L'impostore/Atto II
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto I | Atto III | ► |
ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Pantalone.
Orazio e Flamminio.
Flamminio. Venite, che ora non c’è nessuno.
Orazio. Lo so che vostro padre è andato ai suoi magazzini; ma vostro fratello dov’è?
Flamminio. Mio fratello è andato non mi ricordo dove, ma se non torna a casa, non vi è pericolo che venga qui.
Orazio. Bravissimo. E se ritorna a casa?
Flamminio. Se torna a casa, lo sapremo anche noi.
Orazio. E se mi trova qui, che cosa dirà?
Flamminio. Io poi non posso sapere che cosa dirà.
Orazio. Bisognerebbe spicciarsi presto. Avete avvisata la signora Costanza?
Flamminio. L’ho avvisata; mi ha detto che or ora verrà qui da voi.
Orazio. Ha mostrato piacere, quando le avete detto che io le voleva parlare?
Flamminio. Non lo so, da giovane da bene; non lo so, da soldato onorato.
Orazio. Che gesti ha fatto, quando le avete parlato di me? Ve ne ricordate?
Flamminio. Sì, me ne ricordo. Ha fatto il bocchino, è divenuta rossa, pareva che si vergognasse, mi ha detto vengo subito, e poi è corsa a guardarsi nello specchio.
Orazio. (Si vede che costei ha dell’inclinazione per me). (da sè) Ma quando viene? Il tempo vola, e noi possiamo essere sorpresi.
Flamminio. Or ora verrà. Intanto vi farò vedere come giuoco la bandiera.
Orazio. No, caro amico, ciò si farà un’altra volta: fatemi grazia di sollecitar a venire la signora Costanza, o noi andiamo da lei.
Flamminio. Facciamo come volete... ma zitto, che sento venir qualcheduno.
Orazio. Che sia vostra sorella?
Flamminio. Sì, è ella senz’altro. La conosco al ticchete tacchete delle scarpette.
Orazio. Eccola per l’appunto. È dessa.
Flamminio. Via, presto, non vi fate pregare. (verso la scena)
Orazio. Torna indietro? Perchè? (a Flamminio)
Flamminio. Venite qui; non vi vergognate. (come sopra)
SCENA II.
Ottavio e detti.
Ottavio. Che volete voi da Costanza? (a Flamminio con isdegno, venendo dalla parte opposta)
Flamminio. Oh! siete già ritornato?
Orazio. (Ecco il motivo per cui la fanciulla si è ritirata). (da sè)
Ottavio. Vossignoria che pretende da mia sorella? (ad Orazio)
Orazio. Io? Nulla, signore. La domandava il fratello vostro.
Ottavio. Rispondetemi, sciocco, per qual motivo volevate voi ch’ella qui venisse? (a Flamminio)
Flamminio. Voleva che venisse...
Orazio. (Gli fa de’ cenni, perchè non parli di lui.)
Flamminio. No, non voleva che venisse. (non intendendo Orazio)
Ottavio. Ma se vi ho inteso chiamarla; perchè l’avete chiamata? (a Flamminio)
Flamminio. L’ho chiamata...
Orazio. (Come sopra.)
Flamminio. L’ho chiamata, e non l’ho chiamata. (come sopra)
Ottavio. (Accorgendosi della soggezione di Flamminio, si volta a un tratto, e vede qualche gesto di Orazio, il quale cerca di coprirlo, componendosi.)
Orazio. (Vorrei uscirne a bene, se io potessi). (da sè)
Ottavio. Il signor capitano saprà meglio dirmi di questo stolido, per qual motivo accostavasi mia sorella.
Orazio. Io posso dirvi soltanto il motivo che qui mi ha condotto, ed è la riscossione d’una cambiale di tremila zecchini.
Ottavio. Chi la deve pagare?
Orazio. Il signor Pantalone.
Ottavio. (Prima ch’egli la paghi, ci voglio essere ancora io). (da sè)
Flamminio. Ma che deve importare a voi che venga qui mia sorella? (ad Ottavio)
Ottavio. Vi ha forse pregato il signor capitano, che la faceste venire?
Orazio. Signore, io non so nulla, io non l’ho richiesto di questa cosa.
Flamminio. Oh, non dite bugie, che il cielo vi gastigherà. (ad Orazio)
Orazio. Mi maraviglio di voi. (a Flamminio)
Flamminio. Ed io mi maraviglio di mio fratello, che è venuto più presto di quello doveva venire; che se tardava mezz’ora, voi le avreste parlato, senza che nessuno avesse saputo niente.
Orazio. Signore, vostro fratello è un pazzo.
Ottavio. È vero, si conosce che è tale. Ritiratevi un poco, ho da discorrere col signor capitano. (a Flamminio)
Orazio. (Sono sempre più in impegno. Maladetto amore!) (da sè)
Ottavio. Fatemi il piacere di ritirarvi. (a Flamminio)
Flamminio. State molto qui? (ad Ottavio)
Ottavio. Pochissimo.
Flamminio. Bene; dirò a mia sorella, che quando sarete andato via, potrà venire allora a parlare col signor capitano, (parte)
SCENA III.
Orazio ed Ottavio.
Orazio. (Misero me! Se n’esco con costui, non m’impiccio mai più). (da sè)
Ottavio. Signor capitano, i pazzi pur troppo, per debolezza di spirito, dicono sovente la verità. Vi prevalete della sua innocenza per un fine sospetto; e però a me dovete voi render conto di questa vostra condotta.
Orazio. Torno a ripetervi, che sono qui in cerca del signor Pantalone, per interessi che passano fra lui e me per una cambiale, per il vestiario de’ miei soldati, e per cose simili. Io non ho ardito di domandare la sorella vostra. Ma s’ella ha qualche inclinazione per me, se il signor Flamminio, mosso piuttosto dalle preghiere sue che da altro, ha procurato che io le parlassi, sono un uomo d’onore incapace d’abusarmi delle finezze di una giovane onesta, incapacissimo di oltraggiar una casa onorata, e nemmeno con il pensiero oserei di tradire l’amicizia, la fede, la delicatezza dell’onor mio.
Ottavio. Supponete voi dunque, che mia sorella possa avere dell’inclinazione per voi?
Orazio. Sì, signore: ho qualche ragione di crederlo; e vi dirò di più ancora, se nol sapete, aver io tutta la stima ed il più tenero amore verso di lei.
Ottavio. Non dite poco, signor capitano.
Orazio. Ho fatto dire assai più al signor vostro padre.
Ottavio. Che gli avete voi fatto dire?
Orazio. Che desidero la di lui figliuola in isposa.
Ottavio. E qual risposta ne avete voi riportata?
Orazio. Favorevole più ch’io non mi era creduto.
Ottavio. Mio padre non mi ha ancor detto nulla.
Orazio. Non crederà necessario di dirvelo.
Ottavio. Credo ben io necessario d’illuminarlo.
Orazio. Di che, signore?
Ottavio. Di meglio assicurarsi dell’esser vostro, prima di sagrificare una figlia.
Orazio. L’esser mio gli è noto bastantemente.
Ottavio. Con qual fondamento?
Orazio. Con quello delle mie lettere e delle mie cambiali.
Ottavio. Eh signore, vi sono dei belli spiriti in questo mondo.
Orazio. Che vorreste voi dire?
Ottavio. Ho sentito in collegio raccontare di belle storie di caratteri, di firme e di bravure d’ingegno.
Orazio. Come! Mi taccereste voi d’impostore?
Ottavio. Non ardisco di farlo; ma quando voi dubitaste che ciò di voi si temesse, sareste in impegno d’onore di giustificar l’esser vostro.
Orazio. Come parrebbe a voi che io dovessi giustificarlo?
Ottavio. Di qual paese siete, signore?
Orazio. Sono di questo mondo.
Ottavio. Il mondo è pieno d’uomini onesti e d’impostori indegni.
Orazio. In quale di queste due classi intendereste voi collocarmi?
Ottavio. Datevi meglio a conoscere, e non avrò riguardo veruno a dirvi in faccia la mia sentenza.
Orazio. La maniera vostra di rispondere è una manifesta temerità.
Ottavio. La condotta vostra è una manifesta impostura.
Orazio. Se non foss’io in casa vostra, vi farei conoscere chi sono.
Ottavio. Usciamo in questo momento.
Orazio. Uscirò anche troppo presto per voi. Vo’ prima attendere vostro padre. Vo’ esigere il mio denaro, e poi, signor gradasso, ci proveremo. Vedrete la differenza che passa fra il fioretto e la spada.
Ottavio. Voglio vederla adesso questa differenza.
Orazio. Di qui non esco, senza il pagamento della cambiale.
Ottavio. Giuro al cielo. (mette la mano alla guardia della spada)
Orazio. Perdereste il rispetto alla vostra casa?
Ottavio. No; ad onta della mia collera, conosco il dover mio. Non posso in casa mia attaccarvi; ma posso ben dirvi, che siete un vile.
Orazio. Ed io posso rispondervi, che siete un temerario.
Ottavio. Chi in casa mia m’insulta, o esca per soddisfarmi, o lo farò tosto balzare da una finestra.
SCENA IV.
Pantalone e detti.
Pantalone. Cossa gh’è? Coss’è sto strepito? Cossa xe sta?
Ottavio. Signore, permettetemi ch’io vi dica...
Orazio. Alle corte, signor Pantalone, mi favorisca de’ miei tremila zecchini.
Pantalone. La sappia che el vestiario xe all’ordene, e che doman a mezzo zorno la gh’averà i so abiti a casa.
Ottavio. (Freme da sè.)
Orazio. Non voglio altri abiti: voglio il pagamento della cambiale.
Pantalone. Come! La m’ha ordenà el vestiario, la me l’ha fatto far, e adesso no la lo vol? Che novità xe questa?
Orazio. Non voglio aver altro che far con voi, per non soffrire impertinenze maggiori da vostro figlio.
Pantalone. Coss’è? Cossa gh’astu fatto? (ad Ottavio)
Ottavio. Ah signor padre, prima di dargli fede, assicuratevi meglio della verità della sua persona.
Pantalone. Cossa vorressistu dir?
Orazio. Meno ciarle, signore, ecco la cambiale, a vista. Pagatela. (gli presenta il solito foglio)
Ottavio. Prima di pagarla, esaminatela bene. (a Pantalone)
Orazio. Udite la sfacciataggine di vostro figlio? M’imputa di falsario. La riconoscete voi questa firma? Siete voi uno sciocco, uno stolido, che non ravvisa i caratteri de’ vostri corrispondenti? Soffrirete voi un pedante, che per essere stato a scaldar le panche di una università, pretende dar legge al mondo, correggere il padre, ed offendere le persone d’onore? Ma, giuro al cielo, non lo farà impunemente. Me ne farò render conto. Pagatemi intanto i tremila zecchini.
Pantalone. Ottavio, fin adesso t’ho credesto un putto de garbo, ma vedo che ti xe un strambazzo. Cussì ti parli dei galantomeni che no ti cognossi? Cussì ti dà del buffon a to pare? Sta firma xe legittima, la cognosso, e la devo pagar.
Orazio. Pagatela dunque, signore...
Pantalone. L’averia da pagar, ma avendo fatto el vestiario, fenio e tutto, faremo el ziro de sta cambial, e chi s’averà da dar, pagherà.
Orazio. Vi dico che non voglio altro vestiario.
Pantalone. Me maraveggio, la m’ha da mantegnir la parola.
Orazio. L’insolenze del figlio mi disimpegnano di più trattare col padre. Domani marcerò altrove colla mia gente, e voi pensate a pagarmi.
Pantalone. Vedistu, tocco de anemalazzo? (ad Ottavio)
Ottavio. Vi prego di lasciarmi dire...
Pantalone. Tasi là. Caro sior capitanio, la prego de compatirlo. In grazia mia la lo compatissa; la sa quanta stima, quanto rispetto che gh’ho per ela. Finalmente, se el fio l’ha offesa, el padre no ghe n’ha colpa. (Se nol tol sti abiti, la xe la mia ruvina). (da sè)
Orazio. Voi meritate che facciasi per la bontà vostra ogni sagrifizio; ma l’onore non mi permette quietarmi senza una giusta soddisfazione da chi m’ha offeso.
Pantalone. La gh’ha rason. Animo, sior, domandeghe scusa. (ad Ottavio)
Ottavio. Caro padre, pria di obbligarmi a un tal passo, permettetemi che io vi renda ragione...
Pantalone. No voggio altre rason. Co comando, voggio esser obbedio; domandeghe scusa.
Ottavio. Sì, lo farò: i comandi assoluti d’un padre sono leggi inviolabili ad un figliuolo. Signore, vi chiedo scusa. Sarete ben persuaso, che ad un tal passo non è la viltà che mi guida, ma il rispetto soltanto, e l’obbedienza ad un padre. A lui sagrificare saprei la vita medesima, che da lui riconosco; molto più frenar posso, per compiacerlo, gli stimoli d’un giusto sdegno, di un’onorata vendetta. Torno a ripetere, vi chiedo scusa. Eccovi obbedito, signore. (a Pantalone) Ecco adempito alla volontà vostra, ed al mio dovere; partirò per maggior rispetto: ma nel momento ch’io parto, permettetemi che vi avvertisca d’invigilare un po’ meglio sulla condotta di vostra figlia, e di chi s’introduce nella nostra casa; protestandovi col più umile filiale ossequio, che mi scorderò anche della obbedienza medesima, dove si tratterà di difendere il decoro della nostra onorata famiglia. (parte)
SCENA V.
Pantalone ed Orazio.
Pantalone. (Siestu benedio. Come che el parla pulito!) (da sè)
Orazio. (Questo ragazzaccio vuol essere la mia rovina). (da sè)
Pantalone. Sior capitanio carissimo, no so cossa che voggia dir Ottavio della condotta de mia fia, e de chi vien in sta casa. In fatti, vago osservando... vu savevi che giera al magazen; per cossa seu vegnù qua in tempo che no me podevi trovar?
Orazio. Io non sapeva che foste ne’ magazzini. Son qui venuto per i tremila zecchini.
Pantalone. El vestiario xe all’ordine. Doman la lo gh’averà.
Orazio. Basta, son un uomo d’onore, ho data la mia parola, lo prenderò, ma con un patto.
Pantalone. Con che patto?
Orazio. Che ponghiate freno agl’impeti di vostro figlio, che l’obblighiate a portarmi rispetto, e a non darmi nuovi motivi di disgustarmi.
Pantalone. In questo so quel che ho da far. Ottavio gh’ha giudizio, e me posso comprometter della so ubbidienza.
Orazio. Perchè poi, in caso diverso, mi scorderò ch’egli sia cosa vostra, e lo passerò colla spada da parte a parte.
Pantalone. Aseo! No, sior capitanio, no vegniremo a sti passi. Ottavio no ghe darà più sto motivo. Ma la prego anca ela, co mi no son in casa, no la daga da sospettar.
Orazio. De’ galantuomini così facilmente non si sospetta.
Pantalone. Ma, la vede ben, dove che ghe xe1 delle putte...
Orazio. A proposito di questa vostra figliuola, so pure che qualche cosa in mio nome vi è stato detto.
Pantalone. È verissimo, e giusto per questo se ha motivo de invigilar un pochetto de più.
Orazio. Mi è stato fatto sperare, che voi non siate per isdegnare la mia richiesta.
Pantalone. Veramente el xe un onor, che se degna de farme el sior capitanio; ma la vede ben, mandar una putta fora del so paese, senza saver dove che l’abbia d’andar...
Orazio. Quando voi l’appoggiate ad un galantuomo, da per tutto non può star che bene.
Pantalone. Bisogna sentir cossa che la dise anca ela.
Orazio. È giusto. Sentiamola. Fatela venire, ed interroghiamola.
Pantalone. Mo no, cara ela, sta sorte de domande no le se fa in pubblico; lo farò mi a quattr’occhi.
Orazio. Intanto, supponendo ch’ella non dica di no, siete voi disposto a dire di sì?
Pantalone. Bisogna che senta cossa dise anca i so fradelli.
Orazio. Ho inteso; voi cercate i pretesti per darmi una negativa. Dei due fratelli suoi, uno è stolido, l’altro è superbo. Ma voi, se siete un uomo di senno, avete da dispor della figlia senza dipender da loro, e se non lo fate, congetturo il malanimo che avete meco, e saprò ricordarmene nelle occasioni.
Pantalone. Sior capitanio, ghe parlerò schietto. La mazor difficoltà la gh’ho circa la dota. La vorla senza dota?
Orazio. Non è onor vostro offrire una figlia senza la dote.
Pantalone. Nè mi intendo de mandarla per carità. La so dota xe diesemile ducati. Ma la vede ben, xe giusto che la ghe sia sicurada.
Orazio. Non basta per sua assicurazione il mio reggimento?
Pantalone. El reggimento va alla guerra, i lo faggia a pezzi, e la dota va sotto terra.
Orazio. Siete troppo sofistico, signor Pantalone!
Pantalone. E po ghe dirò anca. La sa che son in parola de darla a sior Fabio, zovene del paese, fio de un galantomo mio amigo...
Orazio. Ora poi, con questo confronto all’onor mio ingiurioso, mi ponete in impegno di dirvi, che se non fate stima di me, io non faccio stima di voi. Finiamola una volta, tronchiamo il nostro commercio; pagatemi i miei tremila zecchini.
Pantalone. Mo la se scalda molto presto, el mio caro sior capitanio. No la me lassa gnanca fenir de dir. Con tutto l’impegno, con tutta l’amicizia col sior Fabio, ho trovà un pretesto per cavarme, se occorre; ma torno a dirghe, la difficoltà consiste in te la sicurtà della dota.
Orazio. Bene; a questa si provvederà.
Pantalone. E allora ghe la darò.
Orazio. Bravo, galantuomo; siete mio suocero da questo punto.
Pantalone. E mi scomenzo a considerarla come mio zenero.
Orazio. Mi volete bene?
Pantalone. Benon, benonazzo.
Orazio. Fatemi un piacere.
Pantalone. Comandè, caro.
Orazio. Lasciatemi dir due parole sole alla mia sposa.
Pantalone. Caro fio, xe ancora presto.
Orazio. Caro suocero, caro padre, non mi negate questa picciola grazia.
Pantalone. Bisogna véder... bisogna sentir...
Orazio. Servitor devotissimo. (in alto di partire)
Pantalone. Dove andeu?
Orazio. A battermi col primo che incontro.
Pantalone. Per che rason?
Orazio. Per la disperazione in che mi mette la crudeltà di un suocero ingrato. (come sopra)
Pantalone. Vegnì qua, fermeve. (Se l’incontra mio fio, el lo sbudella a drettura). (da sè)
Orazio. E bene, che risolvete?
Pantalone. Aspettè un pochetto... sento zente.
Orazio. Che qui non venga nessuno. Che non interrompano gli affari nostri.
Pantalone. Xe el dottor Polisseno con so fradello; l’oggio da mandar via?
Orazio. No, che vengano. Son buoni amici.
Pantalone. (Manco mal, per adesso ho schivà l’impegno), (da sè)
SCENA VI.
Il Dottore Polisseno, Ridolfo e detti.
Ridolfo. Riverisco il signor Pantalone; m’inchino al signor colonnello. (ad Orazio)
Pantalone. Ghe son servitor.
Orazio. Con tutto il cuore. (abbracciando Ridolfo)
Dottore. Amico, compatite s’io vengo a darvi incomodo. Mio fratello mi ha condotto, posso dire quasi per forza, senza volermi dire il perchè; eccolo qui, ora ci dirà egli il motivo. (a Pantalone)
Ridolfo. Sì signore, or ora il saprete. (al Dottore)
Dottore. Confesso il vero, ho un poco di curiosità.
Ridolfo. Signor Pantalone, vedendomi qui unito col signor colonnello, desidero sapere se niente avete concluso circa la richiesta fattavi della figliuola vostra.
Pantalone. Ghe dirò, patron... (a Ridolfo)
Orazio. Sì, amico, me la darà. (a Ridolfo)
Ridolfo. Me ne rallegro infinitamente.
Pantalone. Ghe la darò, se el cielo l’averà destinada per elo.
Ridolfo. La dote si è stabilita?
Pantalone. Circa la dota...
Orazio. Per la dote non vi è che dire, sono diecimila ducati.
Dottore. (Ora capisco che cosa vogliono: ch’io stenda il contratto di nozze. Questo pazzo me lo poteva dire). (da sè, accennando Ridolfo)
Ridolfo. Dunque ogni cosa è accomodata. (a Pantalone)
Pantalone. Ghe xe la solita difficoltà.
Orazio. Una freddura che non val niente.
Ridolfo. In che consiste questa difficoltà? (a Pantalone)
Pantalone. Che no ghe posso dar la dota senza una sicurezza.
Ridolfo. A questo passo io v’aspettava. Per questo son qui venuto, per questo ho fatto meco venire il Dottor mio fratello.
Dottore. Acciò ch’io stenda il contratto.
Ridolfo. No, acciò che voi facciate la sicurtà al signor Pantalone.
Dottore. Io?
Pantalone. Co sior Dottor se contenta, mi son più che contento.
Orazio. Il signor Dottore non vorrà per me quest’incomodo.
Ridolfo. Anzi si farà gloria di poter servire il signor colonnello.
Dottore. Ma, caro fratello, sapete pure che ho fatto un giuramentone grandissimo di non far sicurtà a nessuno.
Ridolfo. Eh, che in queste cose i giuramenti non tengono. A noi altri militari non si danno ad intendere queste scioccherie.
Pantalone. Sior Dottor, se gh’avè delle difficoltà, in sta sorte de cosse no se fa complimenti.
Ridolfo. Che difficoltà? Niente affatto; lo farà subito.
Dottore. Perchè non la fa lei, signor fratello, la sicurtà colla sua parte de’ beni che ha consumata?
Ridolfo. Se avessi i beni che ho consumati, non mi farei pregare, come voi fate, a usare un atto di gratitudine a chi vuol farmi del bene; nè mi ridurrei a mangiare il poco pane che voi mi date, misto di rimproveri e di mala grazia.
Dottore. Sentono, i miei signori? Ecco i ringraziamenti di un amoroso fratello, che dopo essersi rovinato lui, va rovinando me ancora.
Orazio. Io non intendo che per mia cagione s’accendano risse fra due fratelli. Sono obbligato al signor Dottore di quanto sinora ha fatto per me; e se fra i danni che gli ha recato il fratello, conta quelli d’aver me introdotto in sua casa, son pronto a supplire a tutto, se il sagrifizio di cento zecchini non è compensazione che basti.
Dottore. Io i cento zecchini non li ho accettati.
Orazio. Non resta per questo ch’io non li abbia sagrificati e perduti.
Ridolfo. Ah, povero me! Mio fratello vuol vedermi precipitato!
Dottore. Io vedervi precipitato? Parvi poco quel che ho fatto sinora per voi?
Ridolfo. Quel che avete fatto sinora non è niente, se non fate anche questo.
Pantalone. (Sto sior el vol far tor a so fradello la medesina per forza). (da sè)
Orazio. Lasciate, signore; non inquietate più per mia cagione il signor Dottore. (a Ridolfo)
Dottore. Ella non mi dice più auditore?
Orazio. Capisco che siete stanco della mia amicizia.
Ridolfo. Vedete? Siamo rovinati, siamo precipitati; siete un traditore di voi medesimo e del vostro sangue. (al Dottore)
Dottore. Andiamo, che si faccia tutto. Che vada tutto. Son qua, signor Pantalone; faccio la sicurtà io per diecimila ducati. (Se s’ha d’andar in rovina, si vada; quest’indiscreto di mio fratello non potrà dire che io non abbia fatto di tutto per contribuire alla sua fortuna). (da sè)
Pantalone. No, caro sior Dottor, compatirne. Questa la xe una cossa che fe per forza, e mi no l’ho da comportar, e mi la vostra piezaria no la devo accettar.
Dottore. (Manco male). (da sè)
Orazio. Bravo, signor Pantalone; ora capisco il mistero. È un pretesto quello della sicurtà. Mi avete lusingato per poi deridermi, ma giuro al cielo, me ne renderete conto.
Pantalone. Me maraveggio, patron, son un galantomo, e se la compassion che gh’ho per el Dottor, fa sospettar de mi, son qua, son pronto a mantegnir la mia parola, e accetto la sigurtà.
Dottore. (Un’altra nuova). (da sè)
Orazio. Basta, in ogni forma; non deggio io accettare un’oblazione forzata del signor Dottore.
Dottore. (Se ha riputazione, non la deve accettare). (da sè)
Ridolfo. Caro signor colonnello, caro amico, vero e leale che siete; vi supplico, vi scongiuro, accettate l’esibizione di mio fratello. Credetemi, lo fa di buon cuore, lo fa per debito, lo fa per gratitudine all’amor vostro. Accettatela per amor del cielo. (ad Orazio)
Dottore. (Si può sentir di peggio?) (da sè)
Orazio. Orsù, non voglio col mostrarmi ostinato far torto alla vostra buona amicizia. Accetterò le grazie del signor Dottore.
Dottore. (Obbligato della finezza). (da sè)
Pantalone. (Dottor, i ve fa far el latin a cavallo). (piano al Dottore)
Ridolfo. Ecco accomodato ogni cosa. Mio fratello fa la sicurtà per il signor colonnello; il signor Pantalone l’accetta; il signor colonnello è contento; si stenda il contratto, e si facciano queste nozze.
Pantalone. Bisogna dir qualcossa alla putta.
Orazio. Ma fatela una volta venire. Parmi che oramai mi sia lecito di vederla.
Pantalone. Adessadesso se sentirà...
Ridolfo. Anderò io a chiamarla. (in atto di partire)
Pantalone. No la se incomoda, che anderò mi. (lo trattiene)
SCENA VII.
Ottavio e detti.
Ottavio. Signor padre, siamo in un grande impegno.
Pantalone. Cossa xe sta?
Ottavio. Fabio Cetronelli, penetrato avendo che vogliasi a lui mancar di parola, per dar Costanza in isposa al signor colonnello, (s’inchina con affettazione) pretende soddisfazione, vuol far valere le sue ragioni, ed ha seco un buon numero di persone capaci di sostenerle.
Dottore. (Sia ringraziato il cielo). (da sè)
Pantalone. Sentela, sior capitanio? Sior colonnello, sentela?
Orazio. Vi fa apprensione un fanatico?
Ridolfo. Niente, signor Pantalone, siamo qui noi.
Ottavio. Sale che el xe un muso capace de non aver paura de diese?
Dottore. E poi, se ha degli amici con lui, bisogna temere qualche cosa di grande.
Orazio. Lo farò arrestare dà miei soldati.
Ridolfo. Lo bastoneremo colle nostre mani.
Dottore. Voi vi farete ammazzare.
Ridolfo. Che ammazzare! Che sapete voi di queste cose, voi che non siete buono ad altro che a maneggiare la penna? Andiamo, signor colonnello, andiamo a far ritirare quest’insolente.
Orazio. Andate innanzi, amico, fate voi la scoperta; in ogni pericolo sarò sollecito al vostro fianco.
Dottore. Perdoni, signor capitano, toccherebbe a lei, in un caso simile, a metterlo in soggezione.
Ottavio. No, caro signor Dottore, la vita degli eroi è troppo preziosa, non si arrischia per così poco. (ironicamente)
Orazio. Signor Pantalone, vostro figliuolo non è sazio ancor d’insultarmi.
Pantalone. Orsù, qua se perdemo in chiaccole, e no se fa gnente; anderò mi a veder cossa che pretende sto sior, e sibben che son vecchio, no gh’ho paura, perchè se no so doperar la spada, gh’ho tanta lengua, che basta da dir le mie rason a fronte de chi che sia. (parte)
Ottavio. Non voglio lasciar solo mio padre in un impegno di questa sorta. (parte)
SCENA VIII.
Ridolfo, Orazio ed il Dottore.
Ridolfo. Se il signor Pantalone adoprerà le ragioni, noi useremo i fatti. Andiamo, signor colonnello.
Orazio. Precedetemi, che vi seguo.
Dottore. Non fate, caro fratello... Saranno molti...
Ridolfo. La mia spada non ha paura di dieci. (parte)
Dottore. Signor colonnello, non lo lasci andar solo, per carità.
Orazio. Vado subito in di lui soccorso. (in atto di partire, ma dalla parte opposta)
Dottore. È andato per di qua mio fratello.
Orazio. Voi non sapete le regole militari. Sortendo io da quest’ altra parte, arriverò il nemico alle spalle, ed attaccandolo alla coda, lo prenderemo in mezzo, ed egli coi suoi seguaci dovranno arrendersi e posare le armi. (parte per dove era incamminato)
SCENA IX.
Il Dottore solo.
Parmi che in questa occasione non sia niente opportuno il militare strattagemma, ma che piuttosto il signor colonnello voglia sfuggir l’impegno. E quel pazzo di mio fratello va, come si suol dire, colla pancia avanti al pericolo. Io amo troppo questo mio fratello, e per lui vado a precipitarmi. Questa sicurtà vuol essere la mia rovina. Ma prima di farla, qualche cosa succederà. Ecco qui un motivo di differirla; il cielo ne può provvedere degli altri, e poi nell’atto di stenderla si possono apporre tali e tante condizioni, che la rendano o inutile, o cauta almeno. Alfine son d’una professione che sa i mezzi termini e i trabocchetti; e se tanti ne trovano gli avvocati per gli altri, la sarebbe bella che non ne sapessero trovar per se stessi. Ma! Io non sono di quelli: pur troppo amo la verità, la schiettezza; e questo è quello che mi fa avere poca fortuna, poichè in oggi chi è più impostore, è più bravo, e si fa applauso a coloro che meglio la sanno dare ad intendere. (parte)
SCENA X.
Strada remota
Orazio e Brighella.
Orazio. Vieni qui, Brighella, raccontami. Ti sei dunque trovato presente alla rissa.
Brighella. Son arriva in tempo che i s’era malamente taccadi el sior Ridolfo con Fabio Cetronelli; el sior Pantalon e el sior Dottor i fava de tutto per quietarli, ma se non arrivava mi con quattro dei nostri omeni a farli desmetter, succedeva del mal.
Orazio. Brighella mio, le cose principiano ad imbrogliarsi. Ho due nemici che mi mettono in apprensione: questo Fabio Cetronelli, per ragione di gelosia, e forse d’interesse; e Ottavio, figlio del signor Pantalone, per certo spirito di collegiale, che lo rende ardito, non mi stima, non mi crede, e mi vuol tirare a cimento. Sai tu bene che io non sono poi tanto vile, che abbia a farmi paura di tutto; ma se sfuggo gl’incontri, lo faccio per la situazione in cui mi ritrovo. Se in un duello, se in una rissa, ammazzo uno di questi miei avversari, o mi conviene partire, o passare a delle violenze maggiori. Chi ha la coscienza macchiata, ha sempre timore d’essere scoperto, onde mi conviene riflettere e stabilire una qualche risoluzione.
Brighella. La meggio de tutte l’è quella de mudar paese.
Orazio. Sì, così ho pensato ancor io. Sollecitare la riscossione di quel denaro che si può avere, e andarsene.
Brighella. I tremile zecchini dal sior Salamon i ala avudi?
Orazio. No, non li ho avuti, e non li averò. I mercanti ebrei non sono sì facili a lasciarsi gabbare. Dice non aver avuto lettera d’avviso, e vuol aspettare d’averla.
Brighella. Se pol far la lettera d’avviso, come s’ha fatto la cambial.
Orazio. Non siamo più in tempo. Anzi, s’egli ha scritto al suo corrispondente, questa è la maniera d essere scoperti. Convien andarsene; ma due cose mi premono innanzi di partire.
Brighella. Che son?
Orazio. Il vestiario del signor Pantalone, e la di lui figliuola. Il primo l’averò domani. Quell’altra m’ingegnerò di non perderla.
Brighella. Sior Orazio, no fe che l’amor ve minchiona.
Orazio. Oltre l’amore, vi è l’interesse. Diecimila ducati in denaro contante.
Brighella. Basta; bisogna far presto.
Orazio. Fra oggi e domani. Tu intanto non mi perder di vista, stammi sempre poco lontano, e se mi vedi in qualche impegno, accorri a liberarmene con qualche pretesto.
Brighella. In questo lassè far a mi. Gh’è un altro imbrogietto adesso da comodar.
Orazio. Che cosa e’è?
Brighella. L’oste che ha dà da magnar ai soldadi, l’è qua colla lista, che el vorave esser pagà.
Orazio. Fallo venire avanti.
Brighella. Avì da pagarlo?
Orazio. Non importa, fallo venire.
Brighella. Gh’ho dà speranza che el sarà vivandier, ma tant’e tanto el vol esser paga.
Orazio. Fallo venire, ti dico, e sta pronto quando ti chiamo.
Brighella. Benissimo, penseghe vu; e averti ben che i soldadi i è de bon appetito, e che costù no ghe vol dar altro, (parte)
SCENA XI.
Orazio, poi Arlecchino.
Orazio. Queste per me sono piccole cose. Far tacere un oste è la cosa per altri la più difficile, e per me è la più facile.
Arlecchino. Fazz reverenza a vussustrissima.
Orazio. Buon giorno, galantuomo. Siete voi l’oste che ha dato da mangiare alla mia gente?
Arlecchino. Per servirla.
Orazio. Appunto desiderava vedervi. Siete stato soddisfatto?
Arlecchino. Lustrissimo sior no.
Orazio. Bene, farò che lo siate. Avete il vostro conto?
Arlecchino. Lustrissimo sior sì.
Orazio. Lasciatelo a me vedere.
Arlecchino. Eccolo qua. Me raccomand alla so carità, perchè son poveromo, signor.
Orazio. O povero, o ricco che siate, questo non fa il caso. Voglio che tutti sieno pagati, e con ogni puntualità ed esattezza. Io sono un soldato onorato.
Arlecchino. El cielo la benediga, sior soldado, e ghe daga grazia de deventar caporal.
Orazio. Poveruomo, siete un poco semplice, non è vero? Non sapete ch’io sono il colonnello del reggimento?
Arlecchino. Mi, signor, de ste cosse no me n’intendo; me basta saver che vussioria l’è quello che m’ha da pagar.
Orazio. Sì, io vi devo pagare, e vi pagherò. Vediamo il conto. (legge)
Arlecchino. La vederà un conto da galantomo.
Orazio. Trenta boccali di vino, paoli quindici. Che diavolo! quindici paoli trenta boccali di vino?
Arlecchino. Quest l’è el prezzo stabilido da chi comanda; no ghe mett un quattrin d’avantazo.
Orazio. È poco, caro amico, è pochissimo; se farete così, i miei soldati s’ubriacheranno con troppa facilità. Mettete il vino un paolo al boccale; trenta boccali di vino, paoli trenta.
Arlecchino. (Eh, fina cussì el conto el se pol regolar), (da sè)
Orazio. Siete di ciò contento?
Arlecchino. Quel che la fa, signor, sia ben fatto.
Orazio. Non l’avete già a male ch’io alteri il vostro conto, non è vero?
Arlecchino. Eh, no so po gnente pontiglioso.
Orazio. Pane, paoli due. Oh bellissima! Due paoli di pane, e quindici paoli di vino!
Arlecchino. L’è el solito dei soldadi, signor.
Orazio. Eh, fateli pagare costoro. Pane, paoli quattro.
Arlecchino. (L’è mo vera lu quel che ha dito el sior sargente, che i paga el doppio). (da sè)
Orazio. Due capponi, otto paoli. Orsù, voi non sapete fare il vostro mestiere. Non sareste buono per fare il vivandiere in un reggimento.
Arlecchino. Eh, lo so, signor, che allora se mett el doppio; no credeva mo adesso...
Orazio. Tenete, andate a regolare il vostro conto, poi venite da me, che vi pagherò. (gli rende il conto)
Arlecchino. (E intanto no vien quattrini). (da sè) La fazza un cossa, signor, la summa l’è de quaranta paoli, la se figura che el conto sia giusta, e la me ne daga ottanta.
Orazio. No, non posso farlo. Devo render conto ai soldati colla lista alla mano. Regolatela, e poi venite.
Arlecchino. (E poi venite!) (da sè) Intanto mo no la poderia darme qualche cossa a conto?
Orazio. Volentieri: che cosa vorreste a conto?
Arlecchino. La me daga a conto... sessanta paoli.
Orazio. È poco. Non avete da dar da cena ai soldati? É poco. Vi darò cento paoli.
Arlecchino. Mi po me rimetto a tutto quello che la comanda.
Orazio. Eccovi cento paoli a conto. (cercando per le tasche)
Arlecchino. (Cussì l’è un bel far l’osto! Metter el doppio, e quattrini subito). (da sè)
Orazio. Diavolo! Mi sono scordato la borsa.
Arlecchino. Oimè!
Orazio. Niente, niente. Brighella. (chiama)
SCENA XII.
Brighella e detti.
Brighella. Illustrissimo.
Orazio. Date a questo galantuomo cento paoli a conto.
Brighella. La servo. (cercando per le lasche)
Arlecchino. (Manco mal). (da sè)
Brighella. Oh! la borsa è voda, signor; ho pagà le reclute, no m’è restà un soldo.
Arlecchino. (Ahi! che dolori!) (da sè)
Orazio. Ma questo galantuomo ha da esser pagato.
Brighella. El se pagherà.
Orazio. Subito voglio che sia pagato.
Brighella. La fazza un ordine, che el sia paga.
Orazio. Avete il calamaro?
Brighella. Sì, signor, el sargente ha sempre el so calamar. Eccolo qua; ecco la carta.
Arlecchino. La favorissa, con quel ordene chi me pagherà?
Orazio. Il mio cassiere.
Arlecchino. E chi elo el so cassier?
Orazio. Il signor dottor Polisseno; lo conoscete?
Arlecchino. Lo conosso.
Orazio. Bene, anderete da lui. Venite qua, sargente, accostate il vostro cappello tanto che io possa scrivere.
Brighella. Perchè no vorla accomodarse in qualche bottega?
Orazio. Oibò; qui, qui, in piedi, alla militare.
Brighella. La se comoda come la comanda. (gli presenta il suo cappello, ed Orazio scrive)
Arlecchino. (El doppio; paga subito. L’è la più bella cossa del mondo). (da sè)
Orazio. (Ora lo faccio pagar, come va pagato). (scrivendo, piano a Brighella)
Brighella. (Qualche bella invenzion?) (piano ad Orazio)
Orazio. (Sì, bella e ridicola. Sa leggere costui?) (piano a Brighella)
Brighella. (Mi credo de sì). (piano ad Orazio)
Arlecchino. (In pochi anni farò anca mi come tanti altri. Vago via a piè, e torno in carrozza). (da sè)
Orazio. (Questo viglietto converrebbe sigillarlo, acciò costui non lo leggesse). (piano a Brighella)
Brighella. (Ho bollin, ho sigillo, ho tutto el bisogno), (piano ad Orazio)
Orazio. (Il sigillo l’ho io, dammi da sigillare). (piano a Brighella)
Brighella. (Ecco el bisogno). (piano ad Orazio)
Orazio. (Sigilla il righetto) Tenete, portatelo al signor Dottore, ed egli subito vi pagherà.
Arlecchino. Cento paoli?
Orazio. Cento paoli.
Arlecchino. A conto?
Orazio. A conto.
Arlecchino. E sempre ho da metter el doppio?
Orazio. Sempre il doppio.
Arlecchino. E paga subito?
Orazio. Subito pagato.
Arlecchino. (No dago sta profession per quella de un maester de casa. El doppio? Squasi squasi no lo mette gnanca i procuratori). (da sè, e parte)
SCENA XIII.
Orazio e Brighella.
Orazio. Che ti pare? L’ho io pagato bene?
Brighella. Benissimo. Ma saria curioso de saver cossa contien quella lettera.
Orazio. Ti dirò; siccome i soldati sono all’osteria, e vi devono stare tutta la notte vegnente per lo meno...
SCENA XIV.
Ridolfo e detti.
Ridolfo. Amico, ho necessità di parlarvi. (ad Orazio)
Orazio. Eccomi qui con voi.
Ridolfo. Vorrei che fossimo soli.
Orazio. Ritiratevi. (a Brighella)
Brighella. (Lo saverò un’altra volta). (da sè, e parte)
SCENA XV.
Orazio e Ridolfo.
Ridolfo. Lo sapete i’impegno nel quale per cagion vostra ritrovato mi sono?
Orazio. Lo so, e nel momento ch’io veniva in vostro soccorso, una staffetta mi arrestò con due lettere, e la curiosità mi spinse ad aprirle.
Ridolfo. Una staffetta? Che novità ci sono?
Orazio. Buonissime. Le patenti sono per viaggio, ed a momenti saranno qui.
Ridolfo. La patente ancora del maggiore del reggimento?
Orazio. Sì, tutte.
Ridolfo. E per chi la disporrete voi?
Orazio. Per il mio caro amico Ridolfo.
Ridolfo. Effetto della vostra bontà.
Orazio. Che avevate voi da dirmi da solo a solo?
Ridolfo. Vo’ che pensiamo a far risolvere il signor Pantalone a darvi la sua figliuola, ad onta di quell’insolente di Fabio.
Orazio. Questo è quello che a me preme infinitamente. Per dirvela, ne sono estremamente invaghito.
Ridolfo. Ora, secondo me, il modo sarebbe questo...
Orazio. Colui che di là viene, non è egli Fabio?
Ridolfo. Sì, è desso; che pretende l’audace?
Orazio. Non vi riscaldate subito, amico; prendiamo la cosa con indifferenza a principio, e veggiamo quale idea lo conduca.
Ridolfo. Attacchiamolo a dirittura, alla militare.
Orazio. No, sarebbe soverchieria attaccarlo in due. Fate a modo mio, trattiamolo con disinvoltura.
SCENA XVI.
Fabio e detti.
Fabio. Schiavo, signori.
Ridolfo. (Si calza il cappello in testa, e non risponde.)
Orazio. Padrone mio; vi riverisco divotamente.
Fabio. Con voi, signore, ho bisogno di ragionare. (ad Orazio)
Orazio. Eccomi qui, disposto ad ascoltarvi, ed a servirvi, se occorre.
Ridolfo. (Questa sua dissimulazione mi pare troppa viltà). (da sè)
Fabio. Mi conoscete voi? (ad Orazio)
Orazio. Non ho l’onor di conoscervi.
Ridolfo. Non lo sapete chi è? Fabio Cetronelli, vostro rivale in amore; ardito, pretendente...
Orazio. Zitto, quietatevi, signor Rodolfo.
Fabio. Per ora non rispondo ad un fanatico che m’insulta; a voi mi volgo, signore, e dicovi, qualunque siate, che il signor Pantalone de’ Bisognosi ha promessa a me la sua figlia, e che ora mancami di parola, perchè posto in soggezione da voi; però, se siete uomo d’onore, conoscete la giustizia che a me si deve, e non ponete ostacolo al conseguimento di quella felicità, che mi son procurata con tre anni continui di servitù.
Ridolfo. Voi pretendete invano...
Orazio. State zitto, vi prego. (a Ridolfo) Con tre anni di servitù vi siete acquistata una bella felicità! Bel conto che fa di voi la signora Costanza! Se io l’amo, egli è perchè da essa fui invitato ad amare; che però, avendo voi gettate invano le lagrime di tre anni, v’insegni la prudenza a non procacciarvi un malanno.
Fabio. La maniera con cui mi rispondete, è ingiuriosa a me non solo, ma alla mia bella ancora; tant’è, signor capitano, se siete un uomo d’onore, me ne avete da render conto; sendo io sicuro che la vostra onestà non lascierà prevalervi della soverchieria.
Orazio. Di ciò potete esser certo...
Ridolfo. Io prenderò le parti del signor capitano...
Orazio. Ma frenatevi, per carità. (Non dubitare, che ti darò gusto). (da sè)
Fabio. Fra voi e me ci sarà tempo di disputare qualche altro articolo, (a Ridolfo) Per ora si contenti di meco battersi il signor capitano.
Orazio. Eleggete il luogo.
Fabio. Eccolo. Questo è opportuno.
Orazio. Bastavi a primo sangue?
Fabio. Non limita il mio sdegno la sua vendetta. (pone mano alla spada)
Orazio. (Brighella non sarà lontano). (pone mano anch’egli)
Fabio. Posso assicurarmi di un mio nemico che resta qui spettatore? (ad Orazio, additando Ridolfo)
Orazio. Egli è un uomo d’onore.
Ridolfo. Sono un offiziale onorato.
Fabio. Andiamo dunque. (si pone in guardia)
Orazio. Andiamo. (si battono qualche poco)
SCENA XVII.
Brighella e detti.
Brighella. Lustrissimo. (ad Orazio)
Orazio. Permettetemi. (a Fabio, abbassando la punta e ritirandosi) Che c’è di nuovo?
Brighella. Un corrier espresso, spedido dalla Corte, deve comunicar affari de sommo rimarco con vossustrissima.
Orazio. Traspiraste nulla di quel che porta il corriere?
Brighella. El gh’ha patenti, denari, ordini e commissioni, e fra le altre cose, le bandiere del reggimento.
Ridolfo. Le bandiere del reggimento?
Orazio. Le bandiere? (si cava il cappello) Signore, il mio dovere mi chiama a baciare gli stendardi mandatimi dal mio sovrano. (a Fabio)
Fabio. Che stendardi? Dovete battervi meco.
Ridolfo. Son qua io per lui. Andate, amico, a sviluppare le patenti. (ad Orazio) Meco battetevi, se avete volontà di morirex (a Fabio)
Fabio. Con esso lui il mio sdegno...
Orazio. Battetevi con Ridolfo, egli è un altro me stesso, (parte)
Fabio. Giuro al cielo... (vuol seguirlo)
Brighella. Alto là, signor. La porta rispetto ai colonnelli de sta qualità. (lo ferma, indi parte)
SCENA XVIII.
Fabio e Ridolfo.
Fabio. Teco dunque sfogherò l’ira mia. (contro Ridolfo)
Ridolfo. Niente più desidero, che castigare la tua baldanza, (pone mano e si battono lungamente, sin che Ridolfo resta ferito gravemente) Non posso reggermi più. (barcollando si ritira)
Fabio. Impara ad esser men temerario. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Pasquali, Zatta ecc.: dove ghe xe ecc.