L'ombra del passato/Parte I/Capitolo VI

Capitolo VI

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VI.

Un giorno finalmente Adone potè andare a scuola a Viadana. Lo accompagnava la sua mamma, che doveva presentarlo al maestro e al direttore delle scuole.

Era una mattina di ottobre, fresca e nebbiosa. Nella fretta di partire, Adone aveva mangiato appena una fetta di polenta, e a metà strada sentiva già quasi fame. Ma che importava la fame, il freddo, la nebbia? Egli camminava zufolando, con le mani in tasca, un quadernetto e il libro della terza elementare sotto il braccio: e gli pareva di andare alla conquista del mondo.

Attraverso la nebbia che si diradava, scorgevasi vagamente il fiume argenteo: qua e là qualche albero completamente giallo appariva come una fiamma in mezzo al fumo.

Egli ricordava il viaggio sotto il mantello dello zio, il sacchettino pieno di monete, la promessa del gigante. Come era stato felice, quel giorno. Ma ora si sentiva più felice ancora: gli pareva di aver raggiunto il più bel sogno della sua vita. Non aveva più bisogno di essere coperto dal mantello, [p. 92 modifica]lui! E dei soldi non sapeva che farsene. Non occorrono soldi per frequentare la scuola!

— Vero, mamma? — domandò, seguendo il filo dei suoi secreti pensieri.

La mamma camminava svelta, eoi suo fazzoletto giallo in testa, e le scarpe vecchie regalatele dalla sorella del prevosto.

— Vero, si spende poco per andare a scuola? Che cosa si spónde? Niente.

— Più in là, sì, caro il mio omino: se andrai a Cremona o a Padova dovrai spendere. Ma la Tognina, speriamo, tirerà fuori i soldi.

— Speriamo, — disse Adone, ma diventò pensieroso.

Arrivati a Viadana andarono dal direttore delle scuole, che li accolse benevolmente. Era un vecchio prete, appassionato suonatore d’organo, molto amico del prevosto di Casalino, la cui sorella gli aveva già parlato di Adone. Egli fissò gli occhi un po’ vitrei negli occhi luminosi del ragazzetto.

— Va bene, va bene, — disse, agitando le lunghe dita sottili. — Gli occhi promettono bene. Sai a che servono gli occhi?

— Per vedere, — rispose pronto lo scolaretto.

— Bravo, bravo; ma anche per rivelare i nostri pensieri: sono le finestre della nostra anima.

— È per questo che i suoi sembrano di vetro, — osservò la mamma, quando furono nella strada. — Cosa vanno a dire, questi omon!

Gli omoni, per lei, erano i grandi uomini. Ma Adone, sempre più pensieroso, le insegnò: [p. 93 modifica]

— Eh, è così, per modo di dire!

Anche il maestro, biondo e grasso come un signorone, accolse benevolmente la povera donna e il nuovo scolaro. Anche lui fu colpito dagli occhi di Adone.

— Intelligente sei, — disse, battendogli una mano sulla testa. — Speriamo avrai anche buona volontà!

Nonostante queste lodi lo scolaretto rimase pensieroso e quasi triste durante tutto il tempo della scuola. Il maestro gli aveva detto che bisognava comprare il libro di lettura, almeno: come fare, se la Tognina non voleva spendere? Poveretta, se comprava i libri non poteva pagare i tributi!

Al ritorno egli passò dalla mamma: aveva una fame terribile, e gli pareva di non poter arrivare fino alla casa della zia. Per fortuna la mamma lo aspettava e gli aveva preparato una piccola focaccia ch’egli divorò avidamente, seduto sullo scalino della porta. I fratellini lo guardavano con invidia. Ottavio raccattò un pezzetto di focaccia, caduto per terra, e lo mangiò senza neppure pulirlo. Adone pensava al suo avvenire, a quando sarebbe stato maestro e avrebbe potuto aiutare i suoi poveri fratellini.

Intanto bisognava pensare ai libri. La mamma ripeteva:

— Speriamo che la Tognina li compri.

Ma egli non sperava: tuttavia disse:

— Ci penserò io!

Ritornò a casa e cercò ancora da mangiare. Non gli avevano lasciato niente; o meglio, la zia Elena [p. 94 modifica]gli disse che gli avevano lasciato un po’ di minestra, ma che Fiorello poi se l’aveva mangiata. Adone protestò, ma dovette contentarsi d’un pezzetto di polenta fredda. E andò in cerca di Tognina per parlarle dei libri.

La donnina stava poco bene: aveva un forte dolore a un ginocchio, e non poteva muovere un braccio. Quando vide il nipotino lo guardò coi suoi piccoli occhi indifferenti, ed egli non ebbe il coraggio di domandarle i denari.

L’indomani mattina egli s’alzò più presto del solito, scese nell’aja e andò nel pollaio. Per paura che anche quel giorno non gli lasciassero da mangiare, prese due uova e le mise in lasca: e di là le due uova emigrarono nella famosa cesta dei tesori.

Entro la cesta v’era una scatola: egli la prese e l’aprì delicatamente: ne saltò fuori un’altra scatola, e da questa un’altra più piccola ancora. Egli avvolse quest’ultima in un foglio di carta gialla e si avviò: il misterioso involtino pareva lo stesso che lo aveva accompagliato nell’isola deserta.

Sempre nebbia: ma era una nebbia leggera, attraverso la quale si scorgeva il cielo pallido e lontano. Passando davanti al cancello Dargenti, Adone, per quanta fretta avesse, si fermò stupito. Egli non aveva mai neppure immaginato che quel cancello venisse un giorno aperto: e invece lo era.

Chi l’aveva aperto? Un ladro, forse? Egli fu tentato di penetrare nel giardino, ma ebbe paura: non sapeva se del ladro o di Jusfin. Nel viale [p. 95 modifica]l’erba ora calpestata: pareva ci fossero passati dei cavalli.

Adone palpitava di curiosità ma anche per un vago timore: l’incantesimo che prima avvolgeva il parco e il palazzo si era improvvisamente rotto, restava a sapere per quale misterioso comando.

Altri pensieri lo urgevano; altrimenti egli avrebbe finito col penetrare nel giardino; ma era tardi, bisognava affrettarsi, pensare ai propri affari.

A metà strada, verso Casale, raggiunse tre ragazzetti di questo paese, che andavano anch’essi a scuola a Viadana. Due, grossi e bruni, mal vestiti, parevano due fratelli, evidentemente poveri; il terzo Adone lo aveva già veduto nella sua classe. Era un biondino, pallido, col nasino lungo affilato: vestiva signorilmente, aveva le scarpe gialle e le calze rosse.

Tutti e tre discutevano se dovevano o no fermarsi da Belluss, un uomo che aveva un casolare poco distante dall’argine e vendeva liquori e frutta ai passanti.

— Altro! — diceva il biondino dalle calze rosse, facendo saltare in aria e riprendendo fra le mani una monetina da due centesimi. — Voglio anzi bere l’acquavite.

Arrivati al casolare si fermarono. Adone ricordò d’essere più di una volta entrato là con lo zio, e senza saper perchè seguì i tre scolaretti. I due fratelli comprarono in società un soldo di castagne secche. Il biondino volle a tutti i costi l’acquavite: ma appena l’ebbe assaggiata fece una smorfia e sputò. [p. 96 modifica]

Il padrone del casolare, un buon omaccione rosso tutto pancia, guardò coi suoi grandi occhi azzurri sporgenti il quarto ragazzetto, quasi per domandargli se non prendeva niente.

Adone arrossi, ma sporse con orgoglio il suo involtino:

— Ho quaranta soldi, qui, io: ma servono per il libro di scuola.

— Tu sei il nipote di Giovanni La Pioppa? domandò l’uomo, riconoscendolo. — E come sta la Tognina?

— Bene. No, ha dolore a un ginocchio.

— Ah! i suoi soliti dolori! Dille che strofini il ginocchio con un po’ d’olio caldo. Tò, prendi.

Gli diede un pugno di castagne secche, ed egli arrossì ancora, ma neppure ringraziò.

Fece il resto della strada coi tre scolaretti di Casale, e il biondino gli domandò:

— Siete amici, con Belluss?

— Sì, — egli rispose, dandosi dell’importanza. — Siamo amici. Ho molti amici, io. Conosco anche Davide del Nin.

E si meravigliò che gli altri non lo conoscessero, almeno di nome.

— Ora è partito; è andato a Milano, ed ha promesso di scrivermi. È un bell’uomo, alto, con la cravatta nera e i capelli lunghi: e sa tante lingue. Anche il francese.

— Anche mio zio il tenente sa il francese, disse il biondino. — Ed è bello, poi!

— Com’è, tuo zio? [p. 97 modifica]

— Alto alto, con gli occhi piccoli e neri.

— Davide invece ha gli occhi grandi: son più belli. Dev’essere più bello di tuo zio.

— Sì, perchè lo dici tu!

Cominciarono a discutere animatamente, a proposito di occhi grandi e piccoli: a momenti si azzuffavano. Fortunatamente uno dei due ragazzetti bruni, finito che ebbe di masticare una castagna durissima, espresse la sua opinione.

— Gli occhietti piccoli sono più belli perchè sembrano gli occhi del sorcino.

Gli altri cominciarono a ridere pazzamente, beffandosi del ragazzetto.

— Oh, oh, gli occhi del sorcino! Son belli gli occhi del sorcino! Oh, oh!

Anche al ritorno i quattro ragazzetti si ritrovarono per istrada e andarono assieme fino a Casale. Adone se la intese specialmente col biondino, o meglio discusse animatamente con lui, mentre i due fratelli si indugiavano a buttare sassolini entro i fossi, o a contemplare qualche grappolino d’uva violacea che rimaneva ancora sulle viti spoglie.

Adone non aveva più con sè rinvoltino, dal quale si era separato a malincuore. Ma non importava: era fiero d’esser stato uno dei primi a portare i soldi al maestro, che s’incaricava di comprare il libro.

Rivedeva la figura bonaria e allegra del maestro, e il sorriso col quale egli l’aveva guardato mentre svolgeva il pacchettino. [p. 98 modifica]

— Tutte palanche? E come son vecchie! Sembrano monete del tempo dei Faraoni. E che tua zia ha i suoi tesori tutti in palanche?

Adone non sorrise, non arrossì: non disse che la piccola somma gli apparteneva, raccolta pazientemente soldo per soldo, da mesi e mesi, e che aveva sognato di poter viaggiare attraverso il mondo munito di quel piccolo tesoro. Dieci per dieci contò i soldi, fino a quaranta.

— Basta, basta! Bene, bene! — disse il maestro, dandogli indietro dieci soldi.

Ed egli mise in tasca le care palanchine, pensando al modo di farle moltiplicare ancora. La scatolina la regalò al maestro, in segno di riconoscenza.

— Anche io ho uno zio a Roma, — disse al biondino, seguendo il fiio dei suoi segreti pensieri.

— Quello lì è buono, sì! Un giorno o l’altro, se mi pare, vado a trovarlo. È ricco, sai, è impiegato: è anche cavaliere.

— E i soldi per il viaggio chi te li dà? — domandò l’altro, invidioso.

— Eh, lo so io! C’è una persona che sempre mi manda di nascosto a vender le uova e altre cose, e mi dà sempre qualche soldo.

— E chi è questa persona?

Adone non pronunziò il nome di Carissima, la quale prendeva spesso le uova dal pollajo di Tognina e il frumento dal sacco di Pirloccia: no, aveva giurato il segreto, e non poteva parlare.

— Che t’importa? Una persona! [p. 99 modifica]

— Tu non hai padre, vero?

— Io no. E tu?

— Io sì. Il mio babbo è tintore: eppoi è anche organista ed è amico del direttore. Perciò avrò buoni punti, all’esame.

— E anch’io avrò buoni punti, se voglio, — rimbeccò Adone. — Studierò giorno e notte, giorno e notte...

— E diventerai cieco, allora!

— Ho certi occhioni io, caro mio! — disse Adone, spalancando i suoi begli occhi luminosi. — Non diventerò mai cieco, io! E se no metto gli occhiali, come qualche volta fa Davide. Ti ho detto chi è Davide, il mio amico. Io avevo soggezione di lui, prima. Ma una sera io volevo scappare, perchè mio zio mi aveva bastonato. Vado, ma quel maledetto di Pigoss mi lascia nell’isola. Ed ecco che passava Davide, pescando. Appena mi vide mi prese con sè, e si mise a cantare. Io non ho mai sentito una voce più bella della sua: cantava una bella canzonetta... così... aspetta... non ricordo più... Era così bella!

— Così? Iho! Ihoo!... — disse il biondino invidioso, rifacendo il raglio dell’asino.

— Ma va là! Una bella voce, ti dico! — gridò Adone, arrabbiandosi. Poi si calmò, abbassò la voce, riprese a raccontare: — Al ritorno Davide m’invitò a cena; poi il giorno dopo mi condusse ancora con sè; e ogni volta che andava in barca mi chiamava. Io gli dissi che prima mi vergognavo di guardarlo. Ed egli mi disse una volta che tutti [p. 100 modifica]gli uomini sono eguali, anche i grandi coi piccoli. Solo, i grandi qualche volta possono dare qualche schiaffo ai piccoli, quando questi fanno i cattivi.

— A me nessuno ha mai dato schiaffi! — si vantò il biondino. — Mia madre piange se mio padre mi sgrida.

— E così non diventerai mai bravo!

— Sì? Diventerò più bravo di te, invece!

Nonostante questi battibecchi, i due scolari, arrivati al viottolo che conduceva dall’argine al paese, si lasciarono promettendosi di ritrovarsi all’indomani.

— Tu, quando passi qui mi chiami a voce alta: se sono indietro, mi aspetterai.

— E tu mi risponderai?

— Sì. Come devo chiamare?

— Adone. E io?

— E tu Marco.

Dopo un momento Adone si sentì chiamare dal viottolo.

— Adoneee!

— Marcooo!

— Addio!

— Addio! [p. 101 modifica]

Questa volta Adone non passò in casa della sua mamma. Aveva fretta di arrivare davanti al cancello Dargenti. I soldi dati al maestro, l’incontro con Marco, le castagne di Belluss, la scuola, insomma tutti gli avvenimenti della giornata, gli avevano fatto dimenticare il cancello aperto; ma ora, attraversando il viottolo, non pensava ad altro. Si mise a correre, arrivò ansando, ma provò una delusione: il cancello era chiuso. Ma sull’erba ora si notavano alcune chiazze bianche, come di calce; e molte finestre del palazzo erano aperte.

Nonostante la fame che lo illanguidiva, egli rimase a lungo attaccato ai ferri del cancello. Che accadeva lassù, dentro il palazzo, sul quale i grandi alberi cupi stendevano le loro chiome unite, simili ad una nuvola verde?

A un tratto egli trasalì. Una figura passava e ripassava dietro quelle finestre. Era una figura strana, vestita d’un camiciotto giallo e con un berrettino di carta verde sui capelli biondi.

Ma una volta la figura strana si volse: Adone vide un volto conosciuto, due pomelli rossi sporgenti, due baffi giallastri su una bocca ironica. Riconobbe Candido il muratore. [p. 102 modifica]

— Candido! Candidooo! — cominciò a gridare.

Finalmente il berettino verde si sporse da una delle finestre.

— Olà, che c’è?

— Di’, Candido, che fai?

— Ma va da Meoli a farti indorare...

Le voci si perdevano nel silenzio del giardino abbandonato, dove l’erba alta tremolava al soffio leggero del vento. Alcuni steli, sull’orlo del viale, si curvavano sull’erba calpestata, e pareva le domandassero chi le aveva fatto tanto male e tremassero timorosi anch’essi d’un ignoto pericolo. Che accadeva? Chi veniva a turbare la pace solitaria del luogo?

Adone decise finalmente d’andarsene: e appena rientrato cercò da mangiare. Trovò la minestra e la mandò giù avidamente; trovò un pezzo di burro e lo divorò; cercò ancora e fece sparire tutto quello che trovò. Di solito a quell’ora la cucina era deserta. I ragazzi lavoravano nella camera bassa, dove era stata aperta una finestra verso il cortiletto; Carissima lavorava e cantava nell’atrio.

Quando fu sazio egli salì dalla zia che stava nella sua camera, sepolta fra le sue sedie antiche e i suoi vasi di conserva. E le diede la gran notizia:

— Sai che al palazzo Dargenti c’è gente?

— Di già? — disse la donnina, con la sua voce indifferente. — Dicono l’abbia comprato una signora vecchia, di Parma. L’hai veduta?

— Una signora vecchia, vecchia? No, ho veduto Candido. [p. 103 modifica]

— Solo?

— Ho veduto anche Belluss, che mi ha dato un pugno di castagne. Ha detto, anche, di strofinarti il ginocchio con l’olio caldo. Devo farlo io?

— Oh, no, è inutile. Tutto è inutile! — ella disse con tristezza. — Ma dove l’hai veduto. Belluss? Al palazzo Dargenti?

— Ma che dici, zia? — egli gridò, ridendo.

E s’aggirò per la camera, guardando i vasi sul camino e passando il dito sulla stoffa delle sedie: desiderava che la zia lo interrogasse sulla scuola, il maestro, i compagni; ma ella pareva ignorasse ch’egli andava a scuola e avesse un maestro e dei compagni. Ella pensava ai suoi dolori reumatici: tutto il resto le era indifferente. Le novità del palazzo Dargenti dovevano essere ben straordinarie se riuscivano ad interessarla fugacemente.

— Forse Sison sa qualche cosa, — disse Adone, ricordandosi. — Jusfin deve avergli detto qualche cosa.

E corse ad informarsi. Mentre passava nell’atrio disse a Carissima!

— Sai, al palazzo Dargenti viene a stare una signora di Parma, vecchia, vecchia.

— Ora, che comincia il freddo? — esclamò la sarta, senza smettere di cucire a macchina.

— Sì, sì, proprio ora! C’è Candido che pulisce il palazzo.

— Allora sta attento, quando arriva la signora, — disse Carissima, abbassando la voce. — Porteremo là le uova. [p. 104 modifica]

Egli ricordò le due uova nascoste nella cesta: si potevano vendere anche quelle, fra le altre: era anche un buon pretesto per penetrare nel giardino Dargenti. E andò dal cordaio: ma la porta di Sison era chiusa, l’aja deserta.

Allora Adone andò dal zolfanellajo: l’ometto lavorava nel piccolo atrio, perchè nell’aja c’era già fresco: e da qualche tempo in qua egli aveva una tosse ostinata che lo rendeva più debole e melanconico del solito.

— Però se dobbiamo morire sia fatta la volontà del Signore, — egli diceva a sua moglie, quando Adone entrò. — Riguardo al morire siamo tutti eguali: ah, lì non c’è differenza, veh, proprio no!

— È il freddo, è il freddo che ti fa tossire, riprese la donna con voce monotona. — Davide dice che v’è un paese caldo anche d’inverno: lì, bisognerebbe andare.

— Sì, — affermò Adone, prendendo il gatto fra le braccia, — in America fa caldo, quando qui è freddo; si legge nel libro ed è la verità.

Poi, mentre il gatto gli leccava un dito ancora unto di burro, egli aggiunse pensieroso:

— E chi sarà la vecchia che verrà al palazzo Dargenti?

— Una vecchia? Al palazzo Dargenti?

— Sì, sì, di Parma: vecchia, vecchia.

— Sarà la veccia corna!1 — disse allora il zolfanellajo. Adone rise così forte che il gatto scappò. [p. 105 modifica]L’ometto ricordò che Jusfin, pochi giorni prima, aveva detto al cordaio che il palazzo e il parco dovevano andare all’asta. Jusfin era molto abbattuto e triste, in quei giorni. Il suo ultimo padrone, Carlino Dargenti, era gravemente ammalato, in una città lontana.

Nissa, mi pare.

— Nizza: è una città della Francia, — corresse Adone.

Sì, Carlino Dargenti era gravemente malato: il zolfanellajo si ricordava benissimo di questo giovine bello e spensierato, che una volta aveva portato la sua sposa a Casalino. Dopo non si erano veduti più. La sposa, molto più vecchia di lui, era morta qualche anno prima.

— Ah, ecco, deve essere la suocera, che compra il palazzo. Jusfin dice che è una signora molto vecchia, quasi cieca, quasi sorda, quasi...

— Quasi morta, allora! — disse la zolfanellaja.

Appagata alquanto la sua curiosità, Adone parlò degli avvenimenti della giornata. Riferì le questioni avute con Marco.

— Gli ho detto che Davide è bello, che ha i capelli lunghi, gli occhi belli. Non è vero?

— Belli, belli! — esclamò la matrigna, convinta.

— Lui rideva, quell’asino di Marco! Dice che il suo zio tenente è più bello. Che roba! Che dite voi, Nin?

Il zolfanellajo tossì, fece una smorfia, ma non rispose. La donna, invece, ricordò i discorsi di Davide, a proposito di militari. Un tenente? Ella [p. 106 modifica]non aveva mai veduto un tenente; ma sapeva che i militari pregano che venga la guerra perchè il loro mestiere è quello d’andare alla guerra. Sono cattivi, dunque: vorrebbero far morire la gente.

— Che roba, che roba, Dio mio! Paragonare Davide a un tenente! — disse Adone, giungendo le mani, e gettando la testa all’indietro. — Che ridere, Dio mio!

Ma non rideva. No. anch’egli non aveva mai visto un tenente, ma bastavano le parole di Davide, riferite dalla matrigna, perchè anch’egli, per far dispetto a Marco e dimenticando le lezioni del maestro di Casalino, deridesse, disprezzasse e temesse i «militari».

Più tardi egli andò da Sison, per sapere qualche cosa circa la misteriosa vecchia del palazzo Dargenti: ma il cordaio non era in casa e Andromaca non sapeva nulla.

— Andiamo a vedere, — ella disse, punta dalla curiosità.

Andarono assieme: anzi Adone le si attaccò al braccio e non volle più lasciarla.

Attraversarono la strada, giunsero al cancello. Era chiuso. Il prato della chiesa era deserto: dal viottolo però si avanzava fino il figlio del caser, il bel giovinotto roseo, dai grandi occhi neri e i denti così bianchi che si vedevano da lontano. Scorgendo Andromaca, anch’egli si avvicinò al cancello.

— Che guardate? — domandò, cingendo con un braccio la vita della fanciulla. [p. 107 modifica]

— Adone dice che ci deve venire a stare una vecchia. Non si vede nessuno, però.

— Ah, una vecchia! Forse il prevosto sa qualche cosa. Va a domandare, Adone.

Mì no, mì no, — disse Adone. — Ogni volta che mi vede il prevosto mi tira le orecchie.

Stettero ancora a guardare: Pino stringeva Andromaca, e quasi le sfiorava la guancia con la sua guancia. Arrampicato sul cancello Adone guardava e chiacchierava, convinto che gli altri due s’interessavano molto alle ipotesi che egli faceva.

Il sole era tramontato. Sui grandi alberi del parco cominciava a stendersi un velo di nebbia; l’erba umida odorava. Nel silenzio del luogo solo la voce e le risate di Adone vibravano argentine. A un tratto però anche Andromaca emise un piccolo strillo, poi rise, scuotendosi tutta e cercando di sfuggire al braccio che la teneva stretta al cancello. Adone si voltò. Vide che Pino sorrideva in modo strano, mostrando tutti i suoi bei denti e fissando gli occhi negli occhi della fanciulla. E lei rideva, si scuoteva, ma lo guardava nello stesso modo. E pareva che entrambi non vedessero più lo scolaretto. Ma egli provò un impeto di gelosia, e volle difendere la fanciulla.

- Ohè, che fai? Lasciala! — gridò al giovinotto. — Non voglio che la tocchi.

I due risero, ma continuarono a guardarsi. Ed egli, non seppe perchè, senti caldo alla faccia e alle orecchie. E dimenticò persino la vecchia che doveva venire ad abitare il palazzo Dargenti. [p. 108 modifica]

E la vecchia, per quell’anno, non si lasciò vedere. Ma dopo qualche tempo tutti seppero chi era. Era proprio la marchesa Pigozzi, la suocera dell’ultimo Dargenti, una vecchia molto severa, molto ricca, che dopo aver lasciato morire quasi nella miseria il genero vizioso, ne aveva pagato i debiti e riscattato il patrimonio. Durante quel l’autunno il palazzo fu riattato, ma nessuno venne ad abitarlo. Ogni volta che Adone si fermava a guardare attraverso il cancello, vedeva passare e ripassare, nel vano delle finestre spalancate, la figura gialla e svelta di Candido, la figura grave e bruna del vecchio fabbro, la figurina scialba del falegname, bionda come la segatura delle sue assi; vedeva nel viale i mucchi della calce e della sabbia, sull’ erba le traccie dei passi degli operai, e qualche volta pensava di entrare, di soddisfare la sua antica curiosità, ma non osava, o meglio non voleva. Non era più il bambino curioso e fantastico di una volta: era un ragazzo, uno scolaro, uno studente, anzi, come si firmava sulla copertina dei suoi quaderni:

DE MARCHI ADONE
di casalino
studente
d'anni undici, due mesi e qualche cosa

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D’altronde quel viale imbrattato di calce, quell’erba calpestata, quelle finestre aperte, animate dalle figure note degli operai, non lo seducevano più tanto.

Il mistero cadeva: il palazzo Dargenti diventava una casa come tutte le altre; più grande, più bella, ma non più misteriosa. Il parco, avvolto di nebbia, silenzioso e freddo, tentava ancora la fantasia di Adone, ma egli rimandava di giorno in giorno il progetto di penetrarvi. Avrebbe voluto trovarsi un compagno, per questo viaggio dì esplorazione, perchè, bisogna dirlo subito, egli aveva ancora una vaga paura d’inoltrarvisi solo. Paura di che? Non sapeva: ma aveva paura. Non si sa mai. Jusfin raccontava che un tempo i Dargenti tenevano nel parco una quantità di bestie strane: cervi con le corna che parevano rami; cinghiali dai denti enormi. E se qualcuna di queste bestie viveva ancora? Bastava darle una bastonata, è vero, ma sempre meglio in compagnia di un amico.

Adone invitava Marco ad accompagnarlo nella sua progettata esplorazione: ma il biondino aveva capito che c’era qualche pericolo da superare, ed esitava. Era un ragazzetto prudente, Marco: freddo, indolente, dispettoso, ma prudente.

Tutti i giorni, oramai, i due compagni di scuola si ritrovavano nella strada fra Casale e Viadana; e facevano il viaggio assieme, bisticciandosi e pur volendosi bene.

Diventarono inseparabili. Altri ragazzetti della loro età li precedevano o li seguivano, e [p. 110 modifica]cercavano di unirsi a loro, e non riuscendovi li molestavano continuamente. Adone e Marco si beffavano di tutto e di tutti: forti della loro amicizia, respingevano le lusinghe e gli attacchi, rifiutavano la compagnia degli altri scolaretti.

Avevano bisogno di esser soli per discutere meglio, e litigare comodamente. Parlavano quasi sempre dei loro parenti e delle cose che possedevano i loro parenti: e ciascuno vantava la sua roba. Adone però non si scaldava troppo: parlava senza convinzione. Quando si trattava però di lodare la chiesa del suo paese, la torre, il prato, il palazzo Dargenti o Davide del Min non ammetteva repliche.

— La nostra torre è più alta: sì, è più alta della vostra: cento metri di più.

— Sì, perchè lo dici tu! La nostra è più alta; l’ha detto persino il prevosto. Eppoi c’è anche la poesia, per la nostra torre; sì, aspetta, te la dico subito. — E la inventava lui:

             La torre di Casale
             Chi la scende e chi la sale.

Adone sollevava il viso al cielo e rideva.

— Che roba, Dio mio! Roba da ridere. La nostra torre, ti dico, è più alta, più alta e più alta! Mille metri più alta.

— Se non la finisci li do uno schiaffone.

— Prova un po’!

Qualche volta deponevano i libri per terra e si azzuffavano. Ma questo non impediva che [p. 111 modifica]rifacessero subito pace e riprendessero le loro discussioni.

Adone parlava spesso di Davide: ne parlava con tale entusiasmo che a poco a poco Marco si lasciava suggestionare e pensava allo studente come ad un essere meraviglioso. Un giorno disse:

— Quando tornerà ancora, questo tuo Davide, verrò anch’io a pescare con voi.

— Vedrai, vedrai! E sentirai come canta! Se poi tuo padre ti bastona dillo a lui, e vedrai...

Ma non c’era pericolo. Il padre di Marco adorava il suo unico figliuolo e pensava a tutt’altro che a bastonarlo. Lo mandava ben vestito, ben calzato, ben nutrito, e tutte le mattine gli dava un soldo perchè si comprasse qualche cosa da Belluss.

Tutti gli scolaretti facevano tappa al casolare; e l’omone dai grandi occhi celesti, ora che il freddo diventava intenso, accendeva tutti i giorni un mucchio di segatura perchè i piccoli clienti intirizziti potessero scaldarsi.

Dalla finestra della vasta cucina giallognola si scorgeva il paesaggio nebbioso. I ragazzi, quasi tutti poveri, coi visini rossi di freddo, erano infagottati in modo ridicolo e pittoresco; Adone spariva entro un mantello grigiastro dello zio morto, e aveva in testa un berrettino di pelo, di misteriosa provenienza. Per quanto raccorciato, il mantello sfiorava il suolo e aveva i lembi orluti di fango, ed era anche rattoppato, ragione per cui Marco diceva che Adone col suo tabarro sembrava una [p. 112 modifica]capanna con la porta e la finestra chiuse. E Adone qualche volta si vergognava del suo mantello, ma se lo teneva caro perchè gli faceva caldo.

Il tempo passava. L’inverno rigidissimo copri con le sue nebbie e le sue nevi l’immensa pianura. Sul palazzo Dargenti, nuovamente chiuso, i grandi alberi, coperti di neve, vigilavano come fantasmi: tutto era silenzio e desolazione.

Molta gente si ammalò quell’inverno a Casalino. La Tognina stette lungo tempo a letto, coi suoi dolori reumatici, e anche Pirloccia, ritornato da uno dei suoi lunghi viaggi, si ammalò di polmonite. Adone, quindi, fu più che mai trascurato. La zia Elena aveva tanto da fare: solo Carissima lo chiamava spesso in disparte, per incaricarlo di vendere le uova e il frumento e le altre cose ch’ella poteva rubare in casa.

Egli se ne incaricava volentieri, e incoraggiato dall’esempio si arrangiava anche lui, e se non poteva altro raccoglieva e vendeva gli stracci, le ossa, la cenere, le bottiglie, provvedendo così alle spese di scuola, e rinnovando anche il suo gruzzolo nascosto. Nessuno pensava a lui: bisognava bene che provvedesse da sè. Lo diceva anche il maestro: chi s’aiuta il ciel l’aiuta. E cominciava dalla mattina presto: si alzava, non trovava nulla da mangiare: allora prendeva un po’ di farina, un po’ di burro o di strutto, un po’ d’acqua fredda, e faceva un chissolin2, che deponeva sulla brage o [p. 113 modifica]magari soltanto nulla cenere calda. In un attimo la piccola focaccia diventava rossa e nera, o nera da un lato e bianca e gonfia dall’altro: e in un altro attimo spariva. Fosse cruda, fosse cotta, allo scolaretto sembrava saporitissima.

E via, per le strade fangose, nella cui melma biancastra, quasi liquida, gli zoccoli del ragazzetto lasciavano la rapida impronta d’un viandante che ha fretta, che è spinto nel suo cammino da un sogno incalzante.

Sì, il nostro ometto intabarrato sognava, e correva dietro il suo sogno: gli zoccoli non pesavano ai suoi piedini fatti per la corsa nelle vie difficili della vita. Poichè egli sognava già di raggiungere qualche cosa, nella vita: sognava di raggiungere la felicità, la gioia, la giustizia, la fortuna. Via, via: spesso il gelo induriva le strade, e il cielo era d’un azzurro cupo di cristallo, e il sole splendeva come un grande diamante freddo: allora l’ometto si sentiva leggero e lieto come un uccello. Gli pareva d’aver una maschera di ghiaccio sul viso, e tutto era fresco, trasparente, luminoso intorno a lui. Attraverso questa trasparenza di cristallo egli vedeva lontano lontano, davanti a sè, nella sua vita: bisognava correre, trascinare gli zoccoli, trascinare il mantello rattoppato; bisognava rompere tante e tante porte di vetro, e ferirsi, e sanguinare: ma dopo l’ultima porta, là, lontano, c’era un mondo meraviglioso, non più gelido, non più nudo e desolato come la grande pianura ghiacciata: c’era la vita.

  1. Spauracchio.
  2. Focaccia.