La Griselda/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera regia con tavolino nel mezzo, su cui vi siano le spoglie reali deposte da Griselda.
Corrado e Oronta.
Come t’aggrada?
Oronta. In breve spazio accolto
Qui di più regni è il prezzo.
Corrado. È l’oro stesso
Superato dall’arte, onde può dirsi:
La materia qui pur cede al lavoro.
Oronta. (Ma il tesoro maggior quivi non veggo). (da sè
Corrado. Queste son quelle stanze, in cui soggiorno
Fece un tempo Griselda.
Tu di già mi narrasti, e mi dicesti
Che nacque pastorella, e fu regina.
Corrado. Quella appunto. Colà rimira il manto
La corona e lo scettro e gli altri fregi
Da lei deposti.
Oronta. Ed or la sventurata
Alle selve tornò?
Corrado. Raminga e mesta.
Oronta. Veste ruvide lane?
Corrado. Incolta e abbietta.
Oronta. E ad uffizio vil la mano impiega?
Corrado. Così vuole il tenor del suo destino.
Oronta. Quanto mi fa pietà!
Corrado. Di nobil alma
È figlia la pietade.
Oronta. E come mai
Gualtier che l’amò tanto, e che la trasse
Per amor dalle selve, or la discaccia?
Corrado. Necessità il costrinse.
Oronta. Ah, ch’io pavento
La medesima sorte!
Corrado. Invan paventi.
Era vile Griselda.
Oronta. E i miei natali
Non son palesi ancor.
Corrado. Tel dissi, Oronta,
Che di padre real figlia tu sei.
Oronta. Ma chi fu il padre mio?
Corrado. Oggi il saprai;
Ma dimmi, al forte amor del tuo Gualtiero
In qual maniera corrisponde il tuo?
Oronta. Qual si conviene ad un amor di sposa.
Corrado. E quel d’amante a chi lo serbi? E questo
Il più tenero affetto, il più soave.
L’amante per passion ama chi vuole;
Genio è in questa l’amore, e in quella è legge.
Oronta. Ahimè!
Corrado. Non arrossir: più che Gualtiero,
Ami Roberto.
Oronta. Oh Dio! negar non posso.
Ma l’amai pria per tuo consiglio.
Corrado. Ed ora?
Oronta. Ho per lo sposo mio tema e rispetto;
La sua grandezza e il suo diadema inchino,
Stimo il suo grado, e sol Roberto adoro.
Corrado. Non t’affliggere, Oronta: e chi ti vieta
Roberto amar?
Oronta. Son moglie.
Corrado. Ancor di sposa
Non giurasti la fè.
Oronta. Ma in questo giorno
Io giurarla dovrò.
Corrado. Molto vi resta
Di questo giorno ancor; ma qui s’avanza
Sconsolato Roberto.
Oronta. Io parto.
Corrado. E vano
Questo vostro rigor. Gualtier concede
Qualche lieve conforto al vostro duro
Ragionevol dolore, e voi severi
Ne dispregiate il don? Felice il mondo,
Se cotanta virtù regnasse in tutti!
Non vi sarian tanti amorosi furti,
Nè con tanto rigor terrian guardate
Le sue spose i mariti. Or ci scoperse,
Oronta, il Prence, onde partir non puoi
Senza taccia d’ingrata, Io qui ti lascio,
Che so per prova quanto piaccia e giovi
Oronta. Ah potessi partir!1
A me potria piacer, ma non giovare;
Anzi finger degg’io col mio diletto
Severa crudeltà, perchè il suo duolo
Incoraggisca il mio.
SCENA II.
Roberto e detta.
Pria che d’amarti lasci, io questa vita
Lasciar dovrò... Ma che fia mai? tu nieghi
Al tuo fido Roberto anco d’un guardo
Il misero conforto? Ormai cangiasti
Il cuor per lui? Ormai cangiasti affetto?
Oronta. Sdegna amor il mio grado, e vuole ossequio.
Roberto. Infelice cor mio, non v’è più speme.
Oronta. Udisti?
Roberto. Udii, Regina.
Oronta. E ben, che chiedi?
Roberto. Inchinarti, e non più.
Oronta. Già lo facesti.
Parti.
Roberto. Ubbidisco... E come mai sì tosto
Obliasti la fè?...
Oronta. Regina e moglie
Più non devo ascoltar che un Re consorte.
Roberto. (Mie tradite speranze, io son perduto). (da sè
Oronta. (Fosse almeno Gualtier così vezzoso). (da sè
Roberto. Parto dunque, o Regina.
Oronta. E ancor ritardi?
Roberto. Ahi, che al moto del piè s’oppone il core!
Crudelissima Oronta...
Di lagnarti di me?
Roberto. Se mi discacci,
Forse è senza ragion l’affanno mio?
Oronta. Ma non son io regina?
Roberto. È vero.
Oronta. Il cielo
Non mi fé’ di Gualtier?
Roberto. Così mia fossi!
Oronta. Non ti piace vedermi assisa in trono?
Roberto. La tua sorte desio.
Oronta. Giubila e godi.
Roberto. (Mi deride l’ingrata!)
Oronta. Addio, Roberto.
Non ti doler.
Roberto. Ch’io non mi dolga allora
Che ti perdo, mio ben?
Oronta. Dov’è il coraggio
Con cui mi consigliasti amar Gualtiero?
Roberto. I rimproveri tuoi, crudel, intendo.
Oronta. Io sprezzai questo regno, e tu negasti
Per virtù farmi tua. Dicesti pure,
Che in confronto del trono era ormai troppo
Serbar fede a Roberto.
Roberto. Il dissi quando
Men difficil credea l’abbandonarti.
Oronta. Più rimedio non v’è: già son Regina,
Già son d’altri, o Roberto: in pace soffri
Quel destin che tu stesso hai procurato.
Roberto. Più risponder non so. Temo col labbro
Oltraggiar il tuo grado. Io di sperarti
Cessar dovrò per mio tormento, o bella;
Ma d’amarti non già. Mai più d’affetto
Ti parlerò; ma nel mio seno ascosa
Serberò la mia fiamma infin che giunga
Partirò, tacerò, ma non credea...
Basta, Regina, addio.
Oronta. Ferma, Roberto.
Che vuoi tu dir? che non credevi?
Roberto. Oh Dio!
Non so; lascia ch’io parta.
Oronta. Io ti comando
Non partir, se non parli.
Roberto. E per star teco
Dunque non parlerò.
Oronta. No, parla e parti.
Roberto. Non credeva, dicea, nel cor di Oronta
Così l’antica fiamma illanguidita.2
Il forte laccio infranto, all’empio fato
Cede l’amor? Quest’è la fè? Spergiura!
Così obliasti il tuo fedel amante?
Io doveva desiar la tua grandezza,
Tu dovevi serbar la tua costanza.
Io feci il mio dover nel consigliarti
A lasciar me per acquistar un trono,
Ed era tuo dover di non lasciarmi
Anco in faccia del trono: io già predissi
Che abbagliato t’avria della corona
Il sublime splendor. Sì, così avvenne.
Piena di regio fasto or più non degni
D’uno sguardo pietoso il tuo Roberto.
Così dir ti volea; ma fra le labbra
Chiuse avea le voci il mio rispetto.
M’imponesti parlar; per ubbidirti,
Regina, il feci, or l’altro cenno adempio. (parie
Oronta. Ah Roberto, Roberto. Anima mia,
Se vedessi nel sen come sta il core
Di quella che crudel cotanto appelli,
Che da lei chiedi, avresti. Oh quanto meglio,
Amarilli, di te dir lo poss’io,
Soffri in pace, mio ben, e ti consola,
Che se piangi per me, per te sospiro,
E che pari al tuo duolo è il mio dolore. (parte
SCENA III.
Bosco.
Griselda da ninfa, poi Artandro.
Torno a voi, piante amiche, aure dilette.
Qui veggo l’ombra e que’ solinghi orrori,
Che mi porsero un dì lieto riposo.
Ecco là il chiaro fonte, in cui sovente
Feci dell’acque sue bevanda e specchio.
Veggo il colle fiorito, il prato ameno,
E la valle vegg’io, dove gl’armenti
Nell’estiva stagion guidar solea.
Ecco l’albero mio, su cui più volte
Scrissi col dardo di Gualtiero il nome.
Già scemo di lontan l’angusto tetto
Ove nacqui, ove vissi i più felici
Giorni dell’età mia. Saravvi in esso
Il mio buon genitor; lui, che sprezzando
L’incostante fortuna e i di lei doni,
Meco non volle abbandonar l’antico
Rustico albergo. E che dirà di questa
Sventurata sua figlia? Ah rimembranze
Del perduto mio ben, deh non venite
La mia pace a turbar fra queste selve!
Oh Dio, Gualtiero! Oh Dio, Everardo! Oh Dio
Dolci nomi adorati, oh sposo, oh figlio!
Voi mi state nel cor, voi mi rendete
Sempre mesta sarò... Ma chi è colui
Che curvo e tardo ad un baston s’appoggia,
E qui sembra rivolga i lenti passi?
Fosse il mio genitor! Se non m’inganna
Il desio di vederlo... Affé, ch’è desso;
Oh qual mi sveglia in sen dolce diletto!
(si ritira in disparte
Artrando. Oh come belle al rinnovar dell’anno
Spuntan le molli erbette! Oh come scalda
Co’ primi raggi dell’ariete il sole!
Tutte io mi sento invigorir le membra,
E ad onta dell’età parmi nel seno
La forza rinnovar de’ miei prim’anni.
Ecco il bel frutto d’una moderata
Vita innocente, d’altre cure priva,
Vaga di poco, e di sé sol contenta.
Non avrei già così quindici lustri
Lietamente passati in mezzo agli agi,
Dove trarmi volea seco mia figlia,
O non sarei giunto fin qui, o ch’io
Vi sarei giunto di difetti carco.
Più mi cale d’aver perfetta vista,
Accorto e pronto udito e forti denti,
Che di mille milion d’auree monete.
Io son quasi felice; ma v’è il quasi,
Perchè il cielo quaggiù non vuol felici.
Mi sta nel cor la figlia, e di vederla
Cotanto è il desir mio, che ben sovente
Bramo d’esser in corte; indi pensando
Della corte ai perigli, in me ritorno,
E mi eleggo soffrire un sol tormento
Nella sua lontananza, anzi che cento
Provar tormenti a lei vivendo appresso.
Oggi intesi che qui venir destini
Marito di mia figlia (eppur mi rende
Non poca vanità sì gran parente!).
Potoria darsi, che seco ancor venisse
La figlia mia: cara Griselda, oh quanto
Volentier ti trarrei le braccia al collo;
Muoio di volontà di darti ancora
Un abbraccio paterno.
Griselda. Eccoti, o padre,
La tua figlia Griselda; or a tua voglia
Abbracciarla potrai.
Artrando. Numi, che veggo!
È una larva cotesta, o pur Griselda?
Griselda. Non conosci il tuo sangue? Il cuor dovrebbe
Farti fede per me.
Artrando. Mi balza in seno
Con strano moto il cor; ma spesso inganna,
Se il desio prevenuto ha il core istesso.
Griselda. No, non t’inganni, o genitor: io sono
La tua figlia diletta.
Artrando. E come... e quando...
L’abito... Perchè il crine... Io mi confondo.
Mille cose vorrei chiederti a un tratto,
Nè so quale di lor chiederti in prima.
Griselda. Tutto ti narrerò; ma ben tem’io,
Che sarotti cagion d’acerbo pianto.
Artrando. Cagion di pianto a me? Quanto t’inganni!
Io non so che sia pianto, e non trarrei
Se cadesse sossopra il mondo tutto,
Una stilla d’umor dagli occhi miei.
Sai se amava Nicea, la mia fedele
Onesta moglie, e tua diletta madre.
Pur, quando morse, io non versai pel duolo
Una lagrima sola: ed a che giova
Il lagrimar? Vera follia. Su narra
Forse il Re tuo marito? Alfin la morte
È il termine comun; morrai tu ancora,
Io pur morrò (che il ciel mi guardi!).
Griselda. Oh come
L’intrepidezza tua lieta mi rende!
Padre, vive Gualtier; ma non più mio.
Non son io più Regina; e trono, e scettro,
E sposo, e figlio, e quant’avea di bene,
Tutto, tutto perdei.
Artrando. Per qual cagione?
Griselda. Mi repudia Gualtier.
Artrando. Repudia? Io poco
Questo termine intendo.
Griselda. Ei mi dichiara
Del suo talamo indegna, e scioglie il nodo
Coniugale fra noi.
Artrando. Come può farsi?
Chi fu l’autor di questa legge iniqua?
Griselda. Il popol di Tessaglia.
Artrando. È al popol suo
Soggetto il Re? Dunque son io felice,
Nella mia libertà, più d’un Monarca.
Ma dimmi, qual azion indegna e vile
Ti meritò un tal sfregio?
Griselda. Ah genitore!
Così parli a tua figlia? Ella tu credi
D’azion indegna, e di viltà capace?
Artrando. Perchè dunque scacciarti?
Griselda. I miei natali
Mossero a sdegno i cuor superbi.
Artrando. E questa
È la cagion, per cui Gualtiero adesso
T’allontana da sè?
Griselda. Questa, e non altra.
Fatto come la cera, in cui s’imprime
Facilmente ogni cosa, e facilmente
Cancellare si può; ma senti, o figlia:
Non ti doler di ciò, ringrazia il fato,
Che per premiar la tua bontà, ti guida
A viver lieta. Dimmi; da quel giorno,
Che tu passasti dalla selva al trono,
Godesti mai senza cordoglio un bene?
Griselda. No padre, ma d’amaro ogni piacere
Trovai misto mai sempre.
Artandro. Or qui godrai
Tutto intero il piacer. Chi non desia
Se non quel che possiede, egli possede
Tutto quel che desia; chi si contenta
Della sua povertà, ricco è in se stesso.
Ma sai qual è la povertà penosa,
Che avvilisce il meschin? Quella per cui
Sudar il dì, vegliar le notti ei deve,
Per procacciarsi il pane, e non la nostra,
Che con lieve fatica a noi concede
Parco sì, ma sicuro e nostro cibo.
Povero chi sospira, e non ottiene.
Felice chi possiede, e non desia.
Felici noi, che sen vivemo in pace.
Povero il cittadin, che suda e pena.
Griselda. A chi visse mai sempre in basso stato,
Non è grave sua sorte; e non aspira
Il pastor fra le selve a regio trono:
Ma chi scende da quello a un vil tugurio,
Non può farlo sì franco. Io, grazie ai numi,
Tanto non sento già la mia sventura,
Che giunga a delirar; ma dal pensiero
Non posso trar la rimembranza amara,
Che fui regina un dì.
Liete cose godrai. Soglion le ninfe
Ogni festivo dì vestire3 in gala,
Radunarsi colà dove ad un prato
Fan corona d’intorno annose quercie.
Nè vi penetra il sol che di furtivo,
Tra fronda e fronda, onde mai sempre spira
L’aria fresca e soave. Al dolce suono
Ivi d’una zampogna, o di sonora
Stridente canna saltellando a gara
Van le ninfe leggiadre, e i lor pastori
Le accompagnano al ballo; anch’io sovente
Dall’esempio invitato, anch’io, Griselda,
Movo talora in vari giri il piede,
E se grave l’età troppo mi rende,
Nel piacere degl’altri esulto anch’io.
Griselda. Oh te beato, che in canuta etate
Serbi verde il desio.
Artrando. Ma non finisce
Quivi il nostro piacer. Seduti in giro,
Accorti dubbi si propone: un premio
Si destina a colui che il dubbio scioglie;
A chi erra, una pena. Io più di cento
Ho vinte a prova tenerine agnelle,
Che allevate da poi con la mia cura,
Moltiplicando hanno accresciuto il gregge;
Una ve n’è fra queste, a cui la neve
Cede in candor; snella così, che cerva
Non la vince nel brio. Questa, Griselda,
Questa sarà per te.
Griselda. Qualche conforto
Mi recheran questi piacer giocondi,
Che proposto tu m’hai.
Tu non perdesti del paterno tetto,
Ritrovarlo saprai. Miralo: è quello
Che fa termine a questa angusta via:
Vattene a riposar, ch’io volo intanto
Ad avvisar di tua venuta i cari
Miei compagni pastori. E Lineo, e Niso,
E Titiro, e Montano, e il vecchio Ergasto
Indi a te condurrò, figlia diletta.
Mi fai rinvigorir. Numi del cielo,
Grazie al vostro favor: di me nel mondo
Più felice non v’è. Figlia, m’attendi:
Quinci e quindi men vado, e poi ritorno. (parte
Griselda. Se la memoria del perduto bene
Non venisse a turbar l’alma dolente,
Qui spererei conforto, ove col nome
Del mio Gualtier in questi tronchi impresso,
Mi ricordan diletti i tronchi istessi;
Ma or nel rivedervi, o patrie selve,
Ove nacque da prima il foco mio,
S’accresce il mio dolore. Andiam, Griselda,
Ove il rustico letto in nude paglie
Stanca m’invita a riposar per poco;
E scordando colà, se non Gualtiero,
La grandezza real persa per sempre,
Al silenzio e alla pace il core avvezzi, (vuol partire
SCENA IV.
Ottone con guardie e detta; e poi Everardo.
Griselda. (Che importuno!) (da sè
Ottone. Ancora
Torna, o cara, a pregarti un fido amante.
Griselda. Di che vuoi tu pregarmi? E che pretendi?
Griselda. Chiudi quel labbro indegno, e in faccia mia
Non mi parlar d amor.
Ottone. Ma che! Ti chiedo
Dono che sia delitto? Oggi da un nodo
Col ripudio real libera torni.
Io ten prometto un altro, e casto, e fermo;
Anco in rustico ammanto, anco fra boschi,
Ripudiata, sprezzata e vilipesa,
Ti bramo in moglie; e se non porto in fronte
Il diadema real, conto a mia gloria
Più re per avi, e su più terre io serbo
E titoli, e comandi.
Griselda. Ottone, addio.
Ottone. Ferma, e pria di partir mira il tuo figlio:
Venga Everardo. (una guardia lo conduce
Griselda. Oh mio diletto figlio,
Delle viscere mie parte migliore,
Oh di madre infelice e sventurata,
Oh di padre crudel frutto innocente,
Vieni, lascia che al sen...
Ottone. Ferma; cotanto
Non puoi sperar senza piegarti in prima
Al mio tenero amor.
Griselda. Chi può vietarmi
Stringere il figlio mio?
Ottone. Chi del tuo figlio
Può far spargere il sangue. O là, quel ferro
Passa nel di lui sen.
(alla guardia che si pone in atto di ferir Everardo
Griselda. D’empia sentenza
Barbaro esecutor, sugli occhi miei
Il mio figlio svenar no non potrai. (gli leva lo stile
Vanne altrove a mostrar, barbaro cuore,
Della tua ferità l’ingiuste prove.
Amorosa mercè, chè ai preghi altrui
Sì vilmente non sa ceder Griselda.
Ah che nel seno per Gualtier mio sposo
Serbo, benchè sprezzata, il cuore istesso.
Ottone. Oh superba inaudita! O a me di sposa
Dia la fede Griselda, o mora il figlio,
E qui sugli occhi tuoi. Se un vil soldato,
E una debile man pur cesse il ferro,
Lo svenerò col mio.
(impugna la spada, e prende con l’altra mano Everardo
Griselda. Ah traditore!
E questi son d’alma ben nata i vanti?
Dove tanta empietà, crudo, apprendesti?
Che ti fece il meschin? Deh per pietade,
Rendimi il figlio mio.
Ottone. Render nol voglio
Che cadavere esangue.
Griselda. Ah Ottone! Ah figlio!
Ahi sentenza crudel! Che fo? Che penso?
Sarò infida a Gualtiero? Ah, che non deggio.
Sarò inumana al figlio? Ah, che non posso.
Veggo egualmente in un fatal periglio
L’amor mio, la mia fè. Deh per pietade,
Rendimi il figlio mio.
Ottone. Prendi la destra,
E seco il figlio tuo.
Griselda. Destra spietata,
Che orror mi desta, e ritrosia nel seno.
Ottone. Mira, Griselda, mira, oh quant’è vago
Il tuo caro Everardo! Ei fu tua gioia,
E tu morto lo brami? Osserva quanto
Più di te son pietoso; io ti concedo,
Che pria del suo morir, dal suo bel labbro
Prendi, madre crudel, gl’ultimi baci. (lo porge a Griselda
Per toglierti al rigor del tuo destino,
Tu vedi, o figlio, esser convienmi infida.
Purchè non cada sotto ferro estinto
Everardo il mio bene, in me s’uccida
Di Griselda la fede. Eccone4, hai vinto.
Prendi la destra. (gli porge la mano
Ottone. Ah cara!
(con trasporto, in atto di prenderla
Griselda. Ah no, fui pria (la ritira
Moglie che madre. Al mio Gualtier si serbi
Sempre la stessa fè.
Ottone. Deliri ancora?
Griselda. Va pur, sazia, crudel, l’ingorda sete
Della sua morte. A’ tuoi superbi fasti
Questo, o perfido, aggiungi, e ti dia pregio
Narrar altrui, che di tua man versasti
D’un figlio il sangue alla sua madre accanto.
Prendi, viscere mie, l’ultimo abbraccio,
L’ultimo bacio prendi. (l’ abbraccia
Oh Dio! mi sento
Staccar l’alma dal sen. Chi ti diè vita,
Per salvarsi l’onor ti guida a morte.
Alma dell’alma mia, figlio diletto,
T’abbandono per sempre. A gloria mia
Vanne (oh Dio, lo dirò?), sì vanne, e muori.
Che fai, Otton? Mira, che il colpo attende
Quel misero innocente. Ardisci pure;
Su via, s’altro non vuoi che il di lui sangue,
Trafiggi, impiaga, e se a ferir quel seno
Il tuo ferro non basta, eccone un altro.
(gli getta lo stile
Chiedesti la sua morte o l’amor mio?
Fida viva la madre, e mora il figlio;
Vendetta un dì contro di te. Saranno
Vendicate dal ciel col tuo supplizio
D’una madre tradita le funeste
Lagrime dolorose. Addio per sempre,
Figlio diletto: anche una volta sola
Ti ribacio, mia vita, indi ti lascio
In balìa del più crudo empio tiranno. (parte
Ottone. Non giovano lusinghe, e non minaccie?
Giovi seco la forza: ingrata donna,
Ti rapirò. Se il Re l’abborre e sprezza,
Lo servo, e non l’offendo io. Mentre all’opra
Raccolgo i miei, tu col real bambino
Riedi alla Reggia, e taci.
(alla guardia che parte con Everardo
Oggi vogl’io
Perder la vita, o posseder Griselda.
SCENA V.
Bosco con capanna e sasso.
Griselda, poi Oronta e Roberto.
Quella che ora vi opprime, o mie pupille?
Sonno non è, che quando è il cor dolente,
Non è vostro costume aver riposo.
Ma comunque ciò sia, regger non posso
Me stessa in piè. Quivi m’assido; almeno
Cessate per brev’ora, ombre funeste,
Di turbar coi spaventi il mio riposo. (siede
Quante volte adagiai quivi le membra
Non avvezze alle piume; allor più bello
Mi parea questo sito... Oh sorte ingrata...
(s’addormenta
Io qui stanca l’attendo, ov’ei m’impose. (a Roberto
Roberto. Il tuo breve soggiorno illustra al pari
D’ogni reggia superba, il bosco e il prato.
Oronta. Quivi lasciami sola, e dove suona
Di latrati e di gridi il monte e il piano,
Tu ritorna, o Roberto, al Re mio sposo.
Roberto. Perchè deggio lasciarti? il Re medesmo
Teco venir m’impose.
Oronta. Ei non comprende
Qual sia il nostro periglio.
Roberto. Io non pavento
Punto dinanzi a te. So che non deggio
Sperar pietà, nè la pretendo; io godo
Se di amante non più, di servo almeno
Teco il nome serbar, e benchè siamo
Soli, in parte rimota, io non ardisco
Volgere al tuo bel viso un solo sguardo,
Che modesto non sia.
Oronta. Nel seno mio
Non v’è tanta virtù. Parti, o Roberto.
Roberto. V’è forse nel tuo cor qualche scintilla
Del primo foco? Ah se ciò fosse, anch’io...
Oronta. Rammentati chi son.
Roberto. Cangiasti il grado,
Ma l’effìgie non già. Sei quella stessa,
Mia bellissima Oronta.
Oronta. Olà, sì tosto
La modestia scordasti?
Roberto. Oh Dio, perdona
L’uso del labbro in me; sperai più forte
Il mio valor, ma veggo a mio rossore,
Che in faccia a te perdo in un punto solo
La ragione e il dover; perdo me stesso. (parte
Oronta. Sola, se ben tu parti, idolo mio,
Fisso così, che sempre teco io vivo.
Or se qui riposar... Ma che rimiro?
Donna, quivi sedendo, e dorme e piange!
Come in rustico ammanto ella dimostra
Volto gentil! sento in mirarla un forte
Movimento dell’alma: entro le vene
S’agita il sangue, e il cuor mi sbalza in petto.
Griselda. Vieni. (dormendo apre le braccia
Oronta. M’apre le braccia, e al dolce amplesso
M’invita; il cor sembra che a lei mi spinga;
Più resister non so. (l’abbraccia
Griselda. Diletta figlia. (ancor sonnacchiosa
Aimè! (si sveglia
Oronta. Non paventar, ninfa gentile.
(Il più bel del suo volto aprì negli occhi).
Griselda. (Ho desti i lumi, e il mio pensier s’inganna).
(osservandola
Oronta. (Come attenta m’osserva!)
Griselda. (All’aria, al volto,
La raffiguro, è dessa; ah che nel core
Troppo fissa restò la bella immago!)
Oronta. Cessa di più stupirti.
Griselda. E qual destino
Ti trasse in questo abbandonato sito,
Donna real, che tal ti credo?
Oronta. Io stanca
Di seguir cacciatrice il Re mio sposo,
A riposar qui venni.
Griselda. In quest’albergo
Non troverai che pene.
Oronta. Ognor pietosa
Consolerà le tue sciagure Oronta.
Griselda. Quest’è il tuo nome?
Oronta. Appunto.
E le sembianze avea così gentili
L’uccisa figlia mia.
Oronta. Povera madre!
Griselda. E il tuo sposo?
Oronta. È Gualtier, re di Tessaglia.
Griselda. Ben ne sei degna; il mio fallace sogno
Fece in teneri modi al seno mio
Stringer la figlia, e la rivale abbraccio.
Oronta. Qual sogno?
Griselda. Mi parea stringer dormendo
L’estinta figlia, e ne piagnea di doglia.
Oronta. Quanto son vani i sogni! E in quante guise
Con fallaci apparenze e lusinghiere
Tessono inganni alla ragion che dorme.
Non morì la tua figlia?
Griselda. Ah, che l’uccise
L’empio rigor di barbaro destino.
E tu Oronta ben sei, ma non sei quella.
SCENA VI.
Gualtiero e dette.
Questo rustico tetto.
Oronta. Illustre e degno
La sua gentile abitatrice il rende.
Gualtiero. Anche qui vieni a tormentarmi, o donna?
Griselda. Deh perdona, mio Re; non è mia colpa.
Quest’è il povero mio soggiorno antico;
Rammentati che qui...
Gualtiero. Taci, superba:
Le mie prime follie più non rammento.
Oronta. Se i prieghi miei del tuo favor son degni...
Oronta. Concedi che da me costei non parta.
Nella reggia, ne’ boschi, ovunque io vada,
La desidero aver compagna e serva.
Gualtiero. A te serva costei! Qual sia ti è noto?
Oronta. Ai panni è vil, ma nobile al sembiante.
Gualtiero. Questa è quella, che fu mia moglie a un tempo,
Che amai per mia sciagura, alzata al trono,
Perchè ne fosse eterna macchia.
Griselda. (Oh numi!)
Gualtiero. Quella che già palese al mondo tutto
Rese la sua viltade, e l’amor mio.
Oronta. Griselda?5
Griselda. Ah più non proferirlo! anche al mio labbro
Venne il nome abborrito, e pur io tacqui.
Oronta. Che sento, eterni dei!
Gualtiero. Moglie più abbietta
Non ebbe mai un Re qual io.
Griselda. Nè mai
Ebbe un Re, qual tu sei, sposa più fida.
Oronta. Sia vil, povera sia, con forza ignota
Un amor non inteso a lei mi stringe.
Gualtiero. Io negarla non posso al desir tuo.
Griselda. A maggior tolleranza il cor preparo.
SCENA VII.
Corrado e detti.
Servo d’Otton, ma tuo fedel, che quivi
Volger dovea con gente armata il piede,
Co’ tuoi fidi v’accorsi, e giunsi a tempo.
Gualtiero. Ottone armato! Ed a qual fine, amico?
Corrado. Per Griselda rapir.
Corrado. Ed all’opra s’accinge.
Griselda. E quest’ancora?
Oronta. Si punisca il fellon per tanto eccesso.
Gualtiero. Dia luogo ognun; e che mai perdo allora
Ch’è rapita Griselda? (le guardie partono
Corrado. All’infelice
Tanto rigor?
Gualtiero. Così mi giova.
Oronta. Ed io...
Gualtiero. L’abbandona al suo fato!
Oronta. Il tuo signore
Troppo è teco crudele.
Griselda. Anch’io lo veggo.
Giusto Re, per pietà deh non lasciarmi
In cotanto periglio! Ah se tu brami
La morte mia, colle tue man piuttosto
Trafiggi questo sen.
Gualtiero. Con il tuo pianto
Tu vorresti destare in me pietade,
Ma nasce il mio piacer dal tuo dolore.
Serve il fato crudel colle tue pene
A condur alla meta i miei disegni.
(parte con Oronta e Corrado
Griselda. Misera, che farò? Già veder parmi
Gente venir per la foresta: io sento
Già presso il calpestio: sola ed inerme
Qual difesa sperar? Ecco s’avanza
Ottone: oh temerario! Ove m’ascondo?
Ove fuggo? Ove corro? Ahimè, che è vano
Il correre, il fuggir. Con gente armata
Il fellon mi raggiunge. A qual difesa
Ricorrerò? Farà il mio dardo almeno
Quanto potrà. (prende il dardo
SCENA VIII.
OTTONE, guardie e detta.
Contro chi non t’offende?
Griselda. Empio, vien pure
A svenar dopo il figlio anche la madre.
Ottone. Segui il mio piè.
Griselda. Crudo fellon, piuttosto
Di’ ch’io vada alla tomba.
Ottone. E che far pensi?
Griselda. Ciò che può far cor disperato e forte:
O svenarti, o morir.
Ottone. Ora il vedremo. (vuol accostarsi
Griselda. Scostati, o questo dardo in sen t’immergo.
Ottone. Altre piaghe nel seno amor mi aperse.
Griselda. Non è imbelle qual pensi il braccio mio.
Ottone. Con Ottone però contendi invano.
Griselda. Lasciami in pace.
Ottone. No, vieni, superba,
E reo non mi voler di maggior fallo.
Griselda. Il minor mal ch’io tema, è ’l tuo furore.
Ottone. Temi dunque il mio amor. Soldati, a voi.
(le vuol prendere il dardo
Griselda. Giusti numi del del, soccorso, aita.
Ottone. Eseguite, fedeli, il Re l’impone.
(li soldati procurano di prenderla
SCENA IX.
Gualtiero con soldati e detti.
Ottone. (II Re! sorte crudel!) (da sè
Griselda. (Sian grazie al cielo!)
AI comando preceda, e non è giusto
Ch’io lasci senza premio un tanto zelo.
Soldati, alla mia reggia Otton si scorti.
In amico soggiorno, Otton, ti cinge
Inutilmente il brando, onde qui adesso
Puoi diporlo in mia man6.
Ottone. (Fato inumano!)
Eccolo a’ piedi tuoi. (getta la spada, e parte fra soldati
Griselda. Qual grazie posso...
Gualtiero. Non alla mia pietà render le devi,
Ma d’Oronta al favor. Non fu mio dono,
E tuo merto non fu la tua salvezza;
Ma d’Oronta le preci... Eccola, ad essa
Volgi le voci tue.
SCENA X.
Oronta e detti.
Vita per te salvai, per te mai sempre
Impiegarla dovrò.
Oronta. Compisci il dono, (a Gualtiero
Fa che meco Griselda al regno venga.
Gualtiero. Ove visse Regina, ove tu moglie. (ad Oronta
Oronta. Così brama il cor mio.
Gualtiero. Verrai, Griselda, (a Griselda
Verrai ministra e serva, e qual già fosti
Ricordarti non dei. La mano avvezza
Lo scettro ad impugnar, serbar tu dei
Al più vil ministero, e perchè sia
Più grave il tuo soffrir, devi mai sempre
Non dolerti, e tacer; così t’impone
Quello un tempo tuo sposo, or tuo sovrano. (parte
Da sì barbara legge oppressa in corte?
Oronta. Vieni, non paventar, meco starai.
Rispetterà Gualtier per mia cagione
Teco tanto a me cara.7 Andiam, può darsi
Che si torni a cangiar per te la sorte. (parte
Griselda. Vanne, ti seguirò. Serva mi vuole
Della stessa rivale il mio destino.
M’è crudele Gualtier; tutta la reggia
M’insulterà: che far deggio? Si vada,
E si serva al destin; non è finita
La mia favola ancor. Vediam sin quando
Di me gioco si prenda empia fortuna.
Nè partirò pria di veder l’amato
Caro mio genitor. No, non fia mai.
S’ei torna alla capanna, e me non trova,
Morirà di dolor.
SCENA XI.
Corrado e detta.
Corrado. Donna, m’impone
Il Re, che alla sua reggia t’accompagni.
Griselda. Grata m’è la tua scorta, e ben son io
Per sì buon condottier lieta e felice;
Ma perdona, signor, l’antico padre
Vorrei pria riveder.
Corrado. Ti compatisco.
Dove sta il padre tuo?
Griselda. Dir noi saprei.
Qui fra poco verrà.
Corrado. Dunque per poco
Teco l’attenderò.
Griselda. Grazie di tanta
Parmi appunto ch’ei giunga.
Corrado. È forse quello
Che discende dal colle?
Griselda. È quello appunto.
Corrado. Benchè canuto ei sia, veloce ha il passo.
Griselda. Mira come giulivo a noi sen viene.
SCENA XII.
Artandro e detti.
Ma chi è costui?
È forse il Re?
(guardando Corrado attentamente, che sta in disparte
Griselda. No, ma del Re egli è amico.
Artrando. Non saria già venuto a portar egli
La peste della corte anco in le selve? (a Griselda
Griselda. Questi è un buon cavalier.
Corrado. (Come mi guarda
Attento il vecchio). (da sè
Artrando. O cavaliere o fante,
Fa ch’egli vada, e noi restiamo in pace.
Griselda. Egli ne andrà, ma deggio seco anch’io,
Padre amato, partir.
Artrando. Come! Che dici?
Griselda. Alla reggia fatal tornar degg’io.
Artrando. Eh tu scherzi, Griselda.
Griselda. Il ver ti dico.
Artrando. E vuoi lasciare il genitor cadente?
Griselda. Tu puoi meco venir.
Artrando. Io venir teco?
Pria che il bosco lasciar, morir vogl’io.
Griselda. Dunque addio, genitor. (in atto di partire
Cos’è questo dolor strano ch’io sento?
Partisti ancor, e ne provai dolore;
Ma non così. Sentomi adesso, o figlia,
Staccar l’alma dal sen.
Corrado. (Povero padre!)
Griselda. Al volere del ciel chinar dobbiamo
La nostra fronte, e tollerar in pace
Il decreto de’ numi.
Artandro. Ah! ch’io non posso
Questo colpo soffrir; non più: non sanno
Gli occhi dolenti trattenere il pianto. (piange
Queste lagrime, o figlia, il testimonio
Siano del mio dolor.
Griselda. Tu piangi, o padre?
Tu che chiami follia pianger, lagnarsi
Delle sventure? Tu che pur non sai
Cosa sia lagrimar?
Artandro. La mia baldanza
Ora punisce il ciel: veggo ben io,
Che all’umane sciagure in van presume
Uom sottrarsi quaggiù.
Griselda. Ma non dicesti,
Che felice tu sei?
Artandro. Tal fui finora;
Ma vicino a morir vogliono i numi,
Che l’amaro del mondo assaggi anch’io.
Figlia, se tu mi lasci, io disperato
Morirò fra le selve.
Griselda. Oh Dio, che dici?
Tu morir disperato? Ah no, piuttosto
Teco restar vogl’io.
Artandro. Mio dolce bene,
(con trasporto di tenerezza
Teco lieto sarei...
Al comando del Re: tu perdi il merto
Acquistato sinor, se non l’adempi.
Griselda. E vero: andiam: padre adorato, addio;
Trattenermi non posso.
Artrando. E tu chi sei,
Che vuol dal genitor staccar la figlia?
Empio, fellon, così natura offendi?
Non ti move a pietà d’antico padre
Il mesto pianto? Ove s’intese mai
Più crudele empietà? Se alla giumenta
Togli il tenero parto, ella dolente
Si duol, s’adira, e va smaniosa, e manda
Contro chi glielo tolse alti muggiti.
Io meschin, che farò?
Corrado. Siegui tua figlia.
Artrando. Oh questo non fia mai: morir vogl’io
Di dolore piuttosto in questi boschi,
Che venir a mirar le vostre corti.
Corrado. Della corte sei tu così nemico?
Artrando. Della corte non già, ma de’ suoi vizi.
Corrado. Anche in mezzo dei rei puossi esser giusto.
Artrando. Facilmente s’attacca il rio contagio.
Corrado. Tua grave etade d’ogni error t’esenta.
Artrando. Rimbambiscon talor i più cadenti.
Corrado. Non quei che saggi son, come tu sei.
Artrando. Non mi fido di me, vo’ star fra boschi.
Corrado. Dunque, Griselda, andiam.
Griselda. Padre adorato,
Pur m’è forza lasciarti.
Artrando. Addio per sempre.
Griselda. Per sempre addio? No: rivederti io spero
Tosto più che non pensi.
Artrando. Eh questa vana
Lusinga discacciar, figlia, tu puoi.
E il presente dolor tanto l’accresce,
Che più regger non posso.
Griselda. Il del pietoso
Avrà cura di te.
Artrando. Sì vanne, o figlia,
Più non pensar di me.
Griselda. Perchè non deggio
Di te, o padre, pensar?
Artrando. Perchè fra poco
Io fra’ morti sarò.
Griselda. Corrado, oh Dio!
(volgendosi a Corrado, additando Artandro
Come posso partir?
Corrado. Non sempre uccide
(mezzo piano a Griselda
Un estremo dolor: verrà in se stesso,
E facendo uso della sua ragione,
Il duol modererà. Non è alfin questa
La prima volta che da lui partisti.
Griselda. Addio, buon genitor. (ad Artandro, in atto di partire
Artrando. Già me ne accorsi;
Figlia, t’han vinto di colui gl’incanti.
Vanne, vanne.
Griselda. Che dici! Oh Dio! Che pensi?
Artrando. Nulla penso, va pur. (sdegnato
Griselda. Meco sdegnato
(s’avvicina ad Artandro
Se tu resti, non parto.
Corrado. Orsù, Griselda,
(a Griselda, risoluto
Se più badi, men vado, ed a Gualtiero
Dirò che tu...
Griselda. Gualtiero? Oh dolce nome,
Che mi sprona al partir. Padre, perdona,
M’attendono colà; da te la vita
Ebbi, è ver, ma la diedi al figlio mio.
Vieni meco, se vuoi; ma se tu sdegni
Meco venir, restati in pace: io spero
Rivederti ben tosto, e vado intanto
Delle viscere mie, del caro figlio,
Se vivo, a vagheggiar le care luci,
Se morto, a lagrimar sul freddo busto.
Guardami almen; dammi un soave amplesso.
Padre. (s’abbracciano
Artrando. Figlia.
Griselda. Men vado.
Artrando. Oh numi!
Griselda. Addio.
(parte Griselda con Corrado
Artrando. Vieni, o morte: a che tardi? Ancor non tronchi
Il lunghissimo fil della mia vita?
Vissi lieto sinor, ma parmi adesso
Un continuo morire il viver mio.
Folle colui ch’esser felice spera
Nella terra del pianto. Il pellegrino
Quando giunge alla meta, è sol felice.
La nostra umanità poichè del vizio
Schiava si fe’, non può goder mai pace,
In continua battaglia ognor si trova
Colle interne passioni. Misero Artandro!
Ieri almen fossi morto! Io non avrei
Duol maggior della morte oggi sofferto,
Ma conviene tacer: baciar conviene
La destra di lassù che ci percuote.
Noi nascemmo piangendo, ed è ben giusto,
Che la vita finiam piangendo ancora. (parte
Fine dell’Atto Secondo.