L'ombra del passato/Parte I/Capitolo V
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V.
Un giorno, ai primi di settembre, Pigoss vide appunto il suo piccolo amico attraversare pensieroso il tratto di sabbia tra la riva e il bosco, nel punto che gli abitanti di Casalino chiamavano pomposamente il porto. Invece d’essere, come al solito, scalzo e mal vestito, Adone indossava il suo vestitino nuovo e aveva un berrettino a visiera. In mano teneva un involtino. Era pallido in viso, con gli occhi cerchiati e il naso un po’ gonfio. In tre anni egli era cresciuto di poco: aveva sempre un viso da bambino; solo la sua voce un po’ velata e le sue mossettine da uomo serio rivelavano in lui il fanciullo già amico del dolore.
— Che c’è, bello? — domandò il barcajuolo. — È festa, oggi?
Adone raccolse sulla riva una fronda di salice, e fece con essa un cenno misterioso, verso il paese. Pareva dicesse addio a una persona lontana. Poi si volse. Dall’altra riva del fiume giungeva un richiamo prolungato e sonoro. Qualche viandante chiamava la barca, per attraversare il fiume. Pigoss si disponeva a partire.
— Pigoss, prendetemi! — supplicò Adone.
Il vecchio acconsentì; e solo quando furono al largo Adone gli confidò le sue pene e i suoi progetti.
— Tutti mi bastonano, Pigoss; tutti! Sono un cagnolino, io? Pirloccia ha minacciato di legarmi e di mettermi entro una cassa. E tutto perchè io voglio andare a scuola. No, io non voglio far le scope. Marameo! Voglio diventare maestro, o barcaiuolo, o saltimbanco. E ora voglio scappare.
— Quando, bello? — domandò il vecchio, ironico e pensieroso.
— Ora, vi dico! Siete sordo? Ora, appena siamo arrivati alla riva.
— Oh, oh, così presto? E dove vuoi andare?
— Lo so io!
— E soldi ne hai, bello?
— Lo so io!
Pigoss fece altre domande; ma il fuggitivo pareva pentito d’aver già parlato troppo, e non rispose oltre. Curvo sull’orlo della barca, immergeva nell’acqua la fronda che aveva preso con sè; ad un tratto la sollevò e la fece sgocciolare. Scintille d’argento, perle, monetine, stelle, apparvero e sparvero sull’acqua corrente, attraversata obliquamente dalla barca. Il sole tramontava sul cielo rosso: una pace solenne regnava sul fiume tutto verde e roseo, la cui acqua pareva scorresse sotto un velo risplendente.
Pigoss remava e taceva. Pareva avesse dimenticato le parole di Adone: ma ad un tratto volse lentamente la barca verso la punta dell'isola che verdeggiava in mezzo al fiume, e disse con la sua solita bonarietà sarcastica:
— Devo prendere un tronco che ieri ho pescato e messo ad asciugare sulla sabbia. Sbarchiamo: poi scapperemo.
Adone capì subito che il vecchio non voleva portarlo all’altra riva: e non protestò, ma si pentì di aver parlato, e decise di non tornare indietro, anche a costo di passare la notte nell’isola deserta.
— Starò qui finchè lui va via, — pensò, scendendo sulla riva ove si stendeva una specie di duna, — mi nasconderò, aspetterò qualche altra barca di passaggio.
L’isola era completamente deserta: durante le ultime pioggie il fiume, ingrossato, l’aveva qua e là corrosa e inondata di sabbia; le sue rive apparivano a tratti alte come bastioni, a tratti dolci e in declino, o riparate da piccole dune di sabbia.
Mentre Pigoss fingeva d’andare in cerca del suo tronco, dimenticandosi che al di là del fiume i viandanti lo aspettavano. Adone si internò nell’isola. Il terreno era molle, coperto di erbe grasse e strane; una specie di nebbia verdognola avvolgeva i pioppi e i salici immobili sullo sfondo del cielo d’un violetto rossastro.
Ogni tanto Adone si fermava, sembrandogli che il vecchio lo inseguisse. Ma non si udiva voce umana in quel bosco simile ad un bosco da fiaba.
Arrivò davanti al piccolo stagno circondato di macchie, e sedette sulla sabbia ancora calda. Passò quasi mezz’ora. Un merlo cantava tra le macchie, e il suo grido liquido pareva uscir dall’acqua violacea dello stagno. Il cielo diventava pallido e triste: alle spalle di Adone il velo del bosco si addensava: in lontananza i tronchi assumevano forme bizzarre. Egli cominciò ad aver paura: idee fantastiche gli passarono in mente.
Egli temeva che Pigoss, non vedendolo più, fosse andato ad avvertire il Pirloccia: ad ogni modo bisognava muoversi, ritornare verso la riva.
Posso anche morire, qui, — pensò, alzandosi. — Sì, si può morire da un momento all’altro, come il mio povero zio.
S’avvicinò allo stagno, come inseguendo la luce che se ne andava: per distrarsi avrebbe voluto gettare qualche sassolino nell’acqua: ma dove trovare il sassolino? — Possibile che Pigoss l’avesse abbandonato e tradito? Anche lui, dunque, lo odiava. Tutti lo odiavano. Due grosse lagrime gli gonfiarono gli occhi. A capo basso, col suo misterioso involtino sotto il braccio, egli ritornò verso la riva. E vide la barca del Pigoss che ritornava, coi viandanti e due cestini pieni di mele. Ma la barca, forse per desiderio dei passeggeri, che gesticolavano, protestando senza dubbio contro la lentezza del barcajuolo, passò dritta senza riavvicinarsi all’isola.
Allora Adone provò una grave disperazione. Cadeva la sera: il cielo e il fiume diventavano sempre più tristi e scuri: soltanto la sabbia rimaneva chiara. Egli sedette sulla duna, aspettando.
Gli pareva d’esser solo sulla terra, abbandonato in un’isola deserta.
Gli uccellini dell’aria, le biscie, le chiocciole, tutti gli animaletti di cui si scorgevano ancora le orme sulla sabbia, erano meno soli e abbandonati di lui. Passasse almeno una barca che lo portasse all’altra riva! Di là egli sapeva dove andare. A Mezzano c’erano i saltimbanchi; egli li conosceva perchè erano già stati a Casalino, dove gli avevano promesso di prenderlo al loro servizio se li raggiungeva al di là del Po.
E ora come fare, se non passava la barca? Pigoss andava senza dubbio ad avvertire la Tognina: il Pirloccia veniva, lo inseguiva nel bosco, lo legava, lo riportava nella casa divenutagli odiosa. Dio, che paura! Pareva una fiaba: Pirloccia era il mostro.
Alla tristezza di questi brutti sogni cominciava a mischiarsi un malessere vago e sottile, che poteva esser bene un po’ d’appetito. Egli sbadigliò, come un gattino affamato, e sembrandogli di scorgere una barca in lontananza si decise ad alzarsi e chiamare:
— Oh, ooh!
L’eco soltanto rispose. Egli cercò un punto più alto della riva e ripetè il suo grido di richiamo. Ma solo la voce dell’eco rispondeva beffarda.
Egli sedette di nuovo sulla sabbia, e ricominciò a sbadigliare. Era quasi notte: gli alberi e i profili lontani delle rive e delle isole diventavano neri: il paesaggio dava l’idea di una pagina di carta d’argento macchiata d’inchiostro.
— Anche Pigoss, vecchiaccio maligno, anche lui, anche lui mi ha tradito, dome farò io? — sospirò Adone; e, per dispetto, cominciò a buttare pugni di sabbia sull’acqua. Improvvisamente una voce risuonò poco distante, da un’insenatura della riva.
— Figli di cani, statevi fermi, Dio ve stranmlediss...
Egli balzò in piedi, e vide una barca che costeggiava silenziosamente l’isola, guidata dal figlio del Pigoss. Dentro la barca c’era un uomo che pescava con la rete; e non senza turbamento Adone riconobbe Davide, il figlio del zolfanellajo. Egli ne aveva tanta soggezione che evitava di andare dal suo vicino quando Io studente era in paese. Quel giovine alto, magrissimo, dal viso scarno e come bruciato, al quale i capelli neri e lunghi, e gli occhi d’un turchino verdastro, vicini, quasi convergenti sul naso aquilino, davano un’espressione di Cristo feroce, gl’incuteva non solo soggezione ma anche un senso di timore. Egli lo ammirava, però, come ammirava il maestro, al quale Davide rassomigliava alquanto, e come ammirava tutti coloro «che sapevano molte cose», ma se ne teneva a rispettosa distanza. E non avrebbe osato fiatare senza l’intervento del giovine Pigoss.
— E che fai lì?
— Aspetto qualche barca che mi prenda: tuo padre m’ha abbandonato qui, — egli disse, sottovoce, guardando timidamente il giovine che immergeva la rete.
II barcaiuolo strinse le labbra per accennare al ragazzo di star zitto.
Curvo sul bastone che sosteneva la rete, Davide ascoltava i rumori dell’acqua. A un tratto mormorò «c’è, c’è», e tirò su rapidamente la rete che all’ultima luce del crepuscolo scintillò come intessuta di fili d’argento.
— Niente, — disse il bareajuolo. — E questo era un punto buono, corpo!
Solo allora lo studente parve accorgersi di Adone, e gridò con voce stentorea:
— Perchè avete chiacchierato? Il pesce c'era, ma è scappato!
Adone non osò rispondere: ma ad un cenno del barcajuolo scese correndo fino a un punto basso della riva e saltò nella barca.
— Silenzio, — gridò lo studente. — A chi parla dò un ceffone.
Il ragazzo non aveva voglia di chiacchierare. Col suo misterioso involtino fra le mani, stette silenzioso a guardare, e a poco a poco s’interessò tanto della pesca che dimenticò con chi era e perchè era lì.
La barca continuò a sfiorare le coste dell’isola. Il bareajuolo puntava soltanto il remo per tener la lieve imbarcazione lontana dalla sabbia, e appena si trovava in qualche insenatura della riva faceva eseguire una giravolta alla barca, affinchè Davide potesse immergere lentamente la rete nell’acqua.
L’ora era propizia alla pesca: era quasi buio, e un silenzio intenso regnava sul gran fiume ancora argenteo fra le rive nere. In fondo alla barca, alcuni pesciolini guizzavano disperatamente, urtandosi fra loro e balzando fino ai piedi di Adone.
Egli sentiva pietà di questi poveri pesciolini, ma quando Davide tirava su la rete, egli sentiva una smania di gridare: — El ghè! El ghè! — anche se il pesce non c’era.
Arrivarono così in fondo all’isola e presero il largo; non c’era da sperar più niente. Il pescatore issò la rete in fondo alla barca, poi si curvò a guardare i pesciolini: i lunghi capelli gli piovvero tutti avanti sul viso sbarbato e scarno. Ora Adone lo guardava fisso, e finalmente osò parlare:
— Sono tredici, — disse. — Eh, sono piccolini, ma non sono pochi!
— Tredici! — osservò il barcajuolo, — brutto numero; vogliamo gettare ancora la rete, laggiù?
Ma Davide era stanco, e aveva paura dell’aria umida della sera.
— Approda, approda, — disse, sedendosi sull’asse accanto al ragazzo. Scosse la testa per gettare indietro i lunghi capelli, si calò sulla fronte le larghe falde del cappello nero, e si mise a cantare, senza badare oltre ai suoi compagni.
Aveva una bella voce, e la «canzone» che cantava era così bella, come Adone non ne aveva mai sentito.
Cielo e mar, l’etereo velo...
L’eco rispondeva e non era più beffarda: tutte le cose, intorno, intorno al magico specchio dell’acqua che rifletteva le prime stelle, parevano più lontane, più vaghe, più misteriose.
Adone sentiva una dolcezza infinita, dimenticava le sue pene, tornava aneli’egli allegro e spensierato, vicino a quel giovine dai lunghi capelli, che cantava come una donna. Ah, ora egli non sentiva più timore nè vergogna: soltanto gli dispiaceva che Davide non badasse affatto a lui.
Ma la riva s’avvicinò, il sogno svanì. Sulla riva c’era il vecchio Pigoss, che senza essere interrogato volle scusarsi con Davide per aver lasciato Adone solo nell’isola.
— Volevo dargli una piccola lezione, solo una piccola lezione. E non voleva scappare, questo baloss? Voleva scappare, e il vecchio Pigoss che s’aggiustasse, poi! No, veh, bello! Domanda il permesso, prima: poi mi dai due palanche e ti porto anche a Brescello.
— E dove volevi andare? — domandò lo studente.
Adone, rosso, arrabbiato, si guardò bene dal parlare dei saltimbanchi.
— Volevo andare a Roma, dal mio zio Carlino.
— Brrravo, trippa! — gridò Pigoss. — E non puoi scrivergli, al tuo zio Carlino? Scrivigli: digli che ti maltrattano, perchè fai il cattivo, e lui manderà una colomba a prenderti... Ebbene, Davide, aggiunse poi, cambiando tono di voce, — fagliela tu la lettera: forse il puttino ha ragione.
— Ti maltrattano? Come? — domandò allora il giovine. — Prendi: andiamo, mi racconterai per via.
Gli diede un fazzoletto, entro il quale il giovine Pigoss aveva legato i pesciolini, e s’avviò, salendo di corsa l’argine. Adone lo seguì. Attraversarono il viottolo buio, la strada qua e là illuminata ad acetilene. Adone parlava: raccontava tutti i suoi guai. Davide non gli dava ragione, ma neppure lo sgridava, come tutti facevano.
E bastava questo per confortare il piccolo cuore assetato di giustizia.
Quando furono davanti alla bottega del tabaccajo lo studente si fermò e guardò Adone, quasi lo vedesse per la prima volta.
— Ah, vuoi diventar maestro? — gli disse, tìngendo meraviglia. — Ma sai scrivere, ora? Tutto? Anche pane, polenta, patate?
Adone sbadigliò, ricordandosi che aveva fame: poi rise, accorgendosi che Davide scherzava. Non sapeva perchè, non si sentiva più triste e non pensava più a fuggire. Non sperava protezione da Davide, ma era contento d’essersi sfogato con lui, e d’aver trovato finalmente uno che non lo sgridava. Poco per volta arrivò a confidargli che voleva raggiungere i saltimbanchi. Neppure allora Davide lo sgridò.
Arrivati, entrarono entrambi in casa dello studente. Il zolfanellajo non era ancora rientralo; la moglie preparava la cena, e appena sentì rientrare 11 figliastro gli corse premurosa incontro.
— Perchè sei vestito così? — domandò al ragazzetto, che le porgeva il fazzoletto coi pesci.
Adone guardò lo studente; temeva che egli raccontasse la sua avventura. Ma Davide tacque; andò a cambiarsi le scarpe, e quando ritornò in cucina, vedendo che Adone se ne andava, lo richiamò a voce alta:
— Di’, tu, pedagogo, perchè scappi? Non stai qui a mangiare il pesce?
— E se la zia mi sgrida?
— E dille che vada al diavolo!
— Bei consigli! — disse il zolfanellajo che rientrava.
— Non è sua madre, quella, e neppure sua matrigna! — gridò allora lo studente, agitato. — E neppure sua zia, e neppure sua padrona. È una vigliacca!
— Dio, Dio, se Tognina sente! — disse Adone, spaventato e nello stesso tempo felice.
— Che hai? — domandò il zolfanellajo, stupito; ma la vecchia, con un pesciolino in una mano e le forbici nel l’altra, gli accennò di non disturbare Davide.
E questi continuò a gridar vituperi contro i suoi vicini; Adone si piegava su sè stesso, contorcendosi per frenare uno scoppio di riso, tanto i gesti e le parole dello studente lo divertivano. Sulla porta il zolfanellajo tendeva l’orecchio, pauroso che dall’aja vicina qualcuno sentisse; finalmente si volse e pregò Davide di tacere.
— Vch, ti farà male allo stomaco!
Questa ragione parve calmare il giovinotto: allora Adone uscì nell’aja, spiò fra la siepe, vide lume nella camera della zia. Il resto della casa pareva deserto. Egli potè rientrare inosservato, salì nella cameraccia, si spogliò, rimise nella cesta il misterioso involtino.
Il bambino di Carissima strillava disperatamente, solo nella camera degli sposi. Adone ne sentì pietà: ricordava la disperazione provata nella solitudine dell’isola. Scese, entrò nella camera di Carissima e cercò al buio la cesta ove stava il bambino.
— Taci, taci, — disse, toccando un visino molle e caldo; e il bambino tacque, succhiando un dito della mano che lo accarezzava.
Adone lo prese fra le braccia, e a tastoni, piano piano, ritornò giù.
— Sai che devo andare? — confidò al marmocchio. — Sono invitato a cena: sì, sì, sai da chi? Non te lo voglio dire.
Il bambino non se ne preoccupava: non vedendo la madre ricominciò a strillare, finche la sarta, che era andata dal cordaio, non corse e sgridò il ragazzo. Ma Adone era così felice che niente, quella sera, poteva offenderlo.
— E prenditelo, toh, — disse, rimettendo il bambino fra le braccia della madre. — Io vado a cena da Davide. Abbiamo pescato trenta pesci, grossi così.
— Che dici, bugiardo? Quale Davide?
— Davide del Nin, — egli gridò.
C’era forse un altro Davide al mondo, tranne quello della Storia sacra?
— Ah, quel matto! — disse Carissima.
Egli uscì, senza domandare il permesso alla zia, e tornò dai vicini. Davide aiutava la matrigna a preparare la salsa per i pesciolini, e durante la cena fu molto chiassoso.
Però Adone osservò che egli non rideva mai. Dopo cena, mentre il zolfanellajo fumava la sua pipetta nera, lo studente si volse alla matrigna.
— Mamma, — le disse, — andate a chiamare la Tognina: ditele che la voglio io.
La vecchia andò, senza fare osservazione.
Adone guardò il giovine; Davide disse che voleva comprare le galline della sua vicina.
Adone scosse la testa: no, no, c’era ben altro!
— Non mi accuserà? — domandò, inquieto.
— Chi, io? Che c’entri tu con le galline?
— Che hai fatto? — domandò il zolfanellajo, stuzzicando la sua pipetta.
— Nulla, nulla, ssst!... — disse Davide, lisciandosi con ambe le mani i lunghi capelli. — Ecco la mummia.
Tognina entrò; piccola, curva, nerastra, ella sembrava davvero una mummia: il suo visino esprimeva una vaga inquietudine.
Adone la guardò, poi fissò gli occhioni avidi negli occhi di Davide: la curiosità gli toglieva quasi il respiro.
Ma il giovine disse a Tognina:
— Sedetevi, sedetevi. Voglio comprare tutte le vostre galline! Venite qui vicino a me. La mamma e Adone andranno intanto a comprare una bottiglia di moscato.
La matrigna s’avviò subito, ma Adone non si mosse.
— Lo vedete, com’è disobbediente? — disse la zia. — È cattivo anche quando dorme.
— Ohibò!
Egli credette che Davide si beffasse un po’ della Tognina, e si mise a ridere. Ma il giovinotto lo guardò, severo, con quei suoi occhi vicini e fìssi come quelli di un uccello da preda. Ed egli ebbe di nuovo paura e soggezione di lui. S’alzò e raggiunse la zolfanellaja.
— Ma io vorrei sapere cosa dicono! Perchè non vogliono che io senta? — le chiese, desolato, tirandole la veste.
La donna era pensierosa: più che al colloquio tra il figliastro e la ricca vicina ella doveva pensare a qualche cosa di lontano, di vago, oltre il tempo e lo spazio, perchè mormorò come fra sè:
— Verrà un giorno! Verrà!
E Adone si mise a ridere, come se qualcuno gli facesse il solletico: come lui ai figli del Pirloccia, la Müton gli sembrava un po’ matta.
⁂
Egli non seppe mai che cosa Davide disse quella sera a Tognina; ma fin dal giorno dopo si accorse che la zia non ostacolava oltre i suoi progetti di studio.
— Se vuoi andare a scuola a Viadana, va pure, — ella gli disse. — Basta però che tu non mi faccia spendere. Denari non ne ho: il granone, l’uva, la saggina, lutto quest’anno è scarso e di cattiva qualità. Eppoi ci sono i tributi, da pagare: insomma denari non ne ho.
Povera donnina! a momenti aveva paura di morir di fame, con duemila bottiglie di vino vecchio che ancora possedeva. Adone però non si preoccupava per i denari: egli credeva che si potesse andare a scuola ed anche vivere senza spendere troppo. Per ogni evento, in quei lunghi anni di privazioni e di stenti, egli era riuscito ad accumulare, non sapeva neppure lui come, una forte somma: quaranta soldi. Con quaranta soldi egli era certo di poter viaggiare attraverso il mondo e attraverso la vita.
Intanto s’avvicinava il tempo di andar a scuola. Anche Davide pensava alla partenza. Qualche altra volta Adone aveva avvicinato lo studente ed era stato alla pesca con lui. Davide s’informava sempre se lo avevano ancora bastonato. Ma dopo la partenza del Pirloccia, che era andato in Toscana in cerca di saggine, Adone godeva una certa tranquillità: inoltre era felicissimo al pensiero di poter frequentare le scuole di Viadana. Non si lamentava, quindi, ed era molto allegro. Una sera egli vide molta gente andare in casa del zolfanellajo: v’andarono anche i due gemelli e Sison il cordaio. Pieno di curiosità egli attraversò l’aja, penetrò nel piccolo andito dei suoi vicini, e vide lo studente in piedi davanti al tavolo di noce, nella stanza terrena che serviva anche da cucina. Molti uominî stavano seduti intorno al tavolo, con le mani in tasca o col gomito sulla spalliera della seggiola: altri sedevano sulla panca e sulla cassa dell’andito; altri stavano appoggiati alle pareti, con le braccia incrociate sul petto.
Immobili, attenti, sotto la luce scarsa d’una lampada a petrolio die ardeva sopra il camino, parevano figure dipinte.
Adone distinse le faccie scialbe di Agostino e di Candido il muratore accanto a quella rossa e rozza del fabbro, suocero del gemello; vide il viso rotondo e bonario del Casèr, e la figura di Pino suo figlio, il cui volto roseo e lucido pareva quello di una donna.
Vera anche l’oste del Vicerè, e un ricco proprietario dal viso grasso e pallido come la luna. Sotto la cappa del camino acceso stava accoccolata la Müton: accanto a lei il vecchio Pigoss sorrideva silenziosamente, coi piccoli occhi in colore dell’acqua del Po. Più in là c’era un vecchio con la testa fra le mani: era calvo e il suo cranio lucido rifletteva lo splendore del fuoco. A destra di Davide sedeva il vecchio bifolco che aveva acceso il lumino davanti all’immagine di San Simone Giuda, mentre lo zio Giovanni moriva. Davide parlava, muovendo sul tavolo, con gesti nervosi, alcuni mazzetti di zolfanelli, e un peker1 pieno di vino.
Adone stette alcuni momenti a bocca aperta, meravigliato della scena. Davide parlava come il prevosto in chiesa: le cose che diceva, però, sembravano ben diverse. Egli non nominava Dio nè il purgatorio. Adone non capiva bene: ricordò sempre che l studente a un tratto prese in mano un rotolo di zolfanelli e disse:
— Proprio così, vedete. Sì. Se noi mettiamo questi zolfanelli sparsi qua e là, uno per uno valgono niente, mentre così uniti valgono trenta centesimi. L’unione fa la forza, non solo, ma anche il valore.
E il fabbro accennò di sì.
Un’altra volta Davide prese il peker e un altro bicchiere piccolo, e li mosse in diverse guise, allontanandoli e avvicinandoli sul tavolo.
Questo è il capitalista (il peker), questo il piccolo industriale (il bicchiere). Mentre il primo può viaggiare in treno e far trasportare rapidamente la sua merce, il piccolo industriale, — e tutti voi lo sapete. — è costretto a viaggiare col suo carrettino. Egli e la sua merce arrivano quando l’altro ha già conquistato il mercato.
Sison agitò la mano, come per dire: — altro che!
Ma poi Adone si annoiò: usci in punta di piedi e andò a domandare a Carissima che cosa tutto questo significava.
Sono i socialisti, — disse la sarta con accento di mistero. Ma non seppe dirgli altro.
- ↑ Bicchiere ad ansa.