La Loggia di Or' San Michele

Cläre Schubert-Feder

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Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891)
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LA LOGGIA DI OR’ SAN MICHELE




I cronisti e tutti gli altri scrittori, che ci ragguagliano dei tempi antichi e delle condizioni dell’antica Firenze, ci dicono che laddove oggi vediamo l’edifizio d’Or’ San Michele, esisteva da molti secoli una chiesa dedicata a San Michele che era patronato dei monaci della Badia di Nonantola. Il Richa1, nelle sue Notizie Istoriche cita un testamento dell’Archivio di Badia, secondo il quale la detta chiesa era già nel 1100 parrocchiale. Questo testamento, che forse al tempo del padre Richa si trovava in quell’Archivio, oggi non si trova nell’Archivio di Stato di Firenze fra le carte pervenute da quel monastero. Comunque sia, quella chiesa veramente esisteva, perchè in una Bolla di Papa Onorio III del 12242 viene annoverata fra quelle dipendenti dal detto monastero, e ciò per la prima volta con la indiscutibile qualificazione di Sancti Michaelis in Orto. Questa chiesa fu demolita probabilmente per cagione del suo gran deperimento, quantunque non se ne abbiano che indirette testimonianze. Ma che questo avvenisse, lo sappiamo dagli atti preliminari di un processo, che nel 1300 i monaci di Nonantola movevano contro il Comune di Firenze. In una [p. 68 modifica]lettera che il cardinale Matteo Orsini, vescovo di Porto e di Santa Ruffina scrisse in quell’anno al Vicario del vescovo di Firenze, si legge: «.... Quod cum Monnasterium Nonantule haheret Florentie Ecclesiam S. Michhaelis positam juxta palatium Communis Civitatis ejusdem, Commune ipsum eandem Ecclesiam funditus destruxit, reducens solum ipsius Ecclesie ac domos circa ipsam positas, in plateam»3. Dunque ne fecero una piazza. Ma come? la chiesa era stata posta in un orto, secondo che chiaramente lo dice il suo nome, così il terreno non mancava; riesce perciò un po’ difficile prestar fede assoluta al seguente rapporto del padre Richa: «Avendo la Sig.ria bisogno di una piazza per la vendita del grano e di stanzoni per conservarlo, e considerato questo luogo molto opportuno, ne fece spianare la chiesa, ordinando di darsi principio ad una loggia ec .... Ma perchè non si perdesse la memoria di chiesa così antica, debbo qui notare, come nello stesso tempo volle la Repubblica che Arnolfo ne fabbricasse un’altra rimpetto alla nuova loggia ...... che è in oggi S. Carlo»4. Il buon padre Richa però sbaglia, riferendo che la Repubblica ne fece rifare un’altra nello stesso tempo, perchè si sa, che soltanto verso la metà del secolo XIV il Comune pensò di edificarla. Ma se fu spianata per bisogno di una piazza di mercato e se proprio sul medesimo posto si fece il mercato e vi si fabbricò la loggia, sembrerebbe più naturale che l’attuale chiesetta di S. Carlo occupasse l’area dell’antica e la loggia si fabbricasse semplicemente nell’orto attenente. Queste sono quistioni, che si possono fare, ma è difficile di risolverle, mancando i documenti. Fatto sta, che nel 1284 era già costruita la prima loggia; raccontando Simone della Tosa, che «In quel tempo la loggia d’Orto San Michele, ove si vende il grano, mattonossi e lastricossi e fu tenuto nobile lavoro a quel tempo»5. Ma niente di più. - Dove [p. 69 modifica]attinse Giorgio Vasari la curiosa notizia, che leggiamo nel primo volume delle sue Vite? dicendo «Perciocchè Arnolfo era tenuto il miglior architetto di Toscana, e fecero secondo il disegno di lui, di mattoni e con un semplice tetto di sopra la loggia ed i pilastri d’Or San Michele»6. Ci voleva dunque proprio il miglior architetto della Toscana per fare una semplice loggia murata di mattoni e coperta di una tettoja di legno! Giacche nessuno dei cronisti più vicino ai tempi di Arnolfo, di quel che non fosse il Vasari, ce lo conferma, noi ne dubitiamo seriamente, credendo, che ad Arnolfo toccasse, come ad altri valenti artisti di quei tempi, la sorte degli eroi preistorici, il cui capo è cinto di allori propri e d’altrui.

Quantunque io non abbia potuto trovare una descrizione precisa di questa loggia, non si può sbagliare supponendola formata da pilastri, che reggevano degli archi su cui poggiava un tetto sporgente di legno, la cosiddetta tettoja, sostenuta al di fuori da mensoloni più o meno artisticamente scolpiti. Guardando il tetto della loggia del Bigallo, possiamo farcene un’idea. Uno dei pilastri mostrava l’immagine della Vergine, messa quivi come emblema della fede cattolica, ma senza dubbio anche come remora contro le male arti, le frodi, le bestemmie del popolo mercante. Ma il fatto, come ce lo dice il Biadajuolo (manoscritto di un valore unico, nella Laurenziana, riccamente ornato di miniature), che ivi una bella volta nacque un tumulto popolare, il quale non potè essere sedato se non per i Berrovieri del Podestà e perfino pel carnefice del Comune; ci dimostra ad evidenza, che il popolo non sentiva sempre la benevola influenza della santa immagine. Immagine dico; ma potrei anche dir figura, perchè proprio così dicono e il cronista Giov. Villani ed i Capitoli della Compagnia d’Or San Michele, di cui tratteremo più innanzi. Qui conviene [p. 70 modifica]notare fra parentesi, che è sempre viva la discussione, se quell’immagine fosse o no dipinta sulla tavola o sul muro, e, dato che fosse in tavola, se essa si debba riconoscere nel quadro del Tabernacolo marmoreo dell’Orcagna dentro l’attuale Oratorio d’Or’ San Michele, che sei secoli fa, fu creduto miracoloso. Il Villani ci dice: «Nel 1292 a dì 3 del mese di Luglio si cominciarono a mostrare grandi e aperti miracoli nella città di Firenze per una figura dipinta di Santa Maria in un pilastro della loggia»7 ecc., ed i Capitoli della Compagnia stabilirono una chiara differenza fra «la tavola di messer sancto Michele» e «la figura o anche il pilastro della nostra Donna»8. Una miniatura nel sopradetto codice del Biadajolo convalida la nostra opinione, che l’immagine della Madonna era di fatti un affresco dipinto sul muro e non una tavola semplicemente appesa a uno dei pilastri. Questa miniatura ci dimostra la Madonna seduta, che tiene nella destra un fiore e colla sinistra regge Gesù Bambino sedutole sopra il ginocchio sinistro, mentre nella tavola, che oggi adorna la chiesa d’Or’ San Michele, la Madonna tiene ritto il bambino con tutte e due le mani. Inoltre nella Miniatura vediamo la Madonna dipinta nel fondo di una nicchia con soprastante arco a sesto acuto a cui sono appese tre lampade. E così ci pare abbastanza chiaro, che si tratti proprio di un affresco e che non sia nemmeno da pensare alla possibilità che la chiesa di Or’ San Michele possegga ancora quell’immagine miracolosa. Vedremo in seguito che, se anche invece di un affresco fosse stata una tavola, nemmeno allora si potrebbe parlare dell’antica pittura.

«Per devozione alla figura, ci riferisce il Villani, ogni sera pei laici si cantavano laude davanti a questa [p. 71 modifica]Madonna»; e di questi laudesi si formò, come veniamo informati dai Capitoli di essa, «la Compagnia de la decta Donna nostra di San Michele in Orto ne li anni del nostro Singnore Gesù Cristo 1291 del mese d’Agosto, il dì del beato messer sancto Lorenzo martire»9. Fondata la Compagnia nel 1291, subito l’anno dopo la Madonna cominciò a far miracoli e ad attirar gente; «crebbe tanto la fama di detti miracoli e meriti di nostra Donna, che di tutta Toscana vi venia la gente in peregrinaggio per le feste di sancta Maria». E con la fama crescevano le entrate della Compagnia, inmodochè già nel 1294, tre anni dopo la fondazione, i suoi mezzi permettevano di impiegare «6 capitani, 3 camarlinghi, 1 notaio, 12 consiglieri, 4 ammonitori, 4 insegnatori di laude, 3 sagrestani, e due che steano a ricevere l’offerta de l’Oratorio de la decta Nostra Donna» - cioè tutt’insieme: 35 persone10. Questo, senza dubbio, non fu il più piccolo dei miracoli, che l’immagine seppe operare!

È ben naturale che, essendo la loggia, come dev’essere per un mercato, da tutte le parti aperta, si prendessero tutte le precauzioni possibili per assicurare il prezioso palladio, e forse interesserà di sentire alcune delle molte prescrizioni compilate nei Capitoli della Compagnia nel 1294 e 1297, i quali nel loro testo sono presso a poco conformi. Ivi leggiamo: «La immagine della Donna si debba tener «coperta con velo o vero con veli sottili e gentili di seta; e fatta la predica sotto la loggia, si debbia scoprire e mostrare le domeniche e le feste, le quali piacerà a’ rectori e capitani, con due torchi accesi. E quando venissono forestieri che la volessono vedere, debbasi scoprire e spazare di licentia del proposto o d’alcuno de’capitani, e poco tener scoperta per volta, e poi ricoprire»11.

L’espressione «spazare» si deve riferire alla pittura stessa e non può dir altro che spolverare, perchè la polvere [p. 72 modifica]del mercato entrava anche ad onta dei veli; non può essere inteso per il terreno immediatamente davanti al pilastro, perchè aderente a questo, proprio sotto l’immagine. La suddetta miniatura ci dimostra un banco, dove si vede una cassetta per le limosine e due candelieri per ricevere le candele offerte. Del resto si teneva coperta anche la tavola di «messer Sancto Mchele» la quale, come risulta dai Capitoli, pure adornava la loggia «salvo ch’el sabato dipo’ nona, disfatto il mercato, la debiano far discoprire per tutto il die de la domenica. E così si faccia per le feste solenne che mercato non si faccia»12. Questo accozzamento di due cose tanto diverse fra di loro, quanto sono un mercato di grano e un oratorio, dove si dicono delle messe e si fanno delle prediche ogni domenica e si cantano «le laude dinanzi a la ymagine de la nostra Donna al pilastro» fa a noi moderni non poca meraviglia; ma i nostri maggiori erano di gran lunga più semplici ed ingenui di noi, e non si scandalizzavano tanto facilmente.

Rispetto all’anno 1292, G. Villani ci fa sapere che «la gente vi venia di tutta Toscana in peregrinaggio, recando diverse immagini di cera per miracoli fatti, onde grande parte della loggia dinanzi e intorno alla detta figura s’empiè»13: e Dino Compagni avvalora questa notizia, dicendo, che nell’Oratorio di nostra Donna sotto la gran loggia vi erano nel 1304 «dimolte immagine di cera»14. Queste immagini erano figure grandi al vero, colle teste e mani di C3ra colorita, con capigliature, vesti, fogge ed ogni altro ornamento all’usanza di quei tempi. Figuriamoci ora, che al pilastro della Madonna, e, mancando quivi man mano il posto, anche agli altri pilastri, si vedevano appese un’infinità di figure d’uomo e di donna, e sotto i campagnuoli mercanteggiavano, chiacchieravano, facendo la cronaca [p. 73 modifica]scandalosa della città, magari bestemmiavano, nella ricca scala, delle saporite bestemmie fiorentine, e che tutto ciò non pregiudicava alla santità del luogo. Il Passerini fa cominciare quest’uso dei voti di cera soltanto nel 1321 e crede che messer Lapo di messer Coppo Mannelli abbia aperto la via a tale costumanza, disponendo nel suo testamento, veduto dal Passerini nella Biblioteca Riccardiana, (ma da noi invano cercatovi) «che si facesse una immagine onorevole in costume femminile, la quale raffigurasse Letta, già sua moglie, e si appendesse in Or’ San Michele»15.

Furono queste imagini di cera sotto la loggia le prime a prendere fuoco nel famoso incendio del 1304, che appiccato dal famigerato Neri Abati, arse, come si disse, più di 1900 magioni, in cui nessun rimedio vi si potette fare16. Cascando dentro la loggia dalla tettoja di legno le travi infuocate, ardendo i numerosi voti intorno al pilastro della Madonna, prendendo fuoco anche i veli, che coprivano la pittura, essa non potè che restarne sensibilmente danneggiata, annerita dal fumo e forse in parte distrutta. Ma si sa, piii le sacre immagini prendono l’aspetto di antichità e meno si distingue in esse ciò che vuol essere rappresentato, e piii cresce la devozione e la fede nel loro magico potere. E così accadde colla Madonna della Loggia, la quale racconciata alla meglio, e rifatta la tettoja in diversi tempi17, servì ai suoi varj usi ancora per molti anni.

«E tanto crebbe la fama della Madonna, e lo stato della Compagnia, ov’erano buona parte della migliore gente di Firenze, che molti beneficii e limosine, per offerere, e lasci fatti, ne seguirono a’ poveri l’anno piii di sei mila libbre; e seguesi a’ dì nostri, sanza acquistare nulla possessione, con troppa maggior entrata, distribuendosi tutto a’poveri». Così [p. 74 modifica]il Villani18. Si spiega perciò in qualche modo quel che del livore dei Francescani, oltre il Villani, ci attesta Guido Cavalcanti in una sua graziosa poesia, fatta prima del 1300, che dice:

«Una figura della Donna mia
S’adora, Guido, a San Michele in Orto,
Che di bella sembianza onesta e pia,
De’ peccatori è refugio e conforto;
E quale a lei divoto s’umilia
Chi più languisce, più n’ha di conforto;
Gli infermi sana, i Demon caccia via,
E gli occhi orbati fa vedere scorto:
Sana in pubblico loco gran languori:
Con reverenza la gente l’inchina:
Due luminara l’adornan di fuori;
La voce va per lontane cammina:
Ma dicon che’ è idolatra i Fra’ Minori,
Per invidia, che non è lor vicina»19.

Anche nel 1333 quest’immagine, di cui fu detto essere autore Ugolino da Siena, ma non si può provare, fu tenuta in grandissimo pregio, dal popolo e dai signori della compagnia. «A pie del pilastro della Donna nostra (ordinano i Capitoli del suddetto anno), steano sempre due casse, serrate con due serrami.... a ricevere l’offerta» (cap. XX); e quando (alcuno di coloro che stanno dentro all’oratorio a ricevere l’offerta) vi entra o escie, debbia serrare l’uscio colla chiave, sì che continuamente stea serrato» (cap. X) e sono ordinate delle «guardie de la nocte... per guardare sotto la loggia la bottega e le cose de la Compagnia» (cap. XII).

Nel 1333 dunque tutto sembra procedere in benissimo ordine: l’immagine della Madonna è venerata più che mai: quando ad un tratto, appena tre anni dopo, cioè nel 1336, la Repubblica fiorentina manda fuori un decreto, in cui si [p. 75 modifica]discute l’urgente necessità di edificare una nuova loggia «perchè l’attuale è più un vituperio che un onore per la città, e perchè per difetto del luogo dove il grano si ripone, spesso sono provenuti gravi danni al Comune; e affinchè l’adorazione della gloriosa Vergine si possa più convenientemente celebrare e il grano e le biade meglio conservare, si fabbrichi un palazzo, che valga per abbellimento ed ornamento della città»20. Nel medesimo decreto si dà ordine, che il provento delle gabelle delle bigonce prestate, e della farina pesata e della spazzatura che si raccoglie sotto la loggia e in piazza, e del grano e delle biade avanzati nel mercato, sia a profitto dell’edifizio nuovo. - E che cosa sarà dell’ oratorio, cioè del pilastro della Madonna, della miracolosa immagine? O, non temono i padri del Comune il giudizio di Dio e lo spirito di vendetta della plebe, offesa nel suo più intimo e sacro sentimento? Avrebbero forse il coraggio di far buttar giìi e annichilire addirittura ciò che il popolo fiorentino fino allora aveva considerato come il suo più grande tesoro? Tra gli spogli del Del Migliore, tratti dal Diario di Ser Recco di Domenico Spinelli, si trova la notizia: «1337 si cominciò a fondare i pilastri della loggia (cioè della nuova loggia) di Or’San Michele, tutti di pietre concie, et ordinarono, che di sopra fosse un magnifico Palazzo per tener il grano e biade del Comune»21. Ora, si sa, che Recco Spinelli nacque nel 1396, e quindi non era contemporaneo al fatto riportato. E vero, che il Vasari, nelle sue Vite, ci notifica che la nuova loggia fu fatta senza alterar il disegno della prima22. Egli era anche più lontano dal 1300 che lo Spinelli, ed è altrettanto vero, che connesse con questa novità ce ne spaccia due altre, provate non vere, di cui tratteremo dopo - ma la relazione del disegno non alterato torna acconcia al nostro [p. 76 modifica]buon senso, che l’avrebbe supposto così, se anche il Vasari non l’avesse affermato.

Prendere il buon senso come guida nei sentieri intralciati del labirinto delle ricerche storiche, specialmente se queste si occupano di tempi molto remoti, offre una qualche garanzia di sbagliare meno. Ora mi domando: la questione economica, che il governo dei nostri giorni esamina in ogni occasione di spese pubbliche con così mirabile scrupolosità, non avrebbe avuta abbastanza peso nel 1300, da indurre la Signoria di Firenze a risparmiare e tempo e quattrini, valendosi dei fondamenti già esistenti, dei pilastri già eretti? Tecnicamente sarebbe stato possibilissimo, come mi assicura uno dei più noti architetti di questa città, che i fondamenti, insieme coi primi pilastri, fossero lasciati intatti, ampliando i fondamenti quanto si richiedeva pel voluto spessore dei nuovi pilastri. E sarebbe bella, se potendo levare le pietre concie, di cui vediamo oggi composti i pilastri d’Or San Michele, ci ritrovassimo i primitivi pilastri, che ne formarono il fondamento. Si sono fatte nell’andar dei tempi parecchie scoperte, credute al principio meno possibili di questa da me accennata. Certissima però è per me l’altra opinione, che il Pilastro della Madonna, il cosiddetto Oratorio, sia stato al tempo della ricostruzione della loggia rispettato, e che soltanto, dopo che nella virtù miracolosa dell’immagine non si credette più, e la sacra pittura, per così dire, era caduta in oblio, anche questo pilastro venisse rivestito di nuove pietre.

La sorveglianza del nuovo palazzo fu dai Priori commessa ai Consoli dell’arte di Por’ Santa Maria, ovvero dell’Arte della seta, e in una petizione fatta da loro ai suddetti Priori ed al Gonfaloniere, essi espongono chiaramente il progetto dell’edifizio; parlano dei dieci pilastri esterni, che in parte in quell’anno erano finiti, della scaletta, che tolse secondo loro al relativo pilastro angolare la seconda faccia (che però in seguito si fece e perfino con una nicchia, quantunque poco profonda, in cui sino dalle feste del 1887 fu rimessa la statua di San Giorgio del Donatello, perchè [p. 77 modifica]appunto per questa nicchia fu ideata); parlano dei 13 tabernacoli, sottintese le rispettive nicchie da farsi dalle 12 arti maggiori, come pure della figura di bronzo o di marmo di pittura del loro Patrono e a loro spese: dicono, che ognuna si scelga quella faccia che piii le piacesse: ordinano che ogni anno al giorno del rispettivo Santo i consoli dell’ arte cogli artefici facciano offerta e che quella sia della Compagnia per essere distribuita ai poveri di Dio23. Ma strano! non si sente dir nulla dell’architetto o di chi fece il disegno della nuova costruzione. Ecco il Vasari, che ci viene in ajuto: «Taddeo Gaddi seguitò per lo Comune l’Opera d’Orsanmichele»24; ed il Del Migliore afferma dall’altro canto nella sua Firenze Illustrata, che «ne fu architetto Andrea Orgagna»25. Quant’a quest’ultimo, è certo che si intendeva di architettura, come tutti gli artefici del 1300: Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentari lo chiama dottissimo architetto, ma con tutto ciò non annovera nemmeno una sola opera di architettura dell’Orgagna compiuta, e non si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione tanto propizia per confortare la sua asserzione, come sarebbe stata l’invenzione del disegno per la loggia di Or San Michele. Rispetto poi a Taddeo Gaddi, Gaetano Milanesi, ultimo editore delle Vite del Vasari, nel Commentario alla Vita del detto artista, ha con maestria e convincente chiarezza provato, che Taddeo in nessun modo poteva essere l’architetto della seconda loggia, anzi tutto per la semplice ragione, che nessun documento e nessuna memoria contemporanea lo comprova nemmeno architetto; e perchè non si trova matricolato all’arte dei Maestri, dei quali il Comune soleva servirsi per i suoi lavori. Capomaestro del Duomo fu in quei tempi Francesco Talenti: e forse un giorno riuscirà [p. 78 modifica]di trovar delle prove per la plausibile supposizione che a lui si deve la pianta di questo giojello della città.

Della Madonna e dei suoi miracoli non ho più trovato ulteriori notizie particolareggiate, ma avrà seguitato, almeno per un certo numero d’anni, a godere la medesima fama fra i divoti, al pari della Compagnia d’Or San Michele, la quale era sempre tenuta in grandissima riputazione, aumentando di continuo e meravigliosamente le sue ricchezze. Il suo stato primitivo però di disinteressata amministrazione dei beni ad essa assegnati, che è compreso nelle parole del Villani: «sanza acquistare nulla possessione, distribuendosi «tutto a’ poveri»26, non fu di lunga durata. Digià nel 1305, come ci informa il prof. Del Lungo nel suo pregevole lavoro Dino Compagni e la sua Cronica, i Capitani di quella Confraternità chiedevano ed ottenevano dal Comune facoltà di restaurare e fabbricare a loro uso casa e bottega dei casolari de’ Galigai presso la piazza d’Or’ San Michele, disfatti per sentenza di legge27. Nel 1307 poi i loro acquisti sembrano già considerevolmente cresciuti, perchè posseggono case perfino nel popolo di Santa Maria Novella. In un libro d’Entrata e Uscita d’Orto San Michele si trova: «A monna Lapa, vocola (cioè cieca) oste (cioè pigionale) di Giotto dipintore, in sulle fossi dalla Porta dell’Alloro»28. Giotto dunque, stando a Firenze, possedeva una casa appartenente alla Compagnia. Negli anni 1329 e 1339 due provvisioni della Repubblica ci dimostrano, a quale importanza la Compagnia era giunta e quanto fu aiutata dal Comune: nella prima veniamo a sapere che in caso di omicidio un terzo dei beni dell’ucciso si assegnava ai Capitani d’Or San Michele per essere distribuito ai poveri; nella seconda provvisione si [p. 79 modifica]rende quasi impossibile intentar lite colla Compagnia, tante erano in favore di essa le disposizioni della legge29. Finalmente nel 1347 ottennero di poter far decidere le loro cause da un arbitro, e con ciò erano giunti al culmine del loro prospero stato e potere.

Siamo nel 1348, in cui la peste, un’altro flagello di Dio, come anche vien chiamata dai cronisti, «ebbe infetta tutta Italia, salvo che la città di Milano e alcuni altri tratti di paese in quei dintorni e tra gli uomini d’ogni condizione, di catuna età e sesso, (riferisce Matteo Villani) e morivano chi di sabito, chi in due o in tre dì e alquanti sostenevano più al morire. E morì a Firenze de’ cinque i tre e più. E avenne mirabile cosa: che venendo a morte gli uomini, per la fede che i cittadini di Firenze avevano all’ordine e all’esperienza che veduta era dalla chiara e buona e ordinata limosina, che s’era fatta lungo tempo e facea per li capitani de la compagnia di Madonna santa Maria d’Orto san Michele, senza alcuno umano procaccio; si trovò per testamenti fatti, che i cittadini di Firenze lasciarono a stribuire a’ poveri per li capitani più di trecento cinquanta migliaia di fiorini d’oro. Per questa cagione, restata la mortalità a Firenze, si trovò improvviso quella compagnia in sì grande tesoro. E i mendichi erano quasi tutti morti, e ogni femminella era piena e abbondevole delle cose, sicché non cercavano limosina. E non essendo poveri bisognosi, facevano le limosine grandi, ciascuno capitano ove più gli piaceva, poco a grado a Dio e alla sua Madre. E per le dette cagioni la fede di quella compagnia tra’ cittadini e contadini cominciò molto a mancare» 30.

Questa semplice relazione, che porta così manifestamente l’impronta della veracità, di un autore contemporaneo, ci pare che contenga quella gran lezione, che Goethe maestrevolmente espresse colle parole: Sehe Jeder wie er ’s treibe, [p. 80 modifica]und wer steht, dass or nicht falle» (badi ognuno come opera, e chi sta in piedi, di non cadere!). Riapriamo per un momento il libro dei Capitoli della Compagnia del 1294 e leggiamo che cosa quivi si dice e si richiede dai Capitani: «Ordiniamo che la decta Compagnia abbia sempre 6 capitani buoni e honesti e di buona conversatione (cioè vita) electi e chiamati con puritade di conscientia, che siano tenuti e debbiano eleggere li altri Officiali de la decta Compagnia, e l’officio de’ capitani sia et essere debbia di mantenere et d’accrescere l’onore et la reverenza de la Vergine Maria nel detto luogho et Oratorio d’accendere la devozione de le genti a laude et reverenzia de la nostra Donna, et all’utilitade de’ poveri»31. - Questi uomini, «buoni e honesti» erano divenuti ricchi signori che menavano bella vita. Avendo diritto e dovere di eleggere dopo la durata di quattro mesi del loro ufficio, i rispettivi successori, invece di far la scelta fra i concittadini «con puritade di conscientia», praticavano una specie di simonia, un traffico dei loro uffici. E allora fede e riputazione cominciò a scemare. Da quell’anno in poi si ha da fare la storia della progressiva decadenza morale di quella una volta tanto esimia congregazione. Due volte, nel 1415 e nel 1591, si tentarono delle riforme della Società32; le leggi dell’ultima furono in vigore fino alla soppressione della Compagnia, cioè fino al 1752.

E la Madonna? Il Comm. Milanesi, sfogliando un giorno nell’Archivio di Stato le carte di un certo libro proveniente dalla Compagnia d’Or’ San Michele, si imbattè in un passo del tutto nuovo, che dice, sotto il dì di primo Maggio 1346: «A Bernardo Daddi, dipintore, che dipinge la tavola di nostra donna, in prestanza per la detta pittura: fiorini 4 d’oro». E poi in un altro libro della medesima provenienza: «A Bernardo di Daddo, dipintore, per parte di pagamento [p. 81 modifica]de la dipintura della tavola nuova di nostra Donna, fiorini 4 d’oro33». La connessione è assai chiara: L’antica, e senza dubbio molto guasta immagine, era caduta in oblio. La compagnia era ricchissima, perchè la sola somma di 350mila fiorini d’oro, che riporta il Villani come entrata nell’anno della pestilenza, può dirsi equivalente ad almeno un milione di lire, relativamente al moderno valore del denaro. Per quanto facessero abuso delle loro dovizie, pure debbono aver sentito una specie d’obbligo d’impiegarle anche in qualche modo a decoro del luogo, affidato alle loro cure: e finito il nuovo quadro della Madonna, si pensò di costruire un tabernacolo, degno di racchiudere e incorniciare quel giojello di pittura. Valga questo breve cenno intorno alle bellezze di quell’insigne opera, come invito per coloro, che non l’hanno ancora osservata. Fu dato alle indefesse indagini dell’erudito Milanesi di salvar nome e fama a Bernardo Daddi, autore di questa pittura, il quale fino a quel giorno fu quasi del tutto ignoto; ma una volta dissepolto, sarà degnamente innalzato al posto che per sempre gli spetterà nella storia dell’Arte. Sarebbe difficile rendere giustizia con semplici parole alla delicata e leggiadra bellezza espressa nel capo leggermente inchinato e in tutto l’atteggiamento della cara figura della Madonna, che con tanta naturalezza sostiene il suo pargolo. Non vi è nemmeno una traccia del rigido bizantinismo. Tal lavoro non si poteva esporre ai pericoli di un mercato senza bene assicurarlo: risolvettero perciò, così narra il Vasari di fargli intorno «una cappella ovvero tabernacolo, non solo di marmi in tutti i modi intagliati e d’altre pietre di pregio ornatissimo e ricco, ma di musaico ancora e d’ornamento di bronzo quanto più desiderare si potesse34». E l’Orgagna, incaricato di così onorevole commissione, creò l’incomparabile tabernacolo, o [p. 82 modifica]almeno i tanti bassorilievi, che ne formano la parte principale, compiuti nel 1359.

Ma se i Capitani della Compagnia sentivano a ragione la necessità di provvedere alla conservazione del quadro, non vi era minor ragione di provvedere alla conservazione del tabernacolo, che lo racchiudeva. Si può quindi credere che quando i Capitani ordinarono la nuova pittura della Madonna, già fosse nato in loro il pensiero di por fine alla calca e al tumulto del mercato, riducendo la loggia a unico uso di chiesa. Questo pensiero ebbe effetto però nel 1349, nel quale anno fecero fare l’altare di Sant’Anna35, monumento ad un tempo religioso e di significato patriottico, perchè nel giorno di questa Santa, il 26 Luglio del 1343 avvenne la cacciata dell’odiato duca d’Atene.

Oltre le due cappelle si vedevano tutt’ora, anzi si continuavano ad appendere i famosi voti di cera, dei quali poi, nel XV, quando Sant’Antonino scrisse la sua Storia, il luogo era ripieno in modo, che in quei tempi si soleva domandare, per indicare una moltitudine di cose: «Sarebbero elleno mai tante, quanti i Boti di San Michele?36» E per di più, sulle faccie dei pilastri interni si erano dipinte delle immagini di Santi. Intorno a queste esiste una poesia sommamente originale di Franco Sacchetti, che egli fece per la cosiddetta compagnia dei Bianchi verso la fine del secolo XIV e che ci serba una descrizione minuta degli argomenti di quelle pitture. Non posso a meno di darne un saggio. Il Sacchetti dunque comincia questo Capitolo sopra il Tabernacolo di San Michele così:

«Come pensoso in su un prato standomi
E nelle bianche procession specchiandomi
Corapuosi e scrissi in grosso stil poetico:
Fu picciol’ora questo mio dir metrico.

[p. 83 modifica]Poi segue una invocazione alla Madonna:

Ajutami ancora per quello ostacolo
C ò fatto tredici anni al Tabernacolo,
Che passa di bellezza, s’io ben recolo,
Tutti gli altri che son dentro al secolo.
Con grandissima fede ogni tua storia
S’è fatta là per dimostrar la gloria,
Lì miracoli tuoi disporre e pingere
D’intorno a Te: chi vuol ne puote attingere:
. . . . . . . . . . . . . . . .
Dietro a Santa Anna fu pinto il misterio
Della Passion, come a tutti è plenerio.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Molti ad orare in quel loco concorrono,
E là con divozion la mente pognono.
De’ santi ancora i più notabili
Vi son d’intorno, degni e venerabili;
E nella volta di sopra stellifera,
Atorniata con stormenti e citerà,
Son pinti li tuo’ Angeli che suonano;
E ne’ pilastri ancora che t’adorano,
Li due Giovanni e Giovacchin riseggono
Nella volta con Dio, come si veggono.
Intorno a l’altra è l’angelico numero
De’ nove cori, come spesso anumero.
Dipinta se’ là su, Virgo Santissima,
Con la tua madre Anna sì dignissima,
E Magdalena del tuo figlio appostola.
Con Caterina sposa vi s’acostola.
E tutto è fatto per la salutevole
Legge di grazia tanto a noi valevole.
Nella prima di quelle che secondano,
Martiri e sacerdoti intorno abondano;
Ne l’arco da traverso son Pontefici,
Piero ed altri, e son sei men che sedici.
Moyses è nel cielo con le tavole,
R ’l Re David, che non compuose favole;
E losue e Maccabeo, che furono
Si valorosi, con lor si quadrorono
In questa legge, scritta su ’l suo titolo.
Così nell’altra volta ragomitolo,
D’atorno Confessor, Dottori e Vergini,
L’ordine seguitando nelle margini,

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Maria di Moisè tiene il salterio
Su nella volta, e non sanza misterio;
Iudith, Hester e Ruth l’accompagnano:
Per gran virtù quel loco si guadagnano.
Le terze volte e prime su Io introito
Di legge di natura fia raccolito.
Là fia Adamo in una volta pristino,
Et Habraamo et altri, s’io ben distino:
Eva e Sara et altre due isplendide
In quella sesta volta fian ostendide:
Negli archi atorno l’ordine mostrandolo
Degli altri Santi fia seguitandolo;
Ne’ due archi maggior, s’io ben concipio,
Sera d’Adam e d’Eva il lor principio.

E finisce il suo dir metrico con queste parole:

E questo tutto ò così disposito
Perchè ciascun ne sia sappia il composito37.

Ma anche il padre Richa38 desidera che si sappia il composito e nomina dei Santi, molto diversi però da quelli nominati dal Sacchetti: e nemmeno gli annoverati dal Vasari39 corrispondono con quelli celebrati nei versi del Sacchetti. Il barbaro pennello dell’architetto del Rosso li nascose tutti sotto un intonaco, inmodochè noi non siamo in grado di pronunziare un giudizio fra questi dotti antagonisti, perchè il pittore Gaetano Bianchi, che incominciò il meritorio lavoro di disseppellire queste pitture, non potè, per ragioni facili a indovinarsi, proseguirlo.

I versi del Sacchetti fanno menzione di molti Santi, ma non fanno nemmeno parola della miracolosa immagine - quindi alla fine del secolo XIV non esisteva più. - Ma [p. 85 modifica]già alla metà del secolo, nel 1354, come sappiamo da Matteo Villani, in una lunga siccità, il popolo fiorentino ebbe ricorso a un’altra Madonna, a quella dell’Impruneta, o in Pineta, come allora si diceva40. Tempora mutantur et nos mutamur in illis! In una lettera di Franco Sacchetti a Jacopo di Conte, aggiunta alle sue Novelle, si trova il seguente passo: «Quanti mutamenti sono stati nella mia città pure nella figura di Nostra Donna? E’ fu un tempo, che a Santa Maria da Cigoli, ciascuno correa; poi s’andava a Santa Maria della Selva; poi ampliò la fama di Santa Maria di Pruneta; poi a Fiesole a Santa Maria di Primerana e poi a Nostra Donna d’Orto san Michele. Poi s’abbandonarono tutte»41. – Quantunque egli inverta l’ordine, facendoci credere, che la Madonna d’Or’San Michele fosse stata l’ultima venuta in onore, ci dà però una gran notizia: «s’abbandonarono tutte». - Si era anche abbadonata la nostra miracolosa imagine. Per quali ragioni? non possiamo dire - ci basti il fatto.

Nel tempo già detto il gran maestro Orcagna ideava ed eseguiva i bassorilievi del tabernacolo per quella Loggia, dove i contadini continuavano sempre ad esporre in vendita il loro grano. Ma di quel palagio, a due volte, che di sopra si doveva inalzare42, per ora non si vede nulla. E ne sappiamo certe ragioni: «Era cominciato innanzi alla mortalità il nobile edifizio del palagio sopra 12 pilastri nella piazza d’Or san Michele, per farvi granai per lo Comune, acciocchè si stesse in continua provvisione di grano e di biada, per sovvenire il popolo al tempo della carestia. Ma avvedendosi il Comune, che il minuto popolo era ingrassato e impoltronito dopo la mortalità e non volea servire agli usati mestieri, e voleano per loro vita le più care e le più delicate cose che gli altri antichi cittadini ecc. ecc.. perochè [p. 86 modifica]l’abbondanza del guadagno corrompeva il comune corso del ben vivere; pensarono che più utile era, raffrenare lo ingrato e sconoscente popolo la carestia, che la dovizia. E allora si rimase coperto d’un basso tetto l’edificio del palagio d’Or san Michele, e cioè nel 1350»43. E possiamo affermare due cose; che non prima del 1360 si cominciò a costruire i piani superiori e – che non abbiamo potuto trovare nessuna memoria, nessun documento comprovante l’ipotesi generalmente creduta, che le vaste e belle sale del secondo e terzo piano fossero mai state usate come magazzino delle provvisioni del grano. Ci vuol coraggio a pronunziare tale parola, ma è il coraggio della verità, che non ci verrà mai meno.

Nel 1360 però, notisi bene, non si fece più il mercato sotto la loggia; perchè già nel 1357 il Comune di Firenze ebbe «in Christi nomine» ordinato, che, essendo quasi compiuto il bellissimo oratorio dell’Orcagna sotto la loggia, alla cui bellezza disconverrebbe il carattere di mercato pubblico, questo fosse traslocato in altro luogo44.

Quando finalmente si continuò l’inalzamento dell’edifizio, fu murata pure la piccola scala, collo staio scolpito sopra l’ingresso, la quale, scavata nel famoso pilastro angolare, forma l’unico accesso ai piani superiori, appartenente propriamente alla fabbrica. Questa scaletta, adesso non praticabile perchè murata, non eccede in nesssun punto la larghezza di 76 centimetri, e facendo molteplici giri, sarebbe stata un’assoluta impossibilità di passare per essa con un sacco pieno in ispalla; non avrebbe potuto servire che per gli uomini, i quali saliti, avessero tirato su i sacchi di grano per mezzo di un argano, collocato fuori delle finestre. Ma per quanto attentamente abbiamo esaminato le pietre sopra e sotto e accanto alle finestre, non se ne vede nessuna sporgente, o [p. 87 modifica]danneggiata o messa posteriormente, in modochè nemmeno l’edifizio stesso ci pone sulla via di una scoperta. Sarei veramente grata, se qualcheduno mi potesse dire a che cosa servivano quelle magnifiche sale dall’epoca del loro compimento fino al 1548, nel qual anno Cosimo I, Magnus Dux Hetruriae, ordinò che si stabilisse l’Archivio pubblico in quelle sale. L’ordine fu eseguito nel 1569, secondo l’iscrizione posta sopra la prima porta dell’ingresso: dell’ingresso dalla via Calimara, ben inteso. Da questa parte una scala un po’ incomoda, perchè piuttosto ripida, ma assai larga e ben illuminata ci porta per mezzo del tanto discusso e brutto arco saliente, appunto nei piani superiori, che servivano d’Archivio. Per aumentare i comodi e l’utilità del medesimo, vennero fatti i cambiamenti architettonici (il palco inserto, la parete che divide la sala superiore, creata per quel palco, in due parti ecc.) negli anni 1777 e 1787; i quali cambiamenti sotto altro punto di vista si sono provati tanto funesti. All’enorme peso de’ Protocolli notarili e dell’infelice muricciolo, oggi soprastante ai pilastri, le pareti, cominciarono a screpolare e non vi fu altro che traslocare l’Archivio notarile, il quale fino dal 1886 si trova nella via dell’Oriuolo.

E dal 1886 quelle sale sono di bel nuovo vuote e fuori d’uso. Quand’io, per esaminarle, vi entrai, mi senti assalita da una vera melanconia! eppoi mi venne l’idea: oh perchè non si adoperano, per esempio, per uso di Galleria? Sono lieta di poter dire che l’architetto del Duomo, il comm. Del Moro, ebbe la medesima idea e molto prima e molto più precisa di me. Già più di un anno fa, egli propose al Ministero, di esporre in queste vaste e ben illuminate sale i tanti e bellissimi arazzi, che negli armadi delle Gallerie fiorentine sono sottratti all’ammirazione degli intelligenti dell’arte. Non praticando nessuno quelle sale, ne risentono maggior danno che vantaggio, come ogni architetto confermerebbe.

Se si dovesse contentare il desiderio di molti amici dell’arte, cioè che il magnifico tabernacolo, il quale per la poca [p. 88 modifica]luce dell’interno rimane davvero sacrificato, si collocasse in altra chiesa ed i valichi degli archi si riaprissero, riducendo la chiesa in loggia, allora ci sarebbero due possibilità per creare un accesso ai piani superiori, demolito e tolto il poco decoroso arco saliente: e ciò si otterrebbe, o rendendo alla sua prima destinazione la piccola scala, per fine di avere una sufficiente larghezza, o, con un disegno più artistico e più degno, e forse il più semplice e economico, costruendo nel mezzo del terreno una bella scala a chiocciola. I cosiddetti sopramattoni, che in oggi chiudono i valichi degli archi, e che non arrivano che fino sotto alle graziosissime rose di stile gotico, fatte da Niccolò di Piero Lamberti, detto Pela, essendo di poco spessore e perciò per niente necessari ad assicurare la stabilità della fabbrica, si potrebbero demolire.

Se invece, forse sostituendo ai sopramattoni, bei finestroni di vetro a occhi, si lasciasse chiesa il pianterreno, allora eccoci ad un ultimo disegno; che vorrei raccomandare a coloro che amano le cose dell’arte e il decoro di Firenze; il quale consisterebbe nel levare addirittura la scaletta, ormai inutile; scavando al pari delle altre la nicchia del capolavoro di Donatello, cioè il S. Giorgio, affinchè non ci fosse bisogno, a cagione delle intemperie, di mettervi in luogo dell’originale una copia. Eppoi si dia all’architetto, che già ha manifestato così vivo interesse per quel «palatium Sancti Michaelis» l’incarico di studiare il modo, con cui, mascherando ed ornando il tanto ingiuriato arco, conforme allo stile dell’epoca, si potesse fare, di una bruttura, un adornamento dell’edifizio. In ogni modo si faccia qualche cosa; non si lasci andare in una lenta, ma troppo sicura rovina uno dei più superbi testimoni della grandezza di Firenze. Allora l’edifizio stesso, colla sua nuova destinazione, farà bella ed eloquente testimonianza, che i moderni fiorentini sono sempre degni degli antichi e di loro stessi.

Dott. Claere Schubert-Feder.

Note

  1. Notizie Istoriche delle Chiese fiorentine di Gius. Richa. Firenze, 1704, pag. 29.
  2. Girolamo Tiraboschi, Storia dell’augusta Badia di S. Silvestro di Nonantola. Modena, 1784, pag. 368.
  3. Archivio della Badia, Lettera del 13 Nov. 1300.
  4. Gius. Richa. Op. cit., tom. I, parte I, pag. 30.
  5. Annali di Simone della Tosa (Cronichette antiche). Firenze, 1733.
  6. G. Vasari. Le Vite ecc. con comento di G. Milanesi, 1877, pag. 284 s. v. Arnolfo di Lapo (cioè di Cambio).
  7. Giov. Villani, Cronica, t. II, p. 362.
  8. Capitoli della Compagnia della Madonna d’Orsammichele, ed. Leone Del Prete. Lucca, 1859. - Capitoli del 1297, cap. IX: «Ordiniamo che i capitani.... debbiano far fare solenni vigilie di canto di laude dinanzi a la figura de la Vergine; cap. XIII... di fare stare coperta la tavola di messer santo Michele».
  9. G. Villani. Op. cit., t. IL p, 362.
  10. Capitoli ecc. del 1294.
  11. Capitoli ecc. del 1333, cap. XXX.
  12. Capitoli ec. del 1297, cap. XIII.
  13. G. Villani. Op. cit., t. II, p. 362.
  14. Cronaca di Dino Compagni, lib. III, cap. VIII.
  15. Passerini. Storia degli Stabilimenti di Senescenza di Firenze. Le Monnier, 1853.
  16. Dino Compagni, Giovanni Cambi, ec.
  17. Secondo il rapporto del prof. Castellazzi: Palazzo di Or San Michele, 1883, Fratelli Bencini.
  18. G. Villani. Op. cit., t. II, p. 362.
  19. Guido Cavalcanti. Rime. Firenze, 1813. p. 40, Sonetto III.
  20. Gaye. Carteggio d’Artisti, Voi. I, p. 48. Firenze, Molini, 1839.
  21. Bib. Naz. Cod. Magliabechiano, Classe XXV, cod. 422.
  22. G. Vasari. Op. cit., pag. 284, s. v. Taddeo Gaddi.
  23. Petizione dai Consoli dell’arte della seta ecc.. ai Priori ed al Gonfaloniore di Firenze dal 12 Aprile 1339, riportata nel Gaye op. cit. t. I, p. 46.
  24. G. Vasari. Op. cit. p. 576, s. v. Taddeo Gaddi.
  25. Del Migliore. Firenze illustrata; 1684, p. 530.
  26. G. Villani. Cronica, t. 2, p. 362.
  27. Arch. Stat. Fior. Provv. II, c. 65; Consulte, VI, e. 69, 70, riportato in Del Lungo: Dino Compagni e la sua Cronica. Firenze, Le Monnier, 1879 t. s. p. I, e p. 131.
  28. D. in Manni: Istoria del Decamerone di Giov. Boccaccio. Firenze, 1742, p. 415 (Giornata VI, Nov. 5).
  29. Riportata da Passerini, Op. cit. p. 412 (vedi annot. N. 16).
  30. Cronica di Matteo Villani; libr. I, cap. 2 ec.
  31. Capitoli ecc. del 1294.
  32. Arch. di Stato. Registro 106 delle Provvisioni, Classe II, Dist. II, N. 107, cart. 309, tergo.
  33. G. Vasari Op. cit., p. 463 (Commentario alla vita di Stefano Fiorentino e d’Ugolino Sanese).
  34. G. Vasari. Op. cit., p. 605 s. v. Andrea Orcagna.
  35. Decreto della Signoria del 13 Luglio 1349 riportato dal Passerini: Curiosità storico-artistiche fiorentine, p. 116.
  36. Storia di S. Antonino, Parte III: «in processu temporis est repletus locus imaginibus cereis».
  37. Memorie originali italiane. Bologna; R. Biblioteca Laurenziana; Mss, Asburnham., N.° 574. Rime di Franco Sacchetti,
  38. G. Richa. Op. cit., p. 26.
  39. G. Vasari. Op. cit. t. I, pag. 536 e p. 670.
  40. M. Villani, Cronica, libr. IV, cap. 7.
  41. Franco Sacchetti, Lettera a Iacopo di Conte aggiunta alle novelle, t. III, p. 470.
  42. G. Villani, Cronica, libr. XI.
  43. M. Villani, Cronica, libr. I, cap. 57.
  44. Provvisioni del Comune di Firenze, s. v. Registro 45 - data del 27 Aprile 1357.