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L'IMPOSTORE | 161 |
amoroso fratello, che dopo essersi rovinato lui, va rovinando me ancora.
Orazio. Io non intendo che per mia cagione s’accendano risse fra due fratelli. Sono obbligato al signor Dottore di quanto sinora ha fatto per me; e se fra i danni che gli ha recato il fratello, conta quelli d’aver me introdotto in sua casa, son pronto a supplire a tutto, se il sagrifizio di cento zecchini non è compensazione che basti.
Dottore. Io i cento zecchini non li ho accettati.
Orazio. Non resta per questo ch’io non li abbia sagrificati e perduti.
Ridolfo. Ah, povero me! Mio fratello vuol vedermi precipitato!
Dottore. Io vedervi precipitato? Parvi poco quel che ho fatto sinora per voi?
Ridolfo. Quel che avete fatto sinora non è niente, se non fate anche questo.
Pantalone. (Sto sior el vol far tor a so fradello la medesina per forza). (da sè)
Orazio. Lasciate, signore; non inquietate più per mia cagione il signor Dottore. (a Ridolfo)
Dottore. Ella non mi dice più auditore?
Orazio. Capisco che siete stanco della mia amicizia.
Ridolfo. Vedete? Siamo rovinati, siamo precipitati; siete un traditore di voi medesimo e del vostro sangue. (al Dottore)
Dottore. Andiamo, che si faccia tutto. Che vada tutto. Son qua, signor Pantalone; faccio la sicurtà io per diecimila ducati. (Se s’ha d’andar in rovina, si vada; quest’indiscreto di mio fratello non potrà dire che io non abbia fatto di tutto per contribuire alla sua fortuna). (da sè)
Pantalone. No, caro sior Dottor, compatirne. Questa la xe una cossa che fe per forza, e mi no l’ho da comportar, e mi la vostra piezaria no la devo accettar.
Dottore. (Manco male). (da sè)
Orazio. Bravo, signor Pantalone; ora capisco il mistero. È un pretesto quello della sicurtà. Mi avete lusingato per poi deridermi, ma giuro al cielo, me ne renderete conto.