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L'IMPOSTORE | 155 |
Orazio. Udite la sfacciataggine di vostro figlio? M’imputa di falsario. La riconoscete voi questa firma? Siete voi uno sciocco, uno stolido, che non ravvisa i caratteri de’ vostri corrispondenti? Soffrirete voi un pedante, che per essere stato a scaldar le panche di una università, pretende dar legge al mondo, correggere il padre, ed offendere le persone d’onore? Ma, giuro al cielo, non lo farà impunemente. Me ne farò render conto. Pagatemi intanto i tremila zecchini.
Pantalone. Ottavio, fin adesso t’ho credesto un putto de garbo, ma vedo che ti xe un strambazzo. Cussì ti parli dei galantomeni che no ti cognossi? Cussì ti dà del buffon a to pare? Sta firma xe legittima, la cognosso, e la devo pagar.
Orazio. Pagatela dunque, signore...
Pantalone. L’averia da pagar, ma avendo fatto el vestiario, fenio e tutto, faremo el ziro de sta cambial, e chi s’averà da dar, pagherà.
Orazio. Vi dico che non voglio altro vestiario.
Pantalone. Me maraveggio, la m’ha da mantegnir la parola.
Orazio. L’insolenze del figlio mi disimpegnano di più trattare col padre. Domani marcerò altrove colla mia gente, e voi pensate a pagarmi.
Pantalone. Vedistu, tocco de anemalazzo? (ad Ottavio)
Ottavio. Vi prego di lasciarmi dire...
Pantalone. Tasi là. Caro sior capitanio, la prego de compatirlo. In grazia mia la lo compatissa; la sa quanta stima, quanto rispetto che gh’ho per ela. Finalmente, se el fio l’ha offesa, el padre no ghe n’ha colpa. (Se nol tol sti abiti, la xe la mia ruvina). (da sè)
Orazio. Voi meritate che facciasi per la bontà vostra ogni sagrifizio; ma l’onore non mi permette quietarmi senza una giusta soddisfazione da chi m’ha offeso.
Pantalone. La gh’ha rason. Animo, sior, domandeghe scusa. (ad Ottavio)
Ottavio. Caro padre, pria di obbligarmi a un tal passo, permettetemi che io vi renda ragione...