La Donna e i suoi rapporti sociali/La donna nell'esclusione del diritto
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LA DONNA NELL’ESCLUSIONE DEL DIRITTO
- Tutti (gli uomini) hanno la stessa natura e gli stessi attributi; donde nasce per tatti l’identità dello stesso fine e degli stessi doveri.
- TAMBURINI, Corso di Filosofia Morale.
Basato il diritto sulla facoltà, non individuale ma generale alla natura umana, visto essere il diritto la legittima pretesa d’ogni essere allo sviluppo delle facoltà proprie del suo tipo, ed a tutte compiere le funzioni che gli fanno raggiungere il suo fine; io non mi dilungherò a provare, che la donna, essere umano, non ha un diritto di meno dell’uomo, finchè non usurperà il sacro nome di diritto il privilegio.
Solo dirò, che i giurisperiti tutti, benchè non formulandosi nessuna base filosofica di diritto, tutti però viddero voler giustizia e ragione che ad ogni essere umano si estenda il diritto; epperò, non potendo essi in nessun modo negare alla donna di appartenere all’umanità, venir poi essi tutti con loro stessi in contraddizione, ogni qualvolta li veggiamo porre squilibrio fra l’uomo e la donna, e così la giustizia ferire con una spada a due tagli che, mentre nega all’uno il diritto, accorda all’altro un privilegio.
Gli è perciò che, di tutte le accuse portate dentro la donna allo scopo di giustificare il modo iniquo, col quale è dalle leggi trattata, non essendo dalla natura nè dalla ragione sancite ma dalle sole passioni, nessuna può regger salda davanti a pochissima osservazione, ed in faccia alla vera base del diritto.
Si disse: la donna è incapace.
Ma non è possibile negare l’intelligenza di molte donne più di quel che si possa disconoscere l’imbecillità di molti uomini. Ma sull’intelligenza individuale non è basato il diritto.
Si disse; la donna è debole.
Non è possibile negare la forza e la vigoria di molte donne, come è impossibile negare la gracilità ed il cronicismo di molti uomini. Ma sulla forza e sulla sanità non è basato il diritto.
Voi obiettate il genere delle sue funzioni?
E impossibile dimostrare e provare che la maternità, l’ordine famigliare, sovente l’insegnamento, il commercio, la produzione industriale, siano occupazioni meno necessarie e meno nobili, che quelle dello straccivendolo, dello spazzino, e della livrea d’anticamera. Ma sulle funzioni non è basato il diritto.
Forse che la sua speciale organizzazione, che la fa soggetta a crisi e peripezie, la rende insuscettibile all’esercizio del diritto?
L’esercizio d’un diritto civile qualunque, non essendo un facchinaggio, potrà sempre esercitarsi dalla donna sana, meglio assai che dall’uomo malato, al quale pur tuttavia non si toglie; il che prova che sull’organizzazione normale non è basato il diritto.
Ma la sua ignoranza, la rende inetta!
Non è possibile negare la coltura di molte donne, più che non sia possibile di disconoscere l’ignoranza di molti uomini. Chi è più colto, della donna che dirige un istituto d’educazione ed il famiglio che guida al pascolo i majali? Ma sulla coltura non è basato il diritto.
Nè si potrebbe obiettare con maggior fortuna, la protezione che l’uomo esercita sulla donna, che abbiamo già visto illusoria, e dalla legge stessa rinnegata ogni qualvolta s’incarica di controllare il marito e di difendere contro di lui la donna. Non l’alimentazione, perchè oggidì la donna contribuisce alle spese della famiglia, sia colla sua dote, sia col suo censo, sia col lavoro personale, sicché la casa che abita non è più casa maritale, ma coniugale. — In quanto poi alla donna maggiore, la questione non ha neppure ragione di posarsi.
Non il mandato, perchè il mandato che il marito tiene dalla moglie, secondo il regime comune, è violentato ed imposto dalla legge, il che gli toglie ogni valore in faccia all’equità. — Anche questa obiezione, per la donna maggiore, non ha ragion d’essere.
Non le molteplici cure della famiglia, perchè non sono queste più assidue che quelle del fabbro che batte dodici ore al giorno sull’incudine, del ministro che ha gli affari di tutto un regno, del soldato che è notte e giorno sotto l’incubo d’una severa e minuta disciplina.
Per me, come per voi e per tutti, il ballerino vale la ballerina, il virtuoso la virtuosa, il sarto val la. modista; non vedo differenza fra il merciaio e la merciaia, fra la fantesca che pulisce la casa e lo. spazzino che scopa la strada, fra il bifolco che guida l’aratro e la contadina che rimonda i grani, fra l’operaio che tesse la tela e l’operaia che l'ordisce; qual differenza, vedete voi fra questi, di funzione, di prodotto, di valor personale? Perchè dunque la ballerina, la virtuosa, la modista, la merciaia, la fantesca, la contadina e l’operaia aver non possono i diritti che si stimano ragionevolissimi e competentissimi al ballerino, al virtuoso, al sarto, al merciaio, allo spazzino, al bifolco ed all’operaio?
Se sulle funzioni, sul prodotto, sul valor personale fosse basato il diritto, ancora non potrebbesi, senza inconseguenza ed ingiustizia, escluderne la donna, che funziona, produce, e rappresenta un valore, come madre, come industriale, come proprietaria. Ma sopra tutto ciò, non è, non fu basato il diritto.
Il diritto è fondato sulla facoltà riconosciuta propria di una data natura; come tale ogni essere d’ogni specie ha diritti suoi proprii.
Nell’essere umano, se la facoltà non è sviluppata, ciò non può essere che per un difetto intrinseco, o per un difetto estrinseco.
Se il difetto è intrinseco, l’individuo è malato, la sua iususcettibilità sia organica, sia accidentale, è una anomalia che nulla toglie al principio del diritto. S’egli non avrà coscienza o potenza d’esercitare il suo diritto, egli non pur cercherà di farlo. Così niuno crederebbe doversi spogliare de’ suoi diritti civili l’alienato di mente. Egli non incorre di fatto che nella sospensione del suo esercizio.
Od il difetto è estrinseco, e l’individuo è allora vittima del cattivo mezzo nel quale ha vissuto: dei provvedimenti che la società, o le persone della natura, o dalla legge delegate, non hanno prese per svilupparlo. Anche in questo caso, benché di fatto egli non sappia esercitarlo, l’anomalia nulla può detrarre al principio generale del diritto. Ora queste riflessioni ci portano naturalmente ad esaminare la donna in faccia al diritto di educazione e di istruzione, riconosciuto siccome diritto morale e giuridico.
Io non dubito punto che, in una società illuminata ed educata al culto del vero e del giusto, basti gettare in mezzo un problema che soluto volga in meglio la sorte di pochi o di molti, perchè tosto divenga la tesi di simpatia per tutte le anime generose, e per voi poi, signore colte e gentili a cui io parlo, un punto, fisso di direzione.
Ebbene, la tesi ch’io vi pongo a tutti, è l’educazione della donna.
La donna ha, come essere umano, diritto morale e giuridico di educazione e di istruzione.
Più, la proprietà femminile paga imposte al par della virile; ma siccome lo Stato non ha per lei educazione pubblica, non scuole tecniche, non ginnasii, non licei, non università; dunque lo Stato è colpevole, verso la donna, di furto.
Come proprietaria e contribuente, ha diritto d’equità, ad educazione assai più solida, ad istruzione assai, più larga, che quella non sia che le è impartita oggidì.
Ed invero, chi oserebbe asserire che vi sia, al dì che corre, per la donna un’educazione, quando non si voglia chiamar tale ciò che in fatti non lo è; voglio dire la reclusione di quattro, sei, otto anni in un convento, cioè in un mondo artificiato, escendo dal quale non si può meglio dirsi educato, di quel che possa chiamarsi acclimatizzata una pianta di papiro in una serra d’Italia?
Chi oserebbe asserire, che v’abbia oggidì per la donna un’istruzione, quando non si voglia chiamar tale ciò che in fatto non lo è, che ci dà, sotto la frase solenne di studii di perfezionamento, poco più che i vocaboli delle scienze che non si insegnano?
Le funzioni dello spirito, dipendendo dallo stato normale degli organi, siccome appunto destinati alla estrinsicazione delle facoltà spiritiche, ne risulta, che lo sviluppo fisico sia un indispensabile preliminare e coadiutore allo sviluppo morale ed intellettivo.
Ora, chi oserebbe asserire, che vi sia per la donna qualche ginnastico esercizio che ne moderi la pusillanimità; o se non altro aria, moto e giuochi, tendenti e sufficenti al suo fisico sviluppo nei suoi istituti e peggio ne’ suoi conventi, quando non si voglia chiamar tale ciò che infatti non lo è; cioè il breve sollazzo, che goder possono le fanciulle sotto il severo e meticoloso cipiglio monacale?
Vivendo quasi recluse con poca aria e meno moto, collo spirito non d’altro pasciuto che di pochi studii mal assortiti, che altro non sono che un dirozzamento: infornate, o meglio sformate ai principii, perchè la metafisica loro è somministrata a larghe dosi in luogo di filosofia: allevate nel Buddismo più assai che al cristianesimo od alla ragione: impossibilitate a farsi un sano criterio per difetto di dati; per formarsi intellettivamente, moralmente e materialmente, non resta loro che di dar fine a questo simulacro di educazione, strano impasto d’elementi impossibili, per cominciarne un’altra, l’educazione del mondo, l’educazione dell’esperienza, l’educazione dell’osservazione, l’educazione insomma della natura; che se lasciata a sè stessa, procede nulla più che a passo di testuggine, ha, se non altro, il vantaggio ed il merito, di mostrar loro gli uomini e le cose quali sono, e non ne falsa il criterio, non ne vincola la ragione, non ne atrofizza il cuore. Qual meraviglia se da siffatta educazione esce la donna incompatibile colla famiglia; qual meraviglia, se avvezza al nebuloso linguaggio metafisico, vi fa gli occhioni sui più semplici dettami della filosofia, e simile ad un cavallo, che tutto adombra, freme e raccapriccia di ciò che non comprende, e s’atterrisce fin della sua ragione?
V’ha poi un altro genere d’educazione per la donna, cioè un altro estremo peggior del primo, ed al quale accennavo sul principio di questo lavoro; il quale, tendendo ad informare la donna al culto dell’opinione, non la educa già, la adorna, e la adorna della diafana superficie di molte, e molto belle cose, ed anzitutto si preoccupa di darle quei talenti, che la faranno meglio ammirare e piacere. L’esposizione è ricchissima, ma non è tale se non perchè tutto il magazzino è sul davanti. Queste donne non sono fatte per loro, sono fabbricate ad altrui uso e consumo.
Qual meraviglia se da una siffatta educazione esce la donna vera nullità e ben tosto demoralizzata; poiché, dopo aver fatto al mondo il sagrificio delle sue facoltà, ed aver aspettato da lui riverentemente la cifra del suo valore, qual altro avvilimento, qual’altra degradazione le è impossibile?
E nell’una educazione e nell’altra la donna non sa che si voglia intendere per progresso, per libertà, per diritto, per lavoro, per associazione, per solidarietà, per principii.
Assorta collo spirito in un’atmosfera, che non è quella del mondo reale, inviluppatavi dal misticismo; oppure non amando che sè stessa, ed idolatrandosi sopra ogni cosa, il mondo avvanza ed ella resta indietro. Vede ella l’agitarsi di tanti uomini e di tante cose senza nulla capirvi; ode nelle discussioni frequenti il cozzo di cento idee: vede nella vita di mille partiti l’urto di contrarii interessi; vede combattersi sulla faccia della terra una titanica lotta; ma il suo spirito, incapace perito di parteggiare, non ne è per nulla curioso; oppur cocciuta conservatrice vorrebbe risuscitare l’impossibile passato.
Ora così non può, non deve camminare la cosa!
Legislatori, occupatevi della educazione della donna! Non vi ostinate nella negazione della giustizia! Si consultino le sue attitudini, si assecondino le sue vocazioni e si applichino. Ella vi ha un diritto morale e giuridico.
Se l’identità del fine tragge con sè identità di dovere, desso suppone altresì identità d’attitudini. Ora ciò tutto costituisce un diritto ingenito ed innegabile, donde un altro diritto, l’applicazione di queste attitudini educate e sviluppate in funzioni adequate e corrispondenti: funzioni che null’altro vieta alla donna che il meschino pregiudizio d’una lunga abitudine d’esclusione, che lei intimidisce dallo aspirarvi, e l’uomo ritraggo e sfiducia dallo affidarle.
L’intelligenza femminile è un terreno vergine ed inesplorato; peggio, è terreno sul quale imperversarono mai sempre ingenerosi i venti degli iracondi interessi, le grandini avvelenate delle satire e dei sarcasmi, le nebbie fitte ed asfisianti dei religiosi terrori a soffocarvi in germi, od a mietervi immatura la spontanea vegetazione.
Ma siccome, in faccia al principio incontrovertibile del diritto, la donna ha diritto all’istruzione; siccome il suo spirito è vocato a progredire; siccome la sua intelligenza si è potentemente svegliata in pochi anni di libera vita; siccome tutti i diritti sono fratelli, e la donna lo capisce generalmente assai bene; siccome la filosofia reclama la donna per riceverne coll’impronta del suo genio un po’ di possibile e di concreto, così voi la vedete, spinta da un impulso fatale, ingombrare infinito numero di istituti e di scuole ansiosa del sapere: e verrà giorno, in cui ella saprà imporsi, poiché saprà informare i suoi figli alle cose nuove, e col suo attivo intervento imprimerà un nuovo impulso alla rivoluzione sociale; poiché ella è sazia delle antiquate dottrine, delle quali voi vi ostinate a rivestire il suo spirito, e che voi già da tempo avete per conto vostro rejette; ella è sazia di fede, e vuole un’po’ di ragione, ed alla sua fame più non bastano le aride bricciole dei vostri banchetti.
Fate posto alla donna e tutto si rifonderà, e si riformerà meglio assai di quel che possiate fare voi pochi e rigorosi atleti del pensiero, che la mente indomita spingete fin nelle nubi, ed ai bassi mortali rimanete pur sempre incompresi, chè in voi ammirano nulla più che sublimi utopie.
Fate posto alla donna, senza di lei l’umanità è incompleta; come spera ella compiere il suo lavoro?
Fate posto alla donna, ed il suo arrivo nella vita sociale sarà il trionfo del diritto, della giustizia e della libertà.
Per la necessaria influenza, che la legislazione esercita sulla opinione, i costumi vi si uniformano e creano delle prevenzioni e dei pregiudizii, che durano imperterriti davanti alla guerra che loro combattono la ragione ed i fatti.
Ora, avendo le leggi tutte, quali più, quali meno, inferiorizzata la donna, questa disistima si estese eziandio alle sue produzioni, benchè la ragione ed i fatti provino tutti i giorni, che il lavoro della donna è nobile, è necessario, è perfetto, quando anche non è identico a quello dell’uomo.
Questa disistima della produzione femminile fa sì, che la donna debba starsene per una misera mercede da mane a sera inchiodata ad un lavoro penoso, non guadagnando talora pur tanto da levarsi la fame.
E negli stabilimenti d’industria e di speculazione non è ella cosa convenuta, che la donna debba al par dell’uomo affaticare e produrre per una mercede essai più scarsa?
Nè si dica, che la donna ha meno bisogni. In regola generale il lavoro dev’essere retribuito in ragione del suo intrinseco valore, e non già in vista del maggior o minor bisogno dell’operaio. Che se amano carità e filantropia largheggiare nella mercede là dov’è urgente e grave il bisogno, vuole la più elementare nozione di giustizia, che l’opera sia retribuita per non meno di quel che vale.
D’altronde, che cosa significa questo che la donna ha meno bisogni?
Quando si tratta di darle l’esercizio d un diritto, allora diventa, la donna, la creatura dai mille bisogni e dalle molteplici esigenze. Allora vengono in campo le frequenti malattie, le perpetue lesioni nervose, le crisi inevitabili, i lunghi squilibri, e si vuol vedere uno stato morboso e patologico perfin nelle leggi puramente fisiologiche, che reggono il suo modo d esistenza, per dimostrarla impotente, non che a muoversi dal suo scanno, neppure a far atto di presenza ad un atto legale di nascita o di matrimonio, sprofondata in un seggiolone.
Ora, questa creatura, che si vuol fragile come una piuma di cigno, diviene, ad un tratto d una potenza erculea per affaticar tutto giorno come l’uomo, e meno di lui retribuirsi. Eh finiamola di contraddirci, e di porre le prevenzioni nostre al posto della natura. Il ricco vuole la donna esile, e tenta persuaderle che è di vetro affinchè, stesa tuttodì su un morbido, sofà, punto non pensi a controllare il governo maritale. L’uomo del popolo persuade alla sua donna ch’ella è vigorosissima, per vivere egli pure del suo lavoro, se accade, come spesso, al marito di amar meglio le gozzoviglie che la fatica.
A meno che non si vogliano calcolare, come altrettanto minor cifra di bisogni nella donna, l’ebbrezza alla quale generalmente l’uomo s’abbandona, ed ella no; il giuoco, vizio che l’uomo generalmente ha, e che la donna generalmente non ha; le frequenti gozzoviglie, che la donna operaia non conosce quasi, e nelle quali l’uomo del popolo affoga spesso il frutto del sudore della settimana, al quale avrebbe la sua famiglia sacrosanto diritto.
Ecco i minori bisogni che ha la donna; ma vi sono poi i maggiori, che tutti si risolvono in economie per il tempo delle malattie, per la stagione priva di lavoro, per le minute provvidenze della casa, delle quali il marito non conosce neppure il nome, per le vesti ai bambini e talvolta ancora il pane a che il padre non pensa, e non è sgraziatamente troppo raro il caso.
Oh voi almeno, mie giovani lettrici, per quell’affetto solidale e fraterno, che deve vincolarvi colle creature del vostro sesso, per quel sentimento di giustizia, ch’esser dovete prime ad applicare dovunque è un diritto da rivendicare; oh, non diminuite mai la mercede alla donna del popolo, che provvede ai vostri agi ed al vostro lusso. Quella moneta, che voi non sottraete al suo lavoro, in luogo d’accrescere un balocco. più o meno elegante sul vostro tavolo, un fiore più o meno sfolgorante nelle vostre treccie, che la natura ha già fatte d’oro e di seta, andrà convertita in pane a saziar la fame d’una mezza dozzina d’angioletti, e si avvolgerà, tramutata in tepida lana, attorno ai loro nudi e tremanti corpicini. Non la trovate voi assai meglio impiegata?
A redimere la donna dalla tirannide di questo ingiusto costume, non v’ha che l’associazione organizzata su larga scala. Vuolsi perciò tentare ogni mezzo a persuadere alla donna del popolo, che l’associazione è moltiplicazione indefinita di potenza, ma che, ad esser feconda in risultati, non deve arrestarsi ad un mutuo soccorso, ma devono le contribuzioni delle associate costituire un fondo da convertirsi in materia prima.
Questa, lavorata poi dalle associate colla massima perfezione, sarebbe esposta alla vendita con prezzi più rilevati dei comuni.
Ciascun membro sarebbe retribuito dalla società secondo il suo lavoro, e dedotte le spese d’acquisto della materia prima, si procederebbe ad epoche periodiche ad un’equa distribuzione degli utili.
E però necessario, che l’associazione si estenda siffattamente in ogni città e provincia che sia impossibile al compratore il provvedersi quei dati generi altrove che nel magazzino della società.
Senza di ciò l’emancipazione industriale della donna operaia resta affatto raccomandata al sentimento d’equità e di giustizia dell’uomo, e che cosa sia in diritto d’aspettarsene ella già sa, volgendo uno sguardo sulla condizione sua in tutti i secoli.
Oltre la miseria ed il bisogno, altre e peggiori conseguenze porta con sè la privazione del diritto industriale nella donna, e queste conseguenze si estendono all’uomo, ed infestano di orride piaghe tutte le generazioni. Già lo dicemmo altrove, la miseria nella donna suona prostituzione.
Parent-Duchâletet attesta, che sopra tre mila creature perdute in Parigi, 35 soltanto erano in istato di poter nutrirsi.
La legge poi, abbandonando alla donna tutte le conseguenze delle seduzioni, aggiunge anche il suo peso al giogo iniquo che già le gravita addosso, ed incoraggia l'uomo, che muove talora atroce guerra alla figlia del popolo.
Sono manufatturieri che seducono le loro compagne d’industria, sono proprietarii e direttori di fabbrica che minacciano il rinvio alla giovine che loro non si abbandona e che, atterrita dal lurido spettro del digiuno, cede, ed è poi messa alla porta; sono padroni che scacciano dalle loro case giovinette disonorate, le quali trovano poi chiuse in faccia tutte le porte e tutti i volti asteggiati a dispregio; e l’impossibilità di onesta sussistenza le fa pendere dubbiose e tremanti fra l’infamia ed il suicidio.
Ed invero, privata la donna del diritto industriale, chiusele davanti tutte le professioni, ridotta a vivere di poche industrie di infima retribuzione, ella è completamente alla discrezione di chi possa fornirle un po’ di lavoro.
Pensa ella bene a siffatta situazione della donna una certa farisaica virtù che, mentre perdona all’uomo l'uso e l’abuso d’una posizione ch’egli si è fatta col merito del muscolo, e lo sciopero ch'egli fa nel vizio delle sostanze e del patrimonio de’ suoi figli, pretende poi, che ogni donna sia una eroina, che si lasci morir di fame anziché cedere alle esigenze del sempre immacolato provocatore?
Dio mio! la società ha dessa un po' di quel viscere che si chiama cuore quando sparge a larghe mani il disprezzo e l’abiezione sulla fanciulla sedotta? Pensa dessa alle lotte tremende col bisogno dall’infelice combattute, alle vigilie frementi e sconsolate, alle lagrime cocenti che precedettero il fallo e lo seguirono, alla vergogna che le soffuso le guancie al solo ricordarlo, eppoi all’abbandono, al disprezzo prima temuto e poscia subito, ai lunghi mesi di sofferenza, al frutto dell’errore a tutto suo carico, se pure non le fu indispensabile lo strazio d’allontanarsi il figlio di tanti dolori per abbandonarlo alla carità cittadina?
Pensa dessa a tutto ciò la società quando, indulgente all’autor primo di tanti mali, apre talora a festeggiarlo le sue sale dorate ed i suoi brillanti convegni, e dovunque lo celebra amabile conquistatore? Ha dessa un cuore la società quando, disconoscendo nella donna il santo diritto di vivere del suo lavoro e non della sua persona, satirizza e chiama il ridicolo sopra uomini generosi che, tutti questi mali vedendo e deplorando, chieggono ad alta voce che si sottragga la metà del genere umano alla tirannia dell’altra; e più non si lasci codardamente la donna inerme bersaglio all’impeto di passioni e d’interessi non suoi, senz’altra difesa che quella d’un eroismo, che l’uomo, sovente schiavo incatenato d’ogni depravato istinto, è ben lungi dall’esser in diritto d’esigere da una creatura di lui già ben assai migliore?
Ha dessa la società un bricciolo di quel sentimento d’equità e di giustizia di cui pur mena tanto, scalpore, quando, mentre propugna per l’uomo libertà, e domanda assiduamente attività di commercio, circolazione di danaro, dilatazione del diritto, e freme e scalpita se l’ombra sola d’un dispotismo mostra di volerlo ledere in qualche parte; si fa poi lecito di menar colpi da orbo attraverso alla donna che, dopo avere con ogni sacrificio ed entusiasmo favoreggiato tutte le libertà, cerca ora la sua? Avendo la donna al par dell’uomo speciali attitudini, ha al par dell’uomo altresì diritto di svilupparle ed applicarle; questo c’insegna il principio del diritto ingenito. Vi ha diritto perchè, avendo diritto al lavoro, in lei sola sta la scelta del suo lavoro: vi ha diritto perchè praticamente e realmente ella lavora e produce; e nella industria e nel commercio, e nelle arti e nello insegnamento ella trovasi già su larga scala, e spiega a quest’ora delle attitudini, che si avrebbe forse avuto, non ha molto tempo, prurito di negarle. Vi ha diritto finalmente, perchè la società alla sua volta ha diritto, che la funzione venga esercitata da chi può meglio; e però, se fra più concorrenti, una donna mostra maggior idoneità, ella fra tutti vi ha diritto.
Le siano dunque aperte le professioni, come già le furono aperte, benchè in troppo angusto confine, le industrie; e trovi la donna del popolo, pane, e la donna colta, ma disagiata, onesto e decoroso guadagno.
Fra le professioni, delle quali la donna sente e reclama con maggior calore la facoltà di esercizio, trovasi in primo luogo la medicina.
È tempo veramente, ch’ella respinga assolutamente questa tirannica inquisizione virile sopra il suo corpo, e si pronunci energicamente sopra questo perpetuo oltraggio, che si fa al suo pudore.
La facoltà medica già esercìta nell’America del nord dalla donna verso la donna e verso l’infanzia, dà a quest’ora dei risultati, dei quali quelle popolazioni si applaudono; e non v’ha ragione perchè si debba negare in Europa, dove valenti scrittori dell’uno e dell’altro sesso si sono pronunciati sull’equità e sui vantaggi di questo provvedimento.
La donna fa ed è sempre considerata come fuor della legge, coll’aiuto della sua debolezza ehe si ha ogni studio ed ingegno di esagerare fino al ridicolo, e coll’opportuna messa in iscena della sua pretesa incapacità, a smentire la quale sorgono dovunque invano splendidi fatti.
Indarno la prosperità di mille case di commercio, di mille stabilimenti industriali attestano ed affermano i suoi talenti finanziarii ed amministrativi.
Indarno le mille e multiformi produzioni del suo spirito fanno fede della svegliatezza e fecondità del suo ingegno.
Invano regine e principesse, le cui splendide e recenti gesta non sono ad alcuno ignote, con saggio governo e con ogni forma di politico reggimento felicitando i popoli, e prosperando le sorti delle nazioni loro affidate, fecero e fanno fede dei talenti politici della donna.
Indarno si odono tuttodì donne del popolo, coi loro schietti parlari, rivelarsi calde parteggiatrici, e darci della loro politica intelligenza una misura che non ci aspettavamo.
L’opinione, o meglio la prevenzione pubblica, alla quale ornai non si può levar taccia di mala fede, si copre gli occhi, si tura le orecchie e ripete imperterrita: la donna è incapace.
Ora, se si può vincere il pregiudizio, la mala fede non si vince; ma rimarrà pur sempre vero che, essendo il diritto politico (non mi fermerò a discutere se con torto o con ragione) fondate sulla proprietà, ed essendo riconosciuta, affermata e sopratutto aggravata la proprietà femminile al par della maschile, la donna è dalla legge una volta ancora lesa e violentata.
Non bisognava imporre alla donna una dote per maritarsi, non bisognava obbligarla al lavoro per mantenersi, non bisognava che ogni Adamo del secolo decimonono scaricasse addosso alla sua rispettiva Eva metà, e talora tutto il peso della sua condanna, ed allora si avrebbe potuto negarle la proprietà, che non può essere che prodotto del lavoro; è con quella e con questo, a monte i diritti civili, a monte i diritti industriali, a monte i diritti politici; e la dinastia virile sarebbe stata felicemente regnante fino alla consumazione dei secoli.
Questa verità viddero i moderni novatori, epperò gli amici della donna le dicono, lavora; e gli avversari della sua redenzione si sbracciano a predicarle, ch’ella è di vetro e che arrischia di rompersi, muovendo un dito.
Fortunatamente Proudhon, grande nemico della libertà femminile, arrivò troppo tardi ad avvertire i suoi compagni che il lavoro è il grande emancipatore.
Gli uomini spostarono volontariamente il primo bottone, bisogna ora forzatamente spostar tutti gli altri; essi bevvero al calice oppiato dell’indolenza, bisogna subirne le conseguenze, e bere fino alla feccia. Essi hanno abdicato il dovere, epperò rinunciato il diritto.
Oggi la donna è produttrice, proprietaria e contribuente; laonde al legislatore, che voglia salvar capra e cavoli, e non concedere alla donna il diritto elettorale, nè l’istruzione, non resta per isdebitarsi in faccia alla giustizia, che un solo ripiego, levare le contribuzioni alla proprietà femminile.
Certi spiriti piccoli, ed incapaci di elevarsi fino agli incontrastabili principii della giustizia, sorridono di stupida sorpresa ad ogni idea, che loro giunga d’oltre la angusta cerchia abituale delle loro menti; ma siccome non è d’obbligo, la Dio grazie, nè la loro licenza, e tanto meno il loro intervento per rivoluzionare così nell’ordine delle idee, come in quello dei fatti; così, con loro buona pace, il movimento emancipatore della donna, che ebbe ad iniziatori altissime individualità dell’uno e dell’altro sesso, non potrà assopirsi e neppure arrestarsi, meglio di quel che si possa por argine al torrente precipitoso ed irrompente del principio delle nazionalità.
È il logico corollario delle nuove idee, che si son poste in circolazione negli umani cervelli; bisogna subirlo.
D’altronde, l’uomo e la donna non furono mai così perfettamente d’accordo come oggidì. Nè l’uno nè l’altra credono più a nessun diritto divino, nè a nessun monarchismo che non sia voluto dal libero suffragio dei governati.