sapete in quanta divozione
faceva ogni otto di la comunione. —
50
     Gano il suo testamento avea rogato,
e istituita una mansioneria
perpetua nel piovan che aveva a lato,
e in quello che in prò tempore faria.
Per ogni messa ordinava un ducato;
e inoltre un funeral commesso avia
di quarantotto torcie di gran peso,
incerto pel piovan di zelo acceso.

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51
     Trecento preti aveva anche ordinati,
e a ciaschedun di tre libbre un torchietto,
duemila sacrifizi celebrali
lo stesso di ch’entrava in cataletto.
Infiniti legati a preti, a ft-ati.
Della disposizione il resto ometto,
che basta il dir del testamento quanto
vi fa veder che Gano è morto santo.
52
     Il Maganzese mille tradimenti
aveva fatti e usate sodomie,
mandate in chiasso e in preda a’ malviventi
le stuprate donzelle e per le vie,
ed infamati avea mille innocenti,
e fatti usurpi e truffe e ruberie,
né verbo si leggea nel testamento
di rifar danni o di risarcimento.
53
     Lo volle morto Dio di novant’anni
sul letto ed affogato dal catarro;
ed i sacri leviti in grand ’affanni
la santitá di lui misero in carro.
Dch, lettor mio, non creder ch’io t’inganni;
Turpin lo scrisse, io quel ch’ei scrive narro:
che al seppellir di Gano un cieco nato
guari, perché il suo corpo avea toccato.
54
     Sappiam che Dio per sua misericordia
talora a’ tristi lunga etá concede,
perché con lui si mettano in concordia
un giorno o l’altro, e questo abbiam per fede.
Ma lo star con Gesú sempre in discordia,
testando alfin come di Gan si vede,
prete Turpin può ben scriver miracoli,
non porrei Gano mai su’ tabernacoli.

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55
     Morto Gano, il guascon divenne come
un uom storpiato a cui la gruccia è tolta.
Ognuno a modo suo gli cambia nome,
e in ridicci lo mette e non l’ascolta.
Un fulmine gli venne in sulle chiome,
ch’ogni fortuna sua gli ebbe sepolta,
perché una legge nuova è fuori uscita,
che i duelli bandia, pena la vita.
56
     Contro la legge egli era sfidatore:
fu rilasciato l’ordin di pigliarlo.
S’avvide il furbo, e di Parigi fuore
fuggi né si potè piú ritrovarlo;
e fu bandito come traditore,
con taglia a chi potesse ghermigliarlo.
Marfísa, come il bando udi gridare,
voleva alla cittá foco appiccare.
57
     Se mai le lingue a screditar la dama
s’erano per lo innanzi affaticate,
in cento doppi al bando ognun l’infama,
narra le storie vere ^ le sognate.
L’infelice Rugger per la sua fama
don Guottibuossi chiama a sé, l’abate.
Il prete ha stabilito poco innante
una risoluzion con Bradamante.
58
     E disse: — Per tór via peggior vergogna,
che potria far Marfisa al nome vostro
(ch’io so ch’ella è disposta e ch’ella agogna
fuggir di notte dietro al suo bel mostro),
far istanza a Turpino vi bisogna
che a ficcarla v’aiuti in qualche chiostro.
Dalla man vescovile ivi serrata,
crepi di rabbia, giovane o invecchiata. —

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59
     Piacque il consiglio al buon Ruggero, e tosto
andossi all’arcivescovo Turpino.
E le preghiere e il desiderio esposto,
Turpin rispose: — Caro paladino,
io veggo a gran cimento tu m’hai posto:
conosco di Marfisa il cervellino,
e temo esporre a troppo grave rischio
le monachette con quel bavilischio. —
60
     Era Turpino un vecchierel scarnato,
con naso grande, adunco e pavonazzo,
ciglia avea grosse e collo sperticato,
come un Scipio African d’un tristo arazzo.
Piccoli ha gli occhi, il mento in su voltato:
nel ragionar faceva un gran rombazzo,
che voce grossa aveva, ed i polmoni
robusti ancora a spinger paroloni.
61
     Non avea grande acume, tuttavia
era un gran parlatore, era zelante.
Avea di scriver sempre fantasia,
ed ha gran fogli e calamai davante.
Con poca lingua e poca ortografia
scrivea la storia di Carlo regnante,
la qual fu poscia per tant’anni tema
a’ gran poeti, or è del mio poema.
62
     Seguendo con Ruggero il suo discorso,
con voce grossa e da gran zelo acceso,
disse: — Rugger, tu mi chiedi un soccorso,
che infinite persone hanno preteso;
né so come il costume sia trascorso
ad una corruzion di tanto peso.
Omai fratel né padre di famiglia
alla suora comanda od alla figlia.

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63
     Infin che in fresca etá ne’ monasteri
si mettan le figliuole o le sorelle,
a questo condiscendo volentieri,
so che l’han care anche le monacelle.
Ma che voi, conti, duchi e cavalieri,
disperati per mille taccherelle,
vogliate ch’io le chiuda di trent’anni,
perdio! convien per forza ch’io m’affanni.
64
     tristo esempio certo o poca testa
inauditi disordini cagiona.
Un figUuol giuoca, quell’altro s’impesta,
l’altro prostituisce sua persona:
de’ padri un si percuote, un si tempesta,
né in casa posson far correzion buona;
ma sturban contro a’ figli dissoluti
la maestá del re, perché gli aiuti.
65
     Per le fanciulle matte ogni momento
si chiede asilo a’ vescovi nel chiostro.
Dove avete il cervello e il pensamento,
che non possiate comandar sul vostro?
Ma la vera ragion, per quel ch’io sento,
della rivoluzion del secol nostro,
è il costume novel, l’ozio, gli amori,
e la vita epicuria e gli scrittori.
66
     1 capi di famiglia e i padri omai
non possono por freno a* figli loro,
perché difetti han sulle chiappe assai,
e divenuto è vii castrone il toro.
Chi ha la coscienza lorda, guai!
poco poi vale a fare il Boccadoro
sopra le mogli e sopra le figliuole.
Ognun si ride, e poi fa ciò che vuole.

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67
     E passa il vizio per ereditade
di madre in figlia e di padre in figliuolo.
Invero io veggio cose per le strade,
ch’io tiro salti come un cavriolo,
perché a’ miei giorni erano cose rade,
ne’ piú rimoti nascondigli solo;
e vorrei divenire e cieco e sordo,
quando i nostri bei tempi mi ricordo.
68
     Ben sai, Rugger, che storico son io
de’ fatti del re Carlo e de’ campioni.
Quand’io confi^onto í fatti vecchi e il mio
scriver novel, mi triemano gli arnioni.
L’imbroglio nel qual sono, lo sa Dio,
nel porre a libro le novelle azioni.
Il lusso, l’ozio ed il costume tristo
forman casi ridicoli, per Cristo!
69
     Son ridotto a notar: «Nel tal millesimo
le donne si tagliar corti i capelli.
Del tal la moda non volle il medesimo;
lunghetti e pengiglianti volle quelli.
Nel tal fatti in cignone sul battesimo.
Nel tale co’ bone, poi co’ cappelli;
e i merli si cambiar© in «milionetti»,
e furo a mostra i tettaiuol de’ petti.
70
     Re Carlo fece una festa da ballo;
il duca Astolfo ebbe il piú bel vestito;
il miglior danzatore senza fallo
fu il marchese Olivieri a quell’invito.
Del tal anno correva il color giallo,
e del tale il cilestro fu gradito.
Il guernire a gallon divenne gramo:
fu moda lo scarlatto col ricamo.

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71
     Sessantadue paladini il tal anno
abbandonar delle servite il fianco;
parte per gelosia, chi per inganno,
e chi perché il borsel gli venne manco.
Mille famiglie l’altro ebbero il danno,
pel lusso e pel puntare e pel far banco,
pel far de’ scrocci e prendere ad usura,
di fallire e ridursi alla verdura».
72
     Piú oltre non vo’ dir della materia,
ch’oggi forma la storia del re nostro;
dico sol ch’è ridotta una miseria,
ch’io mi vergogno a consumar l’inchiostro.
Ma sopra tutto la faccenda seria,
cambiati paladini, è il fatto vostro,
e che in casa pel figlio e per la figlia
e per la suora non abbiate briglia. —
73
     Era Turpino rigonfiato e avria
quattr’ore ancora seguitato a dire.
Era stanco Rugger e disse: — Via,
o tu mi vuoi o non vuoi favorire.
Non so come ti venga bizzarria
di rimprocciare il nostro poco ardire,
l’obbligo che conviene e che ci tocca.
Ricuciti una spanna della bocca.
74
     Che non raffreni tu molti pretacci,
che son sotto la tua giurisdizione,
sfrenati, puttanier, peccatoracci,
che insidian le moglier delle persone,
zerbini, ignoranton? che non gli spacci
con la censura e con la sospensione?
Che Gesú Cristo è omai gfiunto alle mani
di peggior genti degli ebrei marrani. —

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75
     Se Turpino avea naso pavonazzo,
a questa volta se gli fece nero.
Comincia i piedi a batter sullo spazzo,
e a gridar forte: — Oh, corpo di san Piero!
Oh! io fo bene assai, se non impazzo
per le parole che tu di’, Ruggero.
Che non fec’io per porre j preti a freno
con duemila decreti o poco meno?
76
     Minacce, sospension, che vaglion mai
in questo nostro secolo meschino?
Don Berto dice: — Grida, se tu sai,
ch’io sto in casa d’Astolfo paladino. —
Don Martin dice: — Io bado bene assai;
son mignon di Baiona d’Angelino. —
L’altro di Berlinghieri è creatura,
e delle correzion non ha paura.
77
     Gli sospendo a divinis o la messa:
dicon che loro era cosa molesta;
o spinto dal furor d’una contessa,
vien qualche duca a rompermi la testa;
e venti e trenta e cento ed una pressa,
mi strapazzano alfin con gran tempesta:
convien che il prete la sua messa dica,
s’io non vo’ morir martire all’antica.
78
     E tu sai ben, Rugger, che in casa tieni
don Guottibuossi, prete alla moderna;
e vita contro me vuoi pur che meni,
che serva dama e vada alla taverna;
né ti vergogni e improverar mi vieni!
Or ti castiga la bontá suprema. —
Volea piú dir Turpin, ma quel di Risa
replica che l’aiuti per Marfisa.

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79
     E finalmente Turpin di buon core
l’ordine diede che Marfisa fosse
accettata in convento a certe suore,
e per farlo eseguir Rugger si mosse.
Sapea ben ch’eseguito con amore
non sana, donde un gelo avea per l’osse.
Come in questo la dama fosse còlta,
ho stabilito dirlo un’altra volta.



fine del canto ottavo