L'etimologia e la storia arcaica del nome «Napoleone»

Pio Rajna

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«Napoleone» Intestazione 30 giugno 2017 75% Da definire

Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891)


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L’ETIMOLOGIA E LA STORIA ARCAICA


DEL NOME «NAPOLEONE»





Di un nome storico così strepitosamente famoso è troppo naturale che s’abbia una certa curiosità di conoscer l’origine. Una specie di origine, quando Napoleone era tuttavia fanciulletto, l’avevano bell’e trovata a modo loro i suoi compagni della scuola di Brienne; e sentendo, o immaginandosi di sentire dalla bocca sua ch’egli si chiamasse Napoglioné, l’avevano ribattezzato La paille au nez1.

Senza nulla saperne, e battendo vie molto diverse, gli autori di questa spiegazione venivano con quel loro «naso» a incontrarsi con un erudito solenne, che trent’anni innanzi s’era trovato anche lui alle prese col medesimo vocabolo. Avendo ad illustrare un certo sigillo di bronzo d’un’Alesina de’ marchesi di Monferrato, moglie di un Napoleone «de filiis Ursi», Girolamo Francesco Zanetti s’era domandato, donde mai questo nome derivasse; e movendo dai risconti i che gli pareva aver dinanzi in Coleone, spiegato dal Fontanini e da altri per Capo di leone, e nel troppo chiaro Codevacca, aveva creduto di poter affermare che Napoleone dicesse Naso di leone2. Ma, ahimè! cosa veramente sia Coleone, Colleone, «seu», come dice lo Zanetti medesimo, «Coglione», sa e vede ognuno cui non metta una benda agli occhi un’erudizione falsa e la paura di far sfregio a un casato illustre. Quanto al Codevacca, gli potremmo rimproverare quel de, che in Napoleone non ha rispondenza, se a tranquillarci l’animo per questa parte non s’offrissero altri composti che ne vanno privi del pari, come sarebbe a dire Buccabitello (-u), Voccabitello, in documenti salernitani del secolo X3, e, per [p. 90 modifica]citare esempi ancor più opportuni, Armaleone nell’Umbria del niilledugento e di tempi posteriori4, ossia, a mio credere, Almaleone. Anima di leone5, e Capoleone nella Toscana del secolo dodicesimo6. Ma pur troppo il cansar questo scoglio non serve proprio a nulla; giacché, se agli occhi dello Zanetti e dei suoi contemporanei naso e napo potevano non parer disgiunti che da un semplice solco, a quelli della linguistica odierna essi appaiono invece separati da un abisso. E non vale nemmeno il venir caritatevolmente in soccorso dell’archeologo veneziano colla notizia, atta a dargli un sussulto di gioia, che nella Toscana un grosso naso si chiama scherzosamente nappa; chè nappa non è ancor napponapo; e, quel ch’è peggio, la forma di naso soggetta ad essere berteggiata con questa designazione, non ha proprio, come subito vede chiunque rifletta donde la metafora sia tolta, somiglianza di nessun genere col naso del re delle foreste.

Io non so se l’etimologia zanettiana sia rimasta a galla nell’età napoleonica e nella successiva, e se abbia trovato fede; credo bensì che anche indipendentemente da essa il nome sia parso in generale più o meno coscientemente, come del resto dovette parere a certuni ab antiquo7, da dividere come lo Zanetti lo divideva; e pensò che la mezza spiegazione che così pareva affacciarsi, sia bastata in generale ad acquietar la coscienza, ed abbia [p. 91 modifica]rattenuto, e rattenga tuttora, dal cercare più addentro. Cosa mai infatti di più lucido che Napoleone nella seconda sua parte? E non trova esso forse luminose analogie anche in un mondo ben diverso da quello dove lo Zanetti, convinto di aver a fare con un nome «iis adcensendum quae per Italiae fines barbarico aevo ex ignorantiae latebris ubique erupere», andò a prender le sue? Quella intanto, a lui certo ben cara, di Timoleone; e l’altra, meno eroica, ma più valevole agli occhi di uno storico, del comunissimo Pantaleone, cui, beninteso, si raccomanderà qui caldamente — perchè le ceneri napoleoniche, se ancora rimangono nel loro sarcofago, non fremano d’ira — di non rammentarsi per nulla che il veneziano Pantalone non sia che un suo deturpamento. E a Timoleone o Pantaleone l’onomastica greca, cui essi appartengono, mette accanto non pochi compagni: Agroleone, Antileone, Aristoleone, Gorgoleone, Deileone, Demoleone, Eurileone, Trasileone, Licoleone, e che altro so io8.

E un composto di Leone il nome nostro potrà sembrare anche a chi cerchi di addentrarsi un po’ più coll’indagine e colla riflessione. I Leoni intanto abbondano quanto mai in casa nostra fin dal primo medioevo; e sono abbastanza numerosi gli accoppiamenti leonini indubitati. Qui mi giova specialmente di rammentare un Tauroleo, padre di un cotale che fa da testimonio nel 1031, menzionato in un documento, greco di linguaggio, ma, a quanto par bene, italiano di patria9. Questo nome ripeterà forse la sua origine da un Leone figlio di un Toro. Ne suscita almeno l’idea un [p. 92 modifica]tro amalfitano, dove abbiamo appunto cotale figliazione10. E il casato Brandileone, cui non toglie di poter risalire molto addietro il non conoscerne io esempi antichi, non è forse, ridotto a integrità, un Ildebrandileone, da riportarsi con buona verosimiglianza a un Leone figliuolo d’Ildebrando11? Ma il Tauroleo potrà anche essere Toro e Leone ad un tempo, alla maniera dei nostri Giovan Maria, Carlo Alberto, ecc. ecc. Sia comunque si voglia, se dopo di ciò riflettiamo come tra i nomi non manchi di mostrarcisi un Napo, possiam crederci in porto: solo rimanendo dubbiosi, se Napoleone sia un Leone figlio di un Napo, «Leo de Napo», oppure invece un Napo e Leone simultaneamente.

Ma una considerazione più attenta non tarda a respingerci in alto mare. Questo nome di Napo a me non è occorso che nella famiglia dei Torriani, anzi, in un periodo ristretto della sua storia12. Vedo chiamati così due tra i giovani rampolli di questa famiglia, che, scampati alla catastrofe del 1277, ebbero, par bene, [p. 93 modifica]a trovar rifugio presso il loro consanguineo Raimondo, patriarca d’Aquileia, volgendosi poi l’uno alla vita ecclesiastica, l’altro - e con notevole fortuna - alla civile e militare13. Ma costoro certamente ripetevano il nome dal Napo, rispettivo nonno e prozio, che per quella catastrofe si vide trabalzato dalla signoria di Milano alla gabbia di Castel Baradello; ed è verosimilmente per contrapposto a lui che il Napo figlio di un figlio suo si trova designato col diminutivo. Così è solo del personaggio più antico che noi ci s’ha da occupare14. Ed egli è Napo bensì; ma del pari che Napo è anche Napoleone15; e non so a chi possa mai parer dubbio che quel Napo non voglia concepirsi che come uno scorciamento familiare, a quel modo che Bartolo non è se non Bartolommeo, Caie, Caterina, e che già si disse Cavalca per Cavalcabue, Benci per Bencivenni, Caccia per Cacciaguerra, Bati per Batista, e via discorrendo16. E allora si capisce ottimamente come della forma [p. 94 modifica]Napo si servano abitualmente i cronisti milanesi17, che appunto ci ridettono l’uso familiare, mentre gli scrittori forestieri sogliono invece dar l’altra18.

Ma se Napo non è un nome proprio, ossia qualcosa che pretenda a un certo qual privilegio di potersi sottrarre al dovere di dar conto esatto di sè medesimo, non si vede, per ora almeno, in che modo dentro a Napoleone il signore delle selve possa ruggire. Col napus latino19 - ignobile individuo della famiglia dei cavoli - non è davvero immaginabile che la belva possa in nessun caso aver acconsentito ad accoppiarsi.

Ecco dunque il problema darsi a conoscere più oscuro che non ne avesse l’aria. Ma, s’egli è cosi, sarà bene non muovere altri passi senza aver raccolto i dati di genere positivo che venga fatto di mettere insieme. Conviene indagare un poco la storia del nome, in quanto cotale storia possa dare indizi riguardo all’origine, sia per suggerire o sorreggere affermazioni ed ipotesi, sia per escluderne.

Cominciamo dal notare che il nome, fino ai tempi moderni, apparisce solo in Italia. Chi mi citasse il martire di cui gl’imperialisti francesi celebrano la festa il quindici agosto, e me lo dicesse alessandrino, o almeno fatto morire ad Alessandria, mostrerebbe di avere bensì qualche nozione agiografica, ma di essersi [p. 95 modifica]fermato sulla soglia. Che questi invece che alessandrino sia romano per altri, non è cosa che io voglia opporre: la pretesa romanità, per quanto accolta dai Martirologi ufficiali dei Pontefici20, è di origine spuria, e fu negata ben a ragione dai Bollandisti21. Ma il bello si è che il santo non ebbe a diventare Napollone so non per effetto del desiderio di trovare ai Napoleonidi un patrono celeste: fino allora esso non era mai stato altro che Neopolis o Neopolus22.

Nell’Italia stessa di Napoleoni non ci fu mai grande abbondanza. Fatta quest’avvertenza generale, sulle vicende tarde è inutile che ci si soffermi, e giova che si risalga d’un tratto al secolo XIII, che ci mostra il nome già propagato, e meno infrequente forse che non accada di vederlo poi.

Nei territori settentrionali, oltre ai Torriani, di cui s’è detto innanzi, mi si presenta «comes Napolionus de Crema», menzionato al 127723, e il genovese «Napuleonus de Vultabio», tra i consoli «de placitis» nel 1249, inviato con altri a Papa Urbano nel 126324. Scendendo più giù, trovo un «Napuliono de Laerdo» faentino, che fu tra i rappresentanti convenuti a Brescia nel dicembre del 1235 per la rinnovazione della Lega lombarda25. La Toscana mi dà nel 1265 un Napoleone Orlandi, mercatante sanese che presta danaro a Carlo d’Angiò e al quale il re concede la libertà di girare per i suoi dominii26; e, personaggio ben più cospicuo, Napoleone de’ visconti di Campiglia, citato nel 1244 da Federico II a comparire dinanzi alla sua corte27: non punto improbabilmente. [p. 96 modifica]nonostante il lungo intervallo, quel medesimo Napoleone di Campiglia che nel gennaio del 1210 era stato con Ottone IV a Foligno e Città della Pieve28, e che sei mesi prima era a Poggibonsi con un legato dello stesso imperatore, cioè col Patriarca d’Aquileia29.

Nell’Umbria un frate «Nepoleus de Armansano» dovrebb’esser stato presente alla pubblicazione della singolarissima indulgenza che si sostiene concessa da Papa Onorio al Poverello d"Assisi per la sua Santa Maria degli Angeli30. E un Napoleone sbucherà anche dagli Abruzzi nel 124931.

[p. 97 modifica]Questi, in quanto appariscono a noi, son Napoleoni spicciolati. Ma si danno famiglie in cui il nomo si venne propagando giù giù per una lunga sequela di generazioni. Ed ecco affacciarsi subito al pensiero gli Orsini, coi quali esso ebbe a connaturarsi in tal modo, che oramai non si può dire Napoleone senza pensare ad Orsini, Orsini senza pensare a Napoleone32. Da loro appunto ripete i Napoleoni suoi, cominciati essi pure da un pezzo, anche la famiglia dei Buonaparte33.

Pur troppo le genealogie orsiniane del periodo più antico sono così arruffate e spropositate, che non è facile davvero il passare in rassegna, distinguere, e mettere al loro posto i Napoleoni che v’abbiano luogo. Mi studierò tuttavia di adempiere a questo compito come meglio mi consentano gli scarsi dati di cui dispongo. E cosi, per cominciare, mi permetterò di dubitar fortemente che non sia un Francesco Napoleone, come si crede34, bensì un Francesco di Napoleone, l’Orsini che nel 1295 fu da Bonifazio VIII creato cardinale di Santa Maria in Selce35. Un Napoleone schiettissimo è invece il cardinale di S. Adriano, che, insignito del cappello da Niccolò IV sette anni innanzi, visse fino al 1342, personaggio questo che occorre ad ogni poco nella storia di quei tempi36. Egli era nipote di Papa Niccolò III, e nipote in pari tempo di un altro [p. 98 modifica]Napoleone37, stato podestà d’Orvieto nel 125338, senatore di Roma nel 125939, fatto prigioniero a tradimento, insieme con un fra- ed altri nobili di parte guelfa, da Arrigo di Castiglia nel 1268, e tenuto in custodia, prima a Monticello, e poi in Castel Saracinesco, fin dopo la battaglia di Tagliacozzo40. Cugino di questo Napoleone era quel Jacopo di Napoleone, capo all’incontro della fazione ghibellina41: del quale conosciamo un figliuolo, Napoleone come il [p. 99 modifica]nonno, che già si trovò a partecipare ancor egli all’impresa e alle sventure di Corradino42. Quanto al nonno, Napoleone di Gian Gaetano, era stato nel 1240 uno dei «proconsules» del popolo romano43, e nel 1244 ebbe da Innocenzo IV la conferma dei redditi, ossia del possesso, di Vicovaro e d’altre castella44. Finalmente, abbiamo un Napoleone - non so se proprio zio di questo, come si pretende del quale si contano fatti che a me non è stato possibile di appurare, tra cui segnatamente che avesse parte nella spedizione sicula di Arrigo VI. Sia di ciò quel che si vuole, egli ad ogni modo ci è messo innanzi in maniera non dubbia da un documento privato del 120045.

[p. 100 modifica]Più su di così non accade di poter risalire tra gli Orsini. Un altro Napoleone, più antico di un par di generazioni almeno, avviene bensì di incontrare in quella stirpe piemontese dei signori di Rivalta, Orbassano e Trana46, che si vuole propaggine della famiglia romana, e che tale potrebbe anche essere, nonostante le fiabe narrate a questo proposito47. Ma se è personaggio sicuro un Amalrico, di cui Napoleone avrebbe ad esser fratello e del quale si conosce una donazione fatta nel 1132, non vedo addotta nessuna testimonianza positiva per l’esistenza del personaggio che importerebbe a noialtri.

Un’altra catena napoleonica presenta la schiatta che diremo de’ Conti della Gaifana, di Coccorone48 e d’Antignano, signora di ampi e copiosi dominii nel territorio di Foligno49. Intorno ad essa fornisce ragguagli copiosissimi Durante Dorio da Leonessa, nella sua Istoria della Famiglia Trinci: uno scrittore dal quale, usando discernimento, si può cavare partito ben maggiore di quello che la sua qualità di genealogista, e genealogista del secolo XVII, potrebbe far supporre. Che, se nell’opera sua (parlo dopo aver speso tempo parecchio per appurare lo cose) abbondano di sicuro le inesattezze, i rannodamenti erronei ed arbitrarli, ed anche i ricami fantastici, parte suoi propri, parte da lui accettati, non è già ch’egli non abbia ammassato, frugando in molti archivi, una ricca suppellettile di notizie ben genuine. Del resto, per ciò che spetta a noi, la maggior parte dei dati ch’egli ci somministra [p. 101 modifica]può fortunatamente essere sottoposta a riprova, ed esser spogliata di ciò ch’egli vi mescola d’inesatto e non vero. Ed anche di nostro possiamo aggiunger del nuovo.

Il Dorio ci fa dunque sfilar dinanzi una schiera di ben otto Napoleoni, l’ultimo dei quali vissuto nella seconda metà del secolo XIV e al principio del XV50. Fra loro basterà che noi si considerino i tre più antichi, rifacendoci dal meno remoto.

Questi ci si dice morto nel 125351; e così dev’esser realmente. Nella sua gioventù aveva servito Ottone IV nell’impresa di Puglia52, ricevendone in compenso l’anno 1211 confermazioni di feudi53. Egli è poi di coloro che si pretendono aver assistito al bandimento del gran perdono di Assisi54. Fido a Federico II, nemico alla Chiesa, dovette più d’una volta essere spogliato delle sue castella, che Gregorio IX fece distruggere nel 1235 dagli abitanti di Bevagna, loro concedendo i territorii: concessione rinnovata poi da Innocenzo IV nel 124955.

[p. 102 modifica]L’esser tenacemente ligia all’impero e il mettere per esso di continuo a repentaglio le sue fortune, era caratteristica spiccatissima di questa famiglia56. Di ciò vengono a fornirci le prove anche due diplomi, l’uno del 1205, l’altro del 1200, coi quali a Napoleone stesso, a fratelli, a cugini, si restituirono, con parole di alta lode, ciò che ben bisogna supporre fosse stato lor tolto57. E i medesimi sentimenti aveva professato la generazione antecedente con Rainaldo e con un altro Napoleone, padre e zio del personaggio di cui s’è parlato58. Io non ho la sicurezza che Napoleone fosse sempre vivo, quando, sul declinare del 1185 dimorò in Coccorone per dieci giorni almeno il Barbarossa59, che di colà datava un privilegio in favore del vescovado d’Ascoli60 e i diplomi coi quali erano riammesse alla sua grazia duo terre che avevano provato il rigore delle sue vendette: Matelica61 e Spoleto62. A lasciar adito al dubbio son costretto dal vedere che in due di queste carte è nominato tra i testimoni! Rainaldo63 - morto del resto di sicuro anche lui avanti il dicembre del 120064 - in [p. 103 modifica]nessuna il fratello. Ma otto anni innanzi ambedue erano accorsi a Federico nelle parti di Ravenna; che di ambedue leggiamo il nome appiè di un atto che li tocca da vicino, e che potè ben essere opera loro: la conferma ai consoli e al popolo folignese del territorio compreso entro confini che avevano ad essere i consueti, colla giunta di Bevagna e Coccorone, che dovevan prima appartenere a Spoleto65.

Da questo Napoleone vuol bene col Dorio distinguersene un altro, al quale, secondo lo storico de’ Trinci, il Barbarossa deve essser stato largo di favori fin dal 115566. Egli ci è dato come zio della coppia Napoleone-Rainaldo, cioè qual fratello di Monaldo loro padre.

A lui la gloria maggiore viene da un figlio; ossia, da quell’altro Rainaldo, che, datosi a vita monastica, morì nel 1222 vescovo di Nocera e meritò d’essere venerato per santo, diventando il principale protettore della città di cui per quattr’anni aveva governato [p. 104 modifica]le anime67. Siccome la nascita di S. Rainaldo è messa da testimonianze contro cui non ho alcun motivo d’insorgere68, al 115769, quella del padre suo, padre in pari tempo d’altri figliuoli, tra i quali nulla dice che Rainaldo fosse il primogenito, vorrà mettersi verso il 1 130, se non più addietro.

È questa la data più remota che mi sia riuscito finora di assodare per il nome nostro; che, del Napoleone de’ signori di Orbassano, che ci riporterebbe alquanto più su, s’è visto come sia scarsa, per non dir nulla affatto, la consistenza; e le cose stanno anche peggio per un Napoleone, spettante al ceppo donde uscirà poi il Conte Ugolino, che si vuole vissuto intorno alla metà del secolo decimoprimo. La fonte meno prossima cui abbia saputo risalire per costui, è Paolo Tronci, in quelle Memorie Istoriche della Città di Pisa, che videro la luce a Livorno nel 1682, quando l’autore era morto70. Quivi «Neapolione Conte di Donoratico» figura tra € dodici Nobili Cittadini di Pisa», che si affermano aver dato principio «alla pia Opera della Misericordia» il 15 agosto del 1053, contribuendo [p. 105 modifica]«venticinque libbre di Grossi per ciascheduno»71. La notizia, circostanziata parecchio, ha l’aria di provenire da un documento; ma bisogna subito soggiungere che in tal caso, o il documento era falso, o ne fu mal letta la data. Ciò si deduce, e dai «Grossi» moneta, ch’io sappia, sconosciuta affatto a quei tempi - e dalla qualifica di «Dottore», attribuita nientemeno che a tre fra i dodici fondatori; giacché, se la designazione di «legis doctor» o «doctus» - non mai di «doctor» nudo e crudo - s’incontra anche alquanto prima che sorgesse lo Studio Bolognese, essa è allora troppo rara, perchè la frequenza che qui abbiamo, al 1053 soprattutto, sia in nessun modo ammissibile. E sarà certo per via del Tronci, o del documento da lui usato, che si trova messo intorno alla metà dell’undicesimo secolo il padre di S. Guido, da chi asserisce che questo padre sia un Napoleone72; il che se pur fosse, non gioverebbe punto a noialtri, dacché rispetto all’età di questo povero santo c’è buio fitto. Del resto, il Litta e il Passerini, che con ricchi materiali hanno ricostruito modernamente la genealogia della famiglia Della Gherardesca, non sanno in essa indicarci nessun Napoleone anteriore al secolo decimoquarto73.

La conclusione è dunque che il nome Napoleone esce alla luce abbastanza tardi, nell’Umbria e in territorio romano74, vale a [p. 106 modifica]dire nelle regioni centrali dell’Italia75. Soggiungiamo, a complemento di questa parte positiva dell’indagine, che esso ci si mostra nei testi latini, soli a darcelo per l’età più antica, con una grande svariatezza di forme. Ho trovato per il nominativo Neapoleo, Neapuleo, Neapoleon, Napuleo, Nepuleon, Neapoleonus, Neapolionus, Napoleonus, Napuleonus, Napulionus, Nepolionus; e altrettanta moltiplicità s’incontra nei casi obliqui. Né l’incostanza si offre solo da testo a testo, da documento a documento; anche una stessa carta, per non dir di scritture più ampie, ci dà qui una cosa, là un’altra; e così, per esempio, avremo accanto a Nepuleon e Nepuleonem un Neapuleoni76, accanto a Napollonus, Nepoleonus e Neapoliono o Neapolionum77. S’intende che nel volgare parlato la varietà non poteva aversi che accoppiata con una differenza di luogo o di tempo; ne in esso avevan certo riscontro tutte quante le forme che il latino ci presenta78. Chiaro, dopo quanto [p. 107 modifica]s’è visto, come abbiano a meritare specialmente d’essere segnalati gli esemplari che incontriamo nelle regioni dove il nome ci s’è affacciato più di buon’ora; quindi il Napolione e Napulione delle storie romanesche edite dal Muratori79, duplice rappresentazione di una stessa pronunzia.

Ed ora ritorniamo al problema dell’origine. Affrettiamoci a dire che la vecchia idea della composizione non s’avvantaggia per nulla dei Nepo- Nepu-, che s’incontrano tra l’altre forme del nome. Di questo Nepo sapremmo ancor meno cosa farci che del Napo, di cui s’ebbe a far gitte. Chi pensasse al nepos latino di caso nominativo, non solo concepirebbe un accoppiamento senza riscontro, ch’io sappia, nella nostra onomastica, ma si troverebbe subito a fronte la fonetica; poiché, se il nèpos è realmente riuscito a perpetuarsi tanto quanto ancor esso accanto al riflesso, di gran lunga più vigoroso, dei casi obliqui, esso suona allora nievo, non nepo. Solo arzigogolando fuor d’ogni probabilità, oppure se la composizione, contro ciò che i dati di fatto permetterebbero di supporre, fosse antichissima, il nepo si potrebbe giustificare.

Ma addentrandoci per quest’andito, ci sarebbe fors’anche il verso di riuscire ad un altro sbocco. Supponiamo che tra i Nepo– e i Napo- spetti ai primi il vanto della genuinità maggiore; o non sarebbe mai che Nepolione, donde poi, per attrazione analogica o per falsa etimologia che voglia dirsi, Nepoleone, fosse un derivato di Neopolo, sicché, senza averci nessun merito, finissero in fondo per trovarsi dalla parte della ragione gli autori della gherminella che s’è visto essere stata fatta al calendario80? La riduzione di Neo– a Ne– viene ad esser spiegata dalla tendenza a toglier di mezzo l’iato e dalla condizione di protonicità; e non sarebbe troppo dissimile da quella che ci dà Rimaggio, Ricorboli da Rio-maggio, Rio-Corboli81, mi’ padre da mio padre, Firenze da Fiorenze, e via discorrendo82. Quanto all’uscita, niente di più spiegabile [p. 108 modifica]della derivazione che qui s’avrebbe, e che solo ci metterebbe nel bivio di domandarci, se si tratti di qualcosa operatosi nell’ambiente greco originario83, oppure invece in territorio latino. E ad accrescere ancora le agevolezze della spiegazione, s’aggiunge che i Martirològi per la più parte non hanno Neopolus, bensì Neopolis84; e quantunque i Bollandisti abbian creduto di dover preferire la prima forma, è invece la seconda che dev’essere genuina, siccome la sola che si trovi realmente attestata nell’onomastica greca85. Però la parola non è nemmeno costretta a chiedere al suffisso la ragione del suo i86.

Eppure a questi adescamenti non è da cedere. Che le analogie addotte sopra siano tutte di -io-, non di -eo-, e che ciò che nel caso nostro ci s’avrebbe piuttosto da aspettare sia appunto anzitutto una riduzione da neo- a un nio-87, che poi, quando si facesse qualche altro passo, metterebbe capo a gno-, non è cosa a cui sappia dare importanza. Bisogna andare ben cauti nel prescrivere leggi alle vocali atone, troppo simili a canne docili ad ogni soffiar di vento; anziché di leggi vere e proprie, è per esse a parlare il più delle volte di tendenze, suscettibili di essere variamente determinate; e il fatto si è che una via diversa dalla più naturale, se anche diversa pur da quella per cui si dovrebbe esser messo Neopolione, ha pur battuto Neapolis e famiglia, cioè un vocabolo che ha con Neopolo affinità ben strette.

Ma se queste ragioni dicono poco, altre invece dicono assai. Il mutamento di Neopolione in Nepolione non è di quelli che si potessero operare senza lasciar traccia di sé. Accanto alla nuova forma - nella tradizione scritta perlomeno, così tenacemente conservativa - noi ci si dovrebbe aspettare di veder persistere anche l’antica; e invece, tra tanta svariatezza quanta s’è vista, nessun Neopolione mette mai fuori il capo. La cosa riesce tanto più [p. 109 modifica]significativa, perchè, se non abbiamo i Neo–, abbiamo invece in gran copia i Nea–: dei Nea–, che nessuno, specialmente dinanzi a labiale, vorrà mai credere trasformazione di Neo-, Questo per la parte fonetica; e difficoltà non meno gravi si presentano sotto il rispetto storico. Si propende per l’idea che il supposto Neopolione sia di fabbrica italiana? Vuol dire che il nome primitivo doveva dunque correre per l’Italia; e a me invece non è accaduto di rintracciarne esempi, anche cercando in dominii dove di nomi greci non è davvero penuria88. Si preferisce pensare che ci venisse già bell’e fatto di fuori? In tal caso dovrebbe bene mostrarsi tra i Greci, presso i quali all’incontro io non l’ho punto saputo scovare89, e dovrebbe almeno venire a galla tra noi più presto che non faccia, se non altro nelle regioni che nel medioevo mantennero col mondo bizantino relazioni assai strette.

Ma se Napoleone è un derivato, non un composto, e non vien da Neopolo, o donde mai avrà esso a venire? - La risposta è oramai così ovvia, che non pochi lettori l’avranno sulle labbra prima che io loro la suggerisca. Donde, se non da Napoli? Il che vai quanto dire che Napolione-Napoleone - questo secondo da ritenersi sempre anche con siffatta etimologia emanazione della prima forma sotto gì’ impulsi già accennati - tanto importa suppergiù quanto «Napolitano».

Per spontanea che l’idea si presenti, e per quanto nel momento attuale abbia come l’aria di una necessità, non ci contenteremo di ciò tuttavia. Vediamo cosa essa sappia addurre a sua conferma.

Giusto riconoscere anzitutto che il sentimento, perlomeno, di una stretta parentela tra Napoli e Napoleone è antico quanto mai. Questo, rettamente intesi, dicono senza nessun dubbio i Nea-90; e un Nea— «Neapoleonus» - è dato proprio ancbe dal primo esempio del nome ch’io possa osservare coi miei occhi in un documento, cioè nel diploma largito nel 1177 dal Barbarossa al comune di Foligno91. Orbene: il non essere da riporre nessuna fiducia nelle facoltà e nei criteri etimologici del medioevo, non toglie che non deva [p. 110 modifica]avere un certo valore il vedere imporsi anche alle menti di allora, in un tempo tanto più prossimo alle origini, un collegamento che a noi pure ha finito per apparir naturale. E il valore s’accresce, in quanto il collegamento s’impone in certa maniera in contrasto coll’attrazione che aveva da esercitare un ravvicinamento ben più consentaneo alle tendenze dell’etimologia popolare; quella per cui nella seconda parte del vocabolo s’era portati a vedere un «leone».

Che poi un aggettivo preso da un nome di città si presti quanto mai, per ragioni che ognun vede da sè, a diventar nome di persona, è cosa più che patente. Ho io bisogno di citare Adriano, Fiorentino, Romano, Gaetano? Cotal uso, comune oramai ad ogni popolo, era nell’età media, senza confronto meno avvezza di noi a domandare i suoi nomi al paradiso, di gran lunga più frequente e svariato che non sia attualmente; sicchè s’avevano allora e Padovani, e Bresciani, e Bergamini, e Todini, ed Eugubini, e Nocerini, ecc. ecc.92.

E la geografia aggiunge ancor essa la sua voce. S’accorda ottimamente colla derivazione napolitana l’apparire che il nome fa anzitutto al centro della penisola.

Quanto alla fonetica, essa dichiara che l’ipotesi l’appaga perfettamente. Per mettere le cose in maniera che Neopolo, o piuttosto Neopoli, avesse la possibilità di farsi valere, s’erano dovute supporre più genuine le forme che portano Nepo anzichè Napo; ma il vero si è che Napo ha dalla sua, e la frequenza senza confronto maggiore (considerato che son bene da inscrivere sotto le sue bandiere anche i tanti Neapo-), e l’accorciamento torrianesco93, che dà a vedere la saldezza dell’a. Nè l’indebolimento dell’a atono in e può riuscir punto ostico94, meno che mai in un nome [p. 111 modifica]proprio e d’uso non frequente, ossia in una parola poco viva di necessità nella coscienza dei parlanti, e soggetta pertanto ad essere ripetuta con minore esattezza. Rispetto poi all’i dell’uscita, partecipiamo nel modo il più manifesto a quella condizione particolarmente favorevole che era parsa da far valere in favore dell’altra ipotesi.

Resta da chiarir bene il punto principale. Qual grado di ammissibilità di verosimiglianza ha mai la deduzione di un aggettivo da un nome locale mediante un suffisso -one, o -ione che abbia ad essere?

Dato il suffisso -ione, ci si aprirebbe dinanzi, come s’apriva movendo da Neopolo, anche la strada ellenica95. Il greco ha un numero ragguardevole di aggettivi in -ίων presi da nomi di città o di provincia96. Ora, l’applicazione di un suffisso greco ad un vocabolo greco esso stesso, designante una città che si mantenne prevalentemente greca per molta parte dell’età imperiale97 e dove elementi greci si vengon mostrando anche durante il medio evo98, deve apparire in sè stessa cosa verosimile. E la verosimiglianza parrà accresciuta dal fatto che il greco Νεαπολίτης si fece strada presso i latini, e che non è se non un’ibrida sua figliazione la forma stessa di cui siamo avvezzi noi a servirci. - Ma questo che pare un argomento in favore, è invece una ragione contraria assai forte. Il derivato greco di Νεάπολις vivo nella mente di tutti, era Νεαπολίτης, non Νεαπολίων. Supporre che accanto alla voce comune [p. 112 modifica]riuscisse a perpetuarsene un’altra ipotetica, senza confronto meno usuale di sicuro, sarebbe un attribuire all’ellenismo napolitano una potenza esagerata. E la poca credibilità diventa incredibilità addirittura, quando si considera che questo Νεαπολίων, insolito e straniero, dovrebbe aver avuto la virtù di perpetuarsi per molti secoli sotterra.

È dunque al mondo latino che noi s’ha da guardare; e qui incontreremo subito una grande e svariata moltitudine di derivati in -one e -ione99. Tra le due uscite, già nel linguaggio dell’antica Roma ogni differenza era venuta a mancare100; ma sta - e giova a noi che stia - che nella fase romanza il suffisso –one dà a vedere una maggiore vitalità, sì da mantenere anche attualmente una vigorosa potenza generativa, nell’altro venuta meno invece da un pezzo. Ora, tra le classi di parole che ci sfilan davanti, ce n’è una che dovremo invitare ad arrestarsi: quella che comprende Guascone Schiavone, Frisone, Borgognone, Francone101 insiem con Francione102, ecc. ecc. I più tra questi vocaboli non son già prodotti, bensì produttori di nomi locali; ma tale non è il caso per tutti103. Francione ci riporta manifestamente a Francia; Borgognone, «Burgundione», non genera nulla, e sebbene in realtà non esca da Borgogna, «Burgundia», che è vocabolo assai più tardo104, nel medioevo pareva uscirne di certo a tutti quanti, il che per le conseguenze viene ad essere il medesimo; e un esempio assai [p. 113 modifica]prezioso per la sua lucidezza è Marchio (giova non uscire dalla forma latina), che oltre a dire sovrastante della marca105, vale anche «marchigiano», e quand’anche fosse voce che non s’incontrasse in volgare, dimostrerebbe pur sempre, con quali attitudini il suffisso vivesse nelle coscienze dell’età di mezzo106.

Si dirà forse che cotali raffronti non valgono per noi, in quanto vi si fa capo a un nome di provincia, non di città? - Subito sarà da rispondere che l’idea di tener separati i nomi che designino gli abitatori di un territorio vasto da quelli di un solo aggregato di case, è estranea al linguaggio. Una medesima terminazione ci dà Francese e Milanese, Italiano e Pisano, Marchigiano e Lodigiano, Angioino e Fiorentino, Savoiardo e Nizzardo, e sul tipo di Napolitano, Salernitano, Amalfitano, si fabbricò un tempo anche Calabritano107. Le differenze che qui s’hanno dipendono da tutt’altre ragioni che dalla coscienza linguistica. E il concetto che nel vocabolo si racchiude è sommamente elastico e obbedisce docilissimo alle vicende delle cose, sicché Romano cominciò a designare gli abitatori di un meschino villaggio, e finì per comprendere quelli di gran parte del mondo conosciuto in antico. Del resto, quando saranno stati raccolti gli aggettivi che l’uso reale parlato - e non lo scritto, troppo da esso diverso - deduce dai nomi di luogo, son convinto che parecchi -one si vedranno figurare lì dentro. Io intanto posso citare Montagnone per «nativo di Montagna», località sovrastante a Sondrio; e non credo abbia a nuocergli troppo l’aver «Montagna» dovuto certo designare primitivamente una plaga108, anziché, come ora, l’insieme degli abitati che vi si [p. 114 modifica]trovano sparsi109. Che se il numero dei derivati in -one risulterà nondimeno di gran lunga più scarso che quello delle voci dedotte con molti altri suffissi, non sarà da farne alcuna meraviglia, quando si consideri che in questa terminazione s’è a poco a poco fatto troppo vivo un senso da cui qui la mente rifugge, soffocando quelli che invece potevano promuoverne l’uso.

Con ciò eccomi condotto a domandarmi, con quale senso precisamente abbia Napolione ad esser stato adoperato in origine. Un puro e semplice equivalente di Napolitano io non ce lo saprei vedere. Che bisogno ce n’era mai? Verissimo che la coesistenza di vari aggettivi toponimici, è caso assiii frequente; e così s’avrà Ravennate e Ravignano, Sondriese e Sondrasco, Bormiese e Bormino, e via discorrendo. Ma questa molteplicità è in generale estranea al linguaggio reale; Ravennate, Sondriese, Bormiese, son forme unicamente letterarie, non altrimenti che il «Lucanus» di molti testi latini per Lucchese, e il «Bergomas», «Bergomensis», «Pergamensis», «Pergameus», per dire Bergamasco. Le eccezioni che si manifestino dovranno aver sempre un loro speciale perchè110.

Si potrebbe congetturare che anche nel caso nostro Napolitano fosse la forma tanto o quanto erudita, Napolione la forma popolare. E l’idea non rimane esclusa dal fatto che chi voglia essere proprio raffinato ricorra a «Neapolites», «Parthenopensis»111, «Parthenopaeus». C è grado e grado nella raffinatezza, come s’è visto testé anche nella figliolanza di Bergamo. Ma se così fosse, non saprei spiegarmi che Napolione non avesse lasciato tracce ben maggiori. Qualcosa di vero può qui contenersi, ma non tutto il vero. E allora?

È da considerare che i toponimici sono usati più dai forestieri che dagl’indigeni, a quel modo che il nome di ciascuno di noi è profferito senza confronto più spesso dagli altri che da noi stessi. E tra i forestieri son quelli di terre vicine che hanno le occasioni di gran lunga maggiori di servirsene, alla maniera stessa che noi ci si sente [p. 115 modifica]chiamare soprattutto dalle persone della famiglia. Ora, siccome, pur troppo, il sentimento che ebbe a predominare in passato (lasciamo stare il presente!) tra le popolazioni confinanti, fu sempre quello di un tal quale disprezzo, ne viene che le designazioni abbiano una forte tendenza a prendere un colorito dispregiativo: tendenza che darebbe luogo ad effetti ben maggiori, se contro l’uso straniero non lottasse pertinace l’indigeno, che alla ragione del numero oppone il gran fattore di una fermezza, continuità, uniformità ben maggiore. E all’uso indigeno bisogna che anche i forestieri si pieghino, quando son costretti, come avvien per esempio in molti fatti della vita pubblica, a parlare in modo amichevole e sereno. Però il nome trionfa molto spesso sul nomignolo. Ma altre volte bisogna che esso lo lasci pur sussistere accanto a sè, e in non pochi casi gli ceda il campo, non altrimenti da quel che avvenga per i soprannomi personali; sennonchè allora avvien poi che il nomignolo finisca per spuntarsi, e perda la sua significazione maligna.

Questa, s’io non m’inganno, non è ancora venuta a mancare nei derivati francesi in -ichon, quali Berrichon, Bourbonnichon, Nivernichon; e persiste di sicuro in certi nostri in -atto, come Cajolatt, Malencatt, datimi da quel territorio stesso che mi ha fornito Montagnone. Invece non si sente più in Chioggiotto, Varesotto, nei quali tuttavia è da supporre indubbiamente in origine. E neppure si sospetterebbe in molti, di cui non mi faccio a parlare, e per non divagar troppo, e per non avventurarmi a discorrere prima di aver ben ponderato le cose. Non tacerò tuttavia che se tra i derivati in -ino non pochi son da ritenere immuni affatto da ogni tinta satirica, così non è a dire, secondo me, di quelli che furon dedotti con un -ino diminutivo, o che venne ad essere percepito come tale. Tra il diminutivo e il dispregiativo i legami son stretti; sono diminutivi-dispregiativi l’-atto e l’-ichon detti dianzi; ed è bene di qui che ripetono il loro sapore speciale crispino, nicoterino, cairolino, e così via.

Orbene: è precisamente un dispregiativo ch’io vedo anche nel Napolione. S’egli è cosi, riesce ben naturale che fuori dell’uso onomastico non appaia nelle scritture. Ma la conoscenza di questo Napolione dispregiativo, in cambio di un semplice ravvicinamento etimologico congetturale, può ben essere la ragione che portò a scrivere Neapolio ecc. i primi almeno che ebbero ad introdurre cotale grafia. Un significato dispregiativo e satirico è spiccatamente caratteristico per gl’infiniti nomi latini del tipo nostro112. In [p. 116 modifica]latino questo senso si trova associato del pari coll’idea di un rimpiccolimento e con quella di un accrescimento; accanto a pumilio, pusio, homuncio, graeculio, talabarrio, sinonimo di talabarriunculus113, petro, scheggia114, abbiamo da sostantivi capito, franto, labeo, Naso, che dicono «uomo dalla gran testa», dalla gran fronte» ecc., e da verbi, bibo, susurro, ecc. Nello lingue romanze è seguita una divisione; il francese s’è appigliato al senso diminutivo; l’italiano all’incontro all’accrescitivo. Ma questo senso non è venuto a spadroneggiare dispoticamente qui da noi altro che coll’andar del tempo; ed è bene un esempio di diminutivo il Castellione, Castiglione, Castione, che s’incontra in numerosissimi esemplari per tutta Italia, e nel quale, non altrimenti che in Napoleone, gli etimologisti dozzinali vedono il leone, pur non riuscendo a ficcarcelo in modo altrettanto evidente. Però, mosso dai riscontri veduti poc’anzi, io inclino fortemente a scorgere un diminutivo anche in Napolione. Esso verrebbe allora a corrispondere suppergiù a quel Naporiello, che si è così largamente diffuso modernamente, senza che si sappia dire dove sia nato. Quanto all’uso onomastico, ognuno capisce come al nome si dovette giungere presumibilmente passando attraverso al soprannome. Soprannomi toponimici sono realmente, e furono sempre, cosa comunissima.

A questa maniera, il ruggito che pareva uscir da Napoleone, non è ammutito soltanto, ma ha finito per tramutarsi in qualcosa di opposto; chi aveva l’aria di minacciare clamorosamente, s’è ridotto a sentirsi deriso. Sennonché i nomi poco hanno a temere, poco a sperare dall’etimologia. Significhino ciò che essi vogliano, quando son venuti a incarnarsi in una figura presente al pensiero d’ognuno, suonano nobili o abbietti, a seconda che quella sia l’una cosa oppur l’altra. Cosi, abbia Napoleone significato quel che si vuole in origine, saranno sempre idee di grandezza e di gloria che esso verrà a richiamare anzitutto.

Note

  1. Las Cases. Memorial de Sainte Héléne, 1.» ed., Parigi 1823, I, 153: «Napoléon arriva à l'école militaire de Brienne à l’àge d’environ 10 ans. Son nom, que son accent corse lui faisait prononcer à peu prés Napoilloné, lui valut des camarades le sobriquet de la paille au nez
  2. Sigillum aereum Alesinae e Marchionibus Montis-Ferrati, Venezia 1751, p. xix-xx.
  3. Codex Diplomaticus Cavensis, II, 62, 167, 303, 111, 42, in uso di soprannome.
  4. Dorio, Istoria della Famiglia Trinci, Foligno, 1638, p. 104, 105, 115, 121; Ficker, Urkunden zur Reichs– und Rechtsgeschichte Italiens, n.° 206, 210* e 398. In quest’ultimo documento si legga «comitis», non «comunis».
  5. Quanto siano largamente diffuse le forme alma, arma, è cosa notissima. Anche «Armalutius», Armaluccio, nella schiatta medesima cui appartengono gli Armaleoni, sarà probabilmente un Animaluccio. Dorio, p. 119. Si noti che è fratello di un «Orsellus».
  6. Ficker, op. cit., n.* 195. Trattandosi di una carta di cui m’era vicino l’originale, non ho mancato di accertarmi che non ci fosse di mezzo un errore.
  7. Ciò risulta in modo abbastanza manifesto quando si vede messo nome Armaleone al figlio di un Napoleone (Dorio, p. 104). E di altri Napoleoni nascono dei Verleoni, (ib., p. 109 e 111, e Ficker, Op. cit., n. 206), che vorranno essere forse dei Veri-Leoni, forse altra cosa, ma Leoni più che probabilmente. S’intende che qual riprova dell’etimologia non vale se non l’esempio più antico, ossia quello che non possa chiedere la sua ragion d’essere alla propagazione ereditaria. La stessa origine vorrà attribuirsi anche all’introduzione nella famiglia medesima del nome Brancaleone; ma a rigore solo indirettamente, dacché il primo ad esser chiamato cosi sarebbe figliuolo d’un Armaleone (p. 113). In Brancaleone, a mio credere, il Branca ha valore di verbo, non di sostantivo.
  8. Ἀγρολέων, Ἀντιλέων, Ἀριστολέων, Γοργολέων, Δηϊλέων, Δημολέων, Εὐρυλέων, Θρασυλέων, Λυκολέων. Ho preso questi esempi dal Pape. Wörterbuch der griechischen Eigennamen, 3te Aufl., neu bearb. von Dr. G. E. Benseler, Braunschweig, 1863-1870, p. xxx.
  9. Cod. dipl. Cav., V, 251. Gli editori, nell’indice geografico, hanno trascurato di determinare, o cercar di determinare, la più parte dei nomi di luogo che occorrono nella carta; solo registrano, alludendo ad essa, un «Appium, in agro Barensi». A me nasce un po’ di sospetto che il documento possa forse appartenere a quella Terra d’Otranto, così ricca un tempo di elementi greco-bizantini, che in parte ancora vi persistono. Il sospetto mi è suscitalo da un μαλια, in cui mi domando se sia forse da riconoscere Maglie: idea che può forse trovare qualche appoggio nella titubanza che par di rilevare rispetto al genere da assegnarsi al vocabolo (της τοῦ μαλια). In tal caso dubiterei altresì che il nome della patria di chi fa stendere l’atto, sia scritto, o trascritto, inesattamente; e che dove si dice «απο του κασανου, sia da correggere απο του κασαρανου: da Casarano. anzichè da Cassano. Di Cassani, del resto, non c’è penuria neppure nell’Italia del mezzogiorno.
  10. Non sarà inutile riportare qui come saggio tutte le sottoscrizioni testimoniali di questa carta d’Amalfi, molto ricca di bestie più o meno feroci: «† ego taurus filius stephani de lupino comite de marino testis sum. † pantaleo filius leonis de tauro de leone comite testis sum. † ego leo filius mauri de gregorio comite testis sum. † ego ursus scriva scripsi» (op. cit., II, 75). Tirando le somme, un lupo, un orso, due tori, tre leoni, ed anzi quattro con Pantaleo, che in una discendenza siffatta mostra chiari gl’intendimenti suoi. Su questa onomastica bestiale, così frequente nell’Italia del mezzogiorno, e sulle sue diverse origini, parte greco-latine, parte germaniche, si potrebbe fare uno studio abbastanza curioso. Qui citerò ancora una sottoscrizione che là al caso attuale: un «taurus filius leonis de urso» in tre carte salernitane (op. cit, II, 100, 1G2, 200); soggiungendo, a ulteriore illustrazione del Tauroleo, che il leo de urso può servire di giustificazione, se non di prova, agli editori, i quali hanno messo nell’indice un Ursileo, deducendolo da un genitivo Ursilei (ib. p. 311), che a rigore parrebbe doverci condurre a un Ursileus, ossia a un semplice derivato di Ursus.
  11. Un’altra ipotesi possibile è che in Brandileone s’abbia il saldamento di due casati distinti: Brandi, rampollo sempre di un Ildebrandi, e Leone.
  12. In cambio di Napo, come suol scriversi generalmente, il Litta, al quale faccio capo per le notizie genealogiche, usa Nappo, e conseguentemento Nappino. A ciò, m’immagino, lo avrà portato il Corio, che dice più volte Nappo, e direbbe forse sempre cosi, se noi avessimo davanti l’autografo. Giusto avvertire come cotale scrittura sarebbe quella che meglio s’accorderebbe colla pronunzia e colle abitudini grafiche del dialetto milanese, il quale pone capp, quiett, decrett, Europpa, grecca, poetta, Cletto, mirando - si badi - a conseguire colla doppia, non già l’intento voluto dalla rappresentazione del parlare toscano, bensi la brevità della vocale antecedente.
  13. Fra questi due personaggi il Litta fa bene un po’ di confusione, quando, a quello di essi di cui dà conto nella tavola v e che è il secolare attribuisce un canonicato nella patriarcale di Aquileia: dignità che ritorna, assegnata all’altro, nella tavola viii, e che probabilissimamente spetta a lui solo.
  14. Veramente il Litta, cominciando a discorrerne, mette avanti l’idea di un omonimo alquanto anteriore; che, dettolo «podestà di Bergamo nel 1235», soggiunge: «se pure non vi era un altro Nappo, giacchè di colui di cui scrivo non sento più a parlare per 25 anni, cioè fino al 1260, in cui fu chiamato podestà a Piacenza.» A noi quest’altro Napo non darebbe nessuna noia: indicherebbe soltanto che il maggiore dei Napi avrebbe derivato anche lui il nome da un parente più antico. Ma la realtà è che la podesteria bergamasca del 1235, ancorchè presa di certo dalla serie dei podestà che si legge tra le appendici al t. VI delle Memorie istoriche della Citta e Chiesa di Bergamo del Ronchetti (p. xiv), è un puro e semplice sogno. Tale subito si manifesta se si risale alle notizie particolareggiate del documento da cui essa è sgorgata (IV, 54), avendo insieme presente il dominio esercitato su Bergamo da Napo a datare dal 1266. e il titolo che esso aveva (ib., p. 124; cfr. 122).
  15. Se Napoleoni si trovino detti a volte altresì i pronipoti, non istò a cercare, una volta che la ricerca non produrrebbe per noi nessun frutto, e che i materiali non son troppo accessibili.
  16. V. Flechia, in Riv. di Filol. ed Istruz. Class., VII, 377 e 394, e la pubblicazione del Fanfani a cui il Flechia rivede le bucce da pari suo. In questa è registrato anche Branca quale accorciamento di Brancaleone: esempio che non deve qui essere lasciato in disparte. S’ha tuttavia da notare che Branca è riportato dal Flechia (p. 393) a Malabranca, che può vedersi nel t. III delle Ant. Ital. M. Aevi, col. 798, in più luoghi del Cod. diplom, della Citta d’Orvieto edito dal Fumi (V. l’Indice), ecc. Ambedue le spiegazioni sono possibili, e fors’anche sono vere entrambe, Del resto s’avverta che non altrimenti da quel che io faccia intendono le cose anche gli altri; p. es. il Giulini, che però, narrata la morte di Filippo della Torre, dirà come «a succedergli. ... fu prescelto Napoleone, volgarmente Napo» (Mem. della Città e della Camp. di Milano, VIII, 209); e similmente il Litta, che in capo alla sua notizia biografica scrive «Napoleone detto Nappo».
  17. Nel Manipulus Florum, p. es., di Galvano Fiamma R. It. Scr., XI, 694 sgg.), non trovo, fra tanti esempi, altra denominazione che questa. E così in quegli Annales Mediolanenses, che non fanno in realtà se non darci riprodotta, con scorciamenti e sconciamenti, un’altra cronaca di Galvano (V. Ferrai, in Bullett. dell’Istit. Stor. It., n, 10, p. 100), Napoleone apparisce unicamente, e non da sè, al primo presentarsi in iscena del nostro personaggio: «Sed antequam in Claravalle sepeliretur (Filippo). Neapoleo sive Napus» ecc. (R. It. Scr., XVI, 666). Naturale peranto che Napo dicano di norma anche gli storici successivi, venendo fino ai moderni, Giulini, Verri, ecc.
  18. Citerò il Memoriale potestatum Regiensium (R. It. Scr., VIII, 1142), il Chronicon Placentinum (ib.. XVI, 47f), gli Annales Januenses (Pertz, SS., XVIII, 284), gli Annales Piacentini Gibellini (ib., 513 ecc. ecc.), gli Annales Partnenses maiores (ib., 686 e 698), gli Annales Brixienses (ib._ 820), il Codice diplomatico Laudense del Vignati, P. II, p. 363, 365, 372.
  19. Italiano napo e navone.
  20. Ho sotto gii occhi il Martyrologium Romanum nell’edizione del 1749, che ripete, con accrescimenti, una serie di edizioni anteriori.
  21. Acta Sanctorum, Maggio, I, 180.
  22. Per che motivo e su qual fondamento, oltre al mutamento di nome, si sia costretto il martire a mutar anche di posto nell’anno, togliendolo al suo solito 2 di maggio, non so dire, e non son stato a cercare.
  23. Ann. Placent. Gibell.: Pertz, SS., XVIII, 565.
  24. Ann. Jan.: Pertz, t. cit., p. 226 e 245.
  25. Huillard-Bréholles, Hist. diplom. Frider. Sec., IV, 796.
  26. Minieri Riccio, Saggio di Codice Diplomatico formato sulle antiche scritture dell Archivio di Stato di Napoli, I, 37. Il Minieri Riccio (V. gl’indici) prende il «Nepolioni», «Nepoleoni» datoci dalla confessione di debito e dal salvocondotto in mezzo ad altri nomi, siccome cognome, o, se si vuole, come designazione della paternità. A torto, secondo me, per più di un indizio. Nè so dubitare che nella prima carta non sia da leggere «Orlandi» in luogo di «Sclandi». Un salvocondotto generale ai guelfi di Siena era stato concesso da Carlo sei giorni prima (Del Giudice, Cod. diplom,. del Regno di Carlo d’Angiò, I, 32).
  27. Huillard-Brèholles, Op. cit, VI, 234.
  28. Boehmer. Regesta Imperii, ed. Ficker, a. 1198-1272. p. 106. n.° 344 e 346. Napoleone è tra i testimonii.
  29. Ficker. Urkunden zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, n.° 216. Anche qui Napoleone è testimonio. Riguardo alla possibilità, ed anche probabilità, che il Napoleone del 1244 sia sempre quello del 1209-1210. vuol notarsi che egli nella citazione di Federico è nominato secondo tra ben sei consorti, il che porta a crederlo uno dei maggiorenti della famiglia.
  30. Wadding, Annales Minorum, 2. ed. II. 57. Certe autorità alle quali il Wadding s’attiene, pongono il fatto nel 1223. mentre altre, seguite dal Papini, Storia del Perdono d’Assisi, Firenze, 1824, lo anticipano di sette anni (V. p. 10). Ma ben altre incertezze che questa minima della data precisa avvolgono l’indulgenza di Santa Maria. Lasciando stare il silenzio di trentacinque o quarant’anni che tien dietro alla pubblicazione, il fatto di un’indulgenza plenaria largita a una chiesuola da nulla, sia pure per un giorno solo dell’anno, quando una prerogativa cosiffatta non s’aveva ancora dalle tombe degli Apostoli, riesce incredibile. Mi si permetta di rinviare a un mio scritto nel Giorn. Stor. della Letter. it., VI, 153. Però, se Onorio avesse concesso, bisognerebbe dire ch’egli si fosse lasciata sfuggire la concessione irriflessivamente, cedendo all’impulso del momento, e non sarebbe punto improbabile che poi ritogliesse ciò che aveva dato. Ma sia di ciò quel che si voglia, e avesse pur anche a tenersi che nella storia di questa indulgenza, abbellita indiscutibilmente quanto mai dalla fantasia religiosa, ci fosse poco nulla di vero, ciò non farebbe niente per noi; giacché è chiaro come, quando più tardi si cercò di stabilire la realtà della cosa, non si dovette andar a prendere i presunti testimonii della pubblicazione altro che fra persone autenticissime, che ci fossero proprio potute assistere.
  31. Ficker, Op. cit., n.° 412. Il documento è datato da un «Figino» («apud Figinum»), che a prima giunta non andremmo di sicuro a cercare in territorio abruzzese. E una ragione per cercarvelo non sarebbe punto da sè un «index Amicus de Sulmona», che fa in esso trascrivere una lettera dell’imperatore Federico, colla quale gli si commette un incarico da adempiersi in territorio senese, che egli, impedito da altre incombenze imperiali, passa a un notaio di S. Quirico. Ma quando si vede essere di Sulmona anche il notaio estensore, bisognerà bene che ci si senta attirati verso quelle parti. E il «Figino» vorrà allora riconoscersi con probabilità nel villaggio di Fighino - comunque s’abbia a dire, poiché le scritture variano - che s’ha nelle vicinanze di Posta, al nord di Antrodoco, salvo lo scovarsi qualcosa che paia tare anche meglio al caso nostro.
  32. V. Sansovino, De gli huomini illustri della casa Orsina, p. 20: «Ma molti più» (in questa casa) «furono i Napoleoni, perché in tutti i tempi gli orecchi Italiani, o nella pace, o nella guerra, udirono questa nobilissima voce in huomini segnalati».
  33. Las Cases, ed. cit.. I, 137: «Depuis plusieurs générations, le second des enfans de cette famille a constamment porté le nom de Napoléon, qu’elle tenait dans l’origine d’un Napoléon des Ursins, célèbre dans les fastes d’Italie.»
  34. V. di lui segnatamente Cardella, Memorie storiche de’ Cardinali della Santa Romana Chiesa, II, 49.
  35. In tal caso egli non sarebbe punto figliuolo di chi lo fa figlio il Litta, tav. xx. Ma se il Litta è altamente benemerito anche della genealogia degli Orsini, ciò non toglie che nella rappresentazione sua non abbondino le confusioni e gli errori. Ed errori ben gravi, fatti palesi dalla stessa ragion cronologica, sono per l’appunto senza dubbio in questa parte della discendenza.
  36. Però non mi darò certo la briga di far qui citazioni. Mi limiterò a dire che di questo personaggio il Cardella parla nelle pagine 33-37 del tomo già citato, il Litta nella tavola vii.
  37. Nun mi meraviglierei per nulla che questo Napoleone, il quale stando al Litta sarebbe nientemeno che bisnonno del cardinale di Santa Lucia, gli fosse invece padre.
  38. Un’andata ad Orvieto è dal Litta messa al 1243. e assegnata del pari a questo Napoleone e ad uno zio omonimo. A me la verità è fornita dalle antiche Cronache Orvietane pubblicate di recente nell’Arch. Stor. It., serie 5.a, t. III, che in due luoghi, colla stessa indicazione d’anno (si tratta in parte d’una compilazione di materiali distinti), registrano «pot. Neapoleo Mattei Rosi» (p. 10) e «pot. Neapuleou dui Mactei Rossi» (p. 15). A prima giunta ci sarebbe da credere che si trattasse d’un Rossi, come ne appaiono poi altri nel medesimo ufficio. Ma così non è. Matteo Rosso è il nome sotto il quale era conosciuto il padre di questo nostro Napoleone e del «cupido» pontefice, che tanto fece «per avanzar gli orsacchi».
  39. Lettera di Alessandro IV al Consiglio e Comune di Terracina, pubblicata dal Contatore, De historia Terracinensi, Roma, 1706, p. 193. Siccome è indicata la paternità («Neapolionus Matthiei Rubei»), non è dubbio di chi propriamente si tratti.
  40. Saba Malaspina, iii, 20 (R. It. Scr., VIII, 834), Del Giudice, Cod. diplom. del Regno di Carlo d’Angiò, II, 200, Schirrmacher, Die letzten Hohenstaufen, Göttingen 1871. p. 360 e 382. Non so come, dove si parla della liberazione (p. 383), Napoleone e Matteo siano stati dal valoroso Storico tedesco convertiti in «Prälaten» e «Cardinale». E di peggio è avvenuto nell’indice, dove, a dispetto del seguir parti opposte, sono confusi in una persona sola Napoleone e il Jacopo di Napoleone di cui passo a toccare, distinguendo in quella vece Jacopo da Jacopo di Napoleone, e dando il primo come padre al secondo, ossia facendolo padre di sè medesimo: spropositi che io rilevo, non per il gusto di muovere appunti, bensì per mostrare viemeglio in che sorta di ginepraio ci si muova.
  41. Saba Malaspina, ii, 16, iv, 7, v, 6 R. It. Scr., VIII, 813, 843, 864), Annal. Placent. Gibell, in Pertz, SS., XVIII, 526, 528, Schirrmacher, p. 302, 375, 382. In cambio di Giacomo di Napoleone, i moderni sogliono dire Giaoomo Napoleone; ed io non voglio assicurare che il nome paterno non si fosse appiccicato al figlio anche in questa forma più spiccia; non so tuttavia astenermi dal dubitare che nei passi in cui le fonti paiono portare così (Saba, ii, 16, v, 6, e forse Ann. Placent., p. 528, poche linee prima di un «Iacobi de Napoliono»). ci siano di mezzo mere inesattezze di lettura e trascrizione, troppo naturali là dove è ovvio il supporre una scrittura abbreviata. Chi poi nel Litta cercasse questo nostro Giacomo («Iacobus», senza aggiunta nessuna, lo chiama una volta Saba, ii, 16, in un caso dove, essendosi specificato prima, non c’era più luogo a fraintendimenti), non potrebbe trovarlo altro che nella tav. xix, qual figliuolo del Napoleone fratello di Papa Niccolò, e con una biografia recisamente guelfa. Ora, se i fatti che il Litta enumera sono veri ed esatti, vorrà dire che dei Giacomi se n’abbiano a distinguere due, a meno che il ghibellinismo del Giacomo nostro non sia cominciato tardi, dopo che egli avesse nel 1263 difeso Montecchio contro Corrado d’Antiochia, e fosse rimasto nelle mani del nipote di Manfredi. Quanto al non essere lui figliuolo di chi gli avrebbe ad esser padre nel Litta, nessunissimo dubbio. Già, se padre e figlio si fossero a questo modo trovati a fronte, uno storico minuzioso qual è Saba, ne avrebbe pure adir qualcosa; ma prova più assai il castello di Vicovaro, di cui egli era in possesso (Saba, ii, 16, e cfr. Ann. Plac., p 528), che vedremo or ora a che Napoleone spettasse.
  42. Saba, iv, 8 R. It. Scr., VIII. 844), Ann. Plac., p. 528. Anche questo personaggio è rappresentato spropositatamente dal Litta, che lui pure trasforma, facendo menzione espressa di Tagliacozzo, in un fervido fautore della Chiesa e di Carlo d’Angiò.
  43. Huillard-Bréholles, V, 761. Rispetto al «proconsul», si veda Gregorovius, Gesch. der Stadt Rom im Mittelalter, V, 183, nella 2.a edizione.
  44. Berger, Les Registres d’Innocent IV, I, 116 (n. 686). Qui la paternità non è indicata; ma la stessa cronologia vale a chiarirci. D’altronde un documento dell’anno medesimo riguardante Vicovaro è assegnato anche dal Litta a questo Napoleone; e secondo ogni verosimiglianza non senza la guida di un dato ben chiaro da parte di chi attribuisce invece al nipote la bolla d’Innocenzo.
  45. Litta, tav. i. E qui, dacché mi pare di aver corretto alcuni errori delle genealogie degli Orsini, non sarà mal fatto mettere sotto gli occhi lo schema della discendenza per la parte che più o meno ci riguarda:
    Orso ?
    . . . . . . . . . . . . . .

    Napoleone Giangaetano
     
                         ┏━━━━━━━━━━━━━━━━┓
    Matteo Rosso
    Napoleone
      ┏━━━━━━━━━━━━━━━━┓
    Giangaetano
    (Niccolò III)
    Rinaldo
    Matteo Napoleone
      Giacomo
    Napoleone
    Cardinale di S. Adriano
    Francesco ? Napoleone
  46. Litta, Orsini, tav. i.
  47. Gamurrini, Istoria genealogica delle famiglie nobili Toscane, et Umbre; Firenze, 1668-1685, II, 12. Figuriamoci che gli Orsini di Piemonte, non chiamati mai così fino al secolo XVI, dovrebbero discendere da un Orso, che, partitosi da Roma, avrebbe sposato qual seconda moglie un’Atalasia, Signora di Pinerolo, la quale, fatta ragione dei tempi, altri non potrebb’essere che la famosissima Adelaide, Contessa di Susa.
  48. Coccorone, o comunque il nome sonasse, poiché si trova scritto in più modi, era un castello che fu distrutto nel secolo XIII, e sulle cui rovine sorse poi Montefalco.
  49. Riportando documenti che concernono questa schiatta, il Ficker le attribuisce il casato «Monaldeschi» (Urkunden, n. 206, 210*, 252, 254, 267). Impropriamente, si badi, e con grave pericolo di rinnovar confusioni frequenti presso vecchi scrittori. Giacché, sebbene il ramo della famiglia a cui spettano i documenti abbia realmente per capostipite un Monaldo, non vedo che il nome abbia servito a designare i discendenti, altro che immediati («Raynaldus Comitis Monaldi», e sim.). La stessa designazione illegittima è ripetuta anche nella nuova e monumentale edizione dei Regesta Imperii del Böhmer, di cui il Ficker stesso vien curando la parte che va dal 1198 al 1272.
  50. P. 121-122.
  51. Dorio, p. 109.
  52. Nel 1210, non nel 1208, come il Dorio dice (p. 108).
  53. Uno dei diplomi, dal quale si ricava la notizia della parte presa da Napoleone alle spedizioni meridionali dell’imperatore, era stato pubblicato dal Ceccarelli nella sua Historia di Casa Monaldesca (Ascoli, 1580, p. 13), riferendolo erroneamente alla famiglia orvietana di cui egli narrava i fasti, veri ed immaginari; e di li lo riproduce, sebbene non compiutamente, il Dorio, a p. 85. Esso ci è ridato dal Ficker (Urk., n, 252), dietro una copia appartenente all’Archivio di Todi. E il Ficker ci offre anche un altro documento cui qui dal Dorio si allude; quello cioè col quale si conferma a Napoleone il dominio del castello «S. Marie de Laurenlio» (n. 254). S’intende che di questi due diplomi si può trovar notizia anche nei Regesta Imperli, ed. cit., p. 132 (n. 450 e 454).
  54. Si veda a p. 8. L’affermazione che s’ha in proposito nel Dorio, p. 109, ha esatto riscontro nel testo pubblicato dal Wadding, dove il nostro figura nella classe dei «Domini» come «Neapoleus de Fulgineo».
  55. Anche qui, per ciò che spetta a Innocenzo, il Dorio asserisce, e noi possiam vedere l’asserzione sua comprovata dai Regesti di questo pontefice nella pubblicazione del Berger, II, 81. La bolla a cui il Dorio intende riportarsi è quella di cui si dà conto sotto il n. 4534; e le fanno corona altri documenti collegati con essa: segnatamente il n. 4533, dove anche il nome di Napoleone apparisce del pari. Solo, Innocenzo non allude punto a una concessione anteriore di Gregorio, e parla come se i castelli fossero stati distrutti da lui. Ma qui di sicuro, o si tratta di un modo di esprimersi impreciso - tutt’altro che inesplicabile e insolito - oppure i castelli dopo la distruzione del 1235 arano stati restaurati, e furono rovinati di nuovo. Spogliazioni antecedenti anche a quella del tempo di Gregorio porta bene a supporre un diploma di Federico del maggio 1219 (Ficker, n. 267), col quale uno di questi medesimi castelli - S.ta Maria de Laurentio - fu «concesso e restituito» a Napoleone ed eredi: diploma che ebbe ad essere confermato nel 1240 (V. Regesta Imperii, 1198-1272, p. 552, n. 3132), ossia dopo i fatti di Gregorio. E di vicende anteriori ancora, mi faccio a parlar subiti).
  56. Vedasi ciò che dice in proposito anche il Ficker, Urk., in calce al suo n. 206.
  57. Ficker, Op. cit., n. 210* e 206. Questi documenti, ignoti al Dorio, servono in parte a confermarne, in parte a correggerne le indicazioni genealogiche.
  58. V. Dorio, p. 104-105.
  59. Avvertirò qui che mezzo secolo dopo, nel 1240, il castello ebbe anche l’onore di ospitare Federico II, dal 10 al 13 febbraio. V. Regesta Imperii, p. 524.
  60. 18 settembre; Ughelli, Italia Sacra, I, 458 nell’ed. Coleti.
  61. 24 sett.; Ficker, Op. cit. n. 161, frantendendo qui nell’indicazione del contenuto il «Cucurionem» per «Coccorano», che sarebbe una località nelle vicinanze di Fano, donde Federico datò altri atti nel 1177.
  62. 27 sett.; Ughelli, t. cit., 1261. Delle tre carte questa sola è nota al Dorio, che, non avendo, si vede, badato al «v.» che precede il «kal. Octobris», le assegnò la data del primo d’ottobre. Ed è suo arbitrio l’aver fatto che la concessione avvenga anche, e anzitutto, a istanza dei due fratelli conti di Coccorone, mentre il documento porta solo «ad preces dilecti nostri Ducis Spoleti».
  63. Nelle due pubblicate dall’Ughelli.
  64. Se non fosse morto, non sarebbero i figliuoli che ci verrebbero innanzi nel diploma del 1200. Che il nome suo non sia ivi preceduto da un «quondam», non significa nulla. Il «quondam» si mette e si tace a capriccio; sicché nel documento del 1205 Rainaldo ne va privo la prima volta che si nomina, ne è corredato la seconda, mentre segue il rovescio per il padre suo proprio.
  65. Ficker, n. 150. Trentadue anni dopo, in una nuova conferma largita ai folignesi da Ottone (Ficker, n. 222), quel sentimento di favore verso la nostra famiglia che qui s’era manifestato coll’aggregazione di Bevagna e Coccorone al territorio di Foligno, si manifestò collo staccarneli di nuovo, facendo che più non dipendessero se non dall’impero: «excipimus etiam Mevaneam et Coccoronum cum omnibus suis pertinentiis, quia ea specialiter ad manus nostras et servitium imperii retinemus.» La medesima eccezione si leggerebbe in un’altra conferma fatta l’anno appresso dal duca di Spoleto Diepoldo, se il documento non ci fosse pervenuto malconcio (Ficker, n. 226).
  66. P. 102. Due argomenti, indipendentemente dalla fede che si voglia dare allo scrittore, mi persuadono che la distinzione fatta dal Dorio sia rettissima. L’uno è il titolo di «nobiles filiorum Napoleonis» attestatoci per un ramo della famiglia che possedeva la Gaifana e Pustignano (p. 102, e cfr. poi 107): feudi dei quali nel ramo di cui ci s’è occupati finora non occorre mai la menzione. L’altra è il fatto che di quello ch’egli dice Napoleone I, il Dorio conosce due figli, oltre al santo di cui si vien subito a parlare; e i nomi non hanno riscontro alcuno in quelli dei figliuoli del Napoleone di Rainaldo, nonostante che rispetto a costoro noi ci si trovi, grazie ad uno dei nostri documenti (Ficker, n. 210*), più compiutamente ragguagliati che non porti l’opera del Dorio (p. 104). Del resto, l’inesattezza in cui il Dorio cade, tramutando in figliuolo di Rainaldo un Oderisio figlio di Napoleone, viene ad essere una riprova dell’attendibilità sostanziale delle sue informazioni. I suoi personaggi egli li raccoglie: non li inventa.
  67. Dorio, p. 106; Jacobilli, Vite de’ Santi e Beati dell’Umbria, Foligno, 1647, I, 216, e Di Nocera nell’Umbria, e sua Diocesi, e Cronologia de’ Vescovi di essa Città, ib., 1653, p. 79. Un passo d’antica cronaca riportato dal Dorio a p. 98 parrebbe fare il santo figliuolo d’altri che d’un Napoleone. Ma ciò viene unicamente dall’essersi scritto «filii» là dove è da leggere «filius»: «et de hoc processit sanctus vir Raynaldus episcopus de stirpe Vicci de Pustignano, filius d. Comitis Neapoleoni,» Cfr. la pagina antecedente. Piuttosto parrebbe che il cronista facesse discendere questo Napoleone da un omonimo anche più antico: cosa in sé stesso tutt’altro che improbabile, ma che, trattandosi di fatti remoti, ci guarderemmo bene dall’affermare sulla semplice fede di questo scrittore; tanto più che il «de hoc» può anche essere riferito a «Lupo», anziché al «D. Neapoleonus» suo discendente, in cui, finché del testo non s’ha dinanzi che quanto il Dorio riporta, è lecitissimo di vedere il nostro Napoleone secondo, ed anche il terzo.
  68. Si vedano le indicazioni marginali del Dorio, e si confrontino, per maggiori ragguagli intorno ad esse, le p. 95 e 96. Anche la determinatezza della data aggiunge un certo qual motivo di fiducia.
  69. Per mero errore di stampa in una delle opere del Jacobilli Di Nocera ecc.) si ha «1197.»
  70. [Tempesti]], Discorso Accademico sull’Istoria Letteraria Pisana, Pisa, 1787, p. 127; Moreni, Bibliografia storico-ragionata della Toscana, Firenze, 1805, II, 410; Bonaini, in Arch. Stor. It., Serie prima, VI, p.° l.a p. xliv. Le Memorie di Pisa si affermano estratto, malamente raffazzonato, di un’ampia storia universale dal principio dell’Era cristiana, che il Moreni dovette ancora vedere, ancorché nel parlarne egli prenda dal Tempesti anche ciò che nessuno immaginerebbe mai ricopiato.
  71. P. 19-20.
  72. Ved. Mittarelli, Annal. Camaldul., III, 50-52. Anche l’affermazione che Guido sia figlio di Napoleone, potrebbe forse venire dal Tronci: in tal caso dalla Storia manoscritta delle Famiglie Pisane antiche e moderne, adoperata parecchio dal Tempesti (Ved. segnatamente p. 110), vista probabilmente ancora dal Moreni, e che Dio sa dove sia poi andata a finire. Colla comunicazione di un Conte della Gherardesca al Papebroch potrebbe assai bene collegarsi, fatta ragione dei tempi, anche la parte presa nel 1689 dallo Spedale della Misericordia alla traslazione delle ossa di S. Guido ad un altare speciale (Mittarelli, VIII, 483).
  73. Quanto a S. Guido, essi vorrebbero riconoscerlo in un Guido figlio di un Ugolino, che si mostra una sola volta in un documento del 1134 (tav. ii); ma questa anche per loro è una mera congettura, e una congettura, soggiungiamo subito, assai debolmente fondata.
  74. Chi badasse al Litta, dovrebbe credere che, in ultima analisi, ci s’avesse a ridurre molto verosimilmente all’Umbria soltanto, ed anzi suppergiù a quella sua parte dov’ebbero i loro dominii i Conti di Coccorone; giacché egli dice che gli Orsini sono indicati dal Petrarca «siccome famiglia uscita dalle valli di Spoleto e da Norcia (tav. i. Orso); e cotale derivazione par bene volersi accogliere da lui. Abbia anche il Petrarca detto ciò, non sarà da lasciarsi muovere facilmente dalle sue parole; ma neppur son sicuro che l’abbia mai detto. Che certe fiabe risibili, che il Sansovino (Historia di Casa Orsina, 6) dice di prendere da Messer Francesco, il quale le avrebbe lette «in certi annali de’ Pontefici» visti «in un Monistero essendo in Germania», sieno proprio passate attraverso a un suo scritto, mi è dubbio quanto mai; ma sia come si voglia, non è ad esse che il Litta vuol riferirsi. Bensi uno dei luoghi, se non il solo, cui egli intende di alludere, sta nella famosa «Hortatoria» (Variar., xlviii), ed è la sfuriata contro i principi romani: questi tracotanti, che hanno fatto scempio della dignità, delle fortune, della libertà dei cittadini, essendo essi gente straniera: «Hunc vallis Spoletana, illum Rhenus aut Rhodanus aut aliquis ignobilis terrarum angulus misit; ille vinctis post tergum manibus ductus in triumpho, repente de captivo foctus est civis» (III, 422 nell’ed. Fracassetti). Come si vede, il Petrarca parla in modo affatto ipotetico, senza nulla determinare, e riferendosi almeno in parte a un passato più che remoto. Siamo noi, dunque, che possiamo insegnargli, se mai, qualcosa di più preciso. E gli diremo che gli Orsini, che tra i principi che gli s’affacciano al pensiero son certo dei primissimi, vogliono realmente tenersi per gente venuta di fuori, e venuta in un tempo non lontano. Ne dà buon indizio l’acquisto di case fatto in Campo di Fiore nel 1200 dai tre fratelli Matteo, Giacomo e Napoleone (Litta, tav. i). Ma dove la famiglia dovesse avere le sue sedi, mostra il documento più antico - del 1191 - che la concerne, nel quale ci si presenta Giangaetano signore di numerosi feudi, situati pressoché tutti nelle vicinanze di Tivoli.
  75. Quand’anche fosse da ammettere il Napoleone de’ Conti d’Orbassano, anch’egli, stando agli antichi genealogisti della schiatta, verrebbe ad essere pur sempre una propaggine romana.
  76. Ficker, Op. cit., n. 252.
  77. Ib., n. 254.
  78. Appena e’ è bisogno di avvertire a questo proposito che sotto all’–onus non istà in generale un-ono. L’-onus è naturale soprattutto là dove, perduta nella pronunzia l’atona finale, ci s’era ridotti a –on; ma anche avendosi –one s’era tratti non di rado a scrivere –onus dalla tendenza da adottare l’uscita senza confronto più frequente per i nomi maschili. Non è tuttavia specialmente per notar ciò che mi fermo sopra questi casi. Mi ci fermo all’incontro per avvertire che anche Napoleono potè realmente aversi in certi luoghi. E doveroso lasciargli almeno socchiuse le porte là dove, come a Pisa ed a Lucca, si diceva comuno; tanto più doveroso quando, come segue nei Fragmenta Historiae Pisanae editi dal Muratori, accade altresì, per esempio, di abbattersi in un Maestro Falcono (R. It. Scr., XXIV, 660).
  79. Ant. It. M. Ae., III, 259.
  80. V. p. 6-7.
  81. Bianchi, La declinazione nei nomi di luogo della Toscana: nell'Archivio Glottologico dell’Ascoli, IX. 381, X, 327.
  82. Ved. Meyer-Lübke, Grammatik der Romanischen Sprachen, I, 288.
  83. Ved. Pape, Wörterb. der griech. Eigennamen, ed. cit., p. xxi.
  84. Acta Sanctorum, 1. cit.
  85. Pape, s. v.
  86. Un Nepolone datoci dal Ficker, Op. cit., n.a 216, che potrebbe parer stare a Neopolus come Nepolione a Neopolis, è un puro e semplice intruso. Già, il personaggio di cui qui si tratta, non si affaccia per nulla colla medesima peculiarità negli altri luoghi in cui si fa innanzi (Ved. p. 7-8); ma poi l’esemplare dell’Archivio fiorentino («Diplomatico») che il Ficker trascrive, e che non è del resto esso stesso che una copia, per quanto autenticata e non lontana dall’origine, non ha Nepolone, bensi Nepolene, dove l’errore materiale è viepiù manifesto.
  87. Cfr. lione, liopardo, criatura, Tiano, ecc.
  88. Si veda, per esempio, tutto il Codice diplomatico Cavense. Ho cercato parecchio anche nei Monumenta ad Neapolitani ducatus historium pertinentia del Capasso, deplorando assai tuttavia che quanto s’è pubblicato finora sia stato messo in luce senza indici.
  89. Ho esaminato anche tutti gl’indici, meno copiosi di quel che sarebbe a desiderare, ma pure non disprezzabili, della gran collezione degli Storici Bizantini.
  90. Appena occorre avvertire che, una volta introdotta la grafia, essa venne a divulgarsi anche per semplice trasmissione tradizionale.
  91. Ved. p. 15.
  92. S’intende che non cito esempi ipotetici; ma trattandosi di un fenomeno cosi ovvio, mi par fuor di proposito specificare per ogni caso le fonti mie proprie. Avvertirò bensì che là dove io dico «Eugubino» perchè «Eugubinus» leggo in una carta di Perugia (Ficker, Op. cit, n. 153), il linguaggio volgare avrà detto un poco diversamente.
  93. Ved. p. 5.
  94. Se il riferirsi ai fenomeni che si producono nei composti latini dovrebbe parere un risalir troppo su, non saranno menzionati inopportunamente e il fetigati, e il secratum, e il Delmatia della latinità bassa (Seelmann, Die Aussprache des Latein, Heilbronn 1885, p. 172), quand’anche in taluno di questi esempi l’analogia dei composti possa essere appunto il fattore dell’alterazione. Quanto alle parlate italiane, si veda Mussafia, Zur Kunde der Norditalianischen Mundarten, p. 11. Salvioni, Fonetica del dialetto moderno della città di Milano, p. 94, Morosi, d’Ovidio, Salvioni, in Arch. Gluttolog., IV, 136, IX, 74, 206, 253, Hirsch, in Zeitsch. für. roman. Philol., IX, 522, ecc. ecc. Cito luoghi che ci guidano fuori delle consuete formole ar, ja, e dove figurano le nostre regioni settentrionali, le centrali, le meridionali. E allegherò io stesso il menata, manata, del napoletano, per soggiungere come menuda dica anche la Valtellina, ossia l’estremo nord, in certi sensi specifici; e il casato de Nevilijs, Nevigle ecc. nel Codex Astensis cosiddetto de Malabayla (Vedasi l’«Index Hominum»), in quanto è un caso propriamente di Na-, e uno di quelli che mostrano come il fenomeno si venga a produrre anche senza che siano in giuoco le spinte dissimilatrici.
  95. Un sentieruolo s’avrebbe anche coll’ -one; ma troppo incerto, perchè fosse da avventurarcisi.
  96. Pape, Op. cit., p. xxi.
  97. Jung, Die romanischen Landschaften des römischen Reichs, Innsbruck, 18S1, p. 519; Budinsky, Die Ausbreitung der lateinischen Sprache über Italien und die Provinzen, Berlin, 1881, p. 43.
  98. Ved. Budinsky, l. cit.; e si avvertano nei Monumenta del Capasse le sottoscrizioni in caratteri greci, i nomi greci, ecc.; cose tutte troppo bene spiegate dalle ragioni storiche.
  99. Vedasi Diez. Grammatik der romanischen Sprachen, 3a. ed., II, 342-345.
  100. Si veda l’ottimo ed amplissimo studio di R. Fisch, Die lateinisclien nomina personalia auf «o, onis», Berlino, 1890, dove, oltre a dichiarazioni espresse (p. 71), si potranno raccogliere doppioni in gran numero: bibo e bibio, baro e bario, comedo e comedio, duello e duellio, ecc. ecc. E l’accomunamento è continuo da un capo all’altro del libro. Del resto, se una distinzione ci fa mai, dietro ad essa sta ad ogni modo ancora un’identità originaria, dacché la doppia forma del suffisso nacque in realtà dalla diversa uscita dei temi a cui il suffisso era applicato. Ma questa nascita appartiene a un passato ben remoto delle favelle ariane. Vedasi Brugmann, Grundriss der vergleich. Grammatik der indogerm. Sprachen, II, 335.
  101. Questo mio Francone vuol essere un equivalente di Franco in genere, e s’incontra spesso qual nome proprio. Si veda, per es., Gattola, Hist. Abbat. Cassin., p. 329, 431, Codex Astensis, n. 981.
  102. Esempi di questa forma in antichi documenti non mi trovo ora alla mano; ma possono con pieno diritto tenermene luogo i casati Francioni e Franzoni.
  103. Anche il latino ci dà Olympia, Messenio, sui quali è giusto che pesi, ma non deve poi pesar troppo, il loro ellenismo.
  104. Burgundiones (o Burgodiones) è già in Plinio il vecchio, iv, 14, 99.
  105. In questo senso marchio sta a marka non altrimenti che curio, decurio, centurio a curia, decuria, centuria.
  106. Pietro d’Eboli, in Del Re, Cronisti e Scrittori sincroni Napoletani, Napoli 1845, p, 432:

    Bavarus et Scavus, Lombardus, Marchio, Tuscus,
    In propriam redeunt, Saxo, Boemus, humum.

    Un esempio che qui in nota può trovar luogo opportuno, è anche il Brabançon francese, Bramanzo provenzale, Brabanzon spagnuolo, scaturito da Brabantia.

  107. Di cotal forma si serve, per esempio, l’Anonimo Salernitano, cap. 108 R. It. Scr., II, p.e 2.a, col. 254); ed essa è anche in una lettera di re Lodovico all’imperatore Basilio, che l’Anonimo stesso riporta, cap. 102 e 107 (col. 250 e 253).
  108. Ciò apparisce dall’etimologia. Si dovette dire «regio», o che so io, «montanea», per contrapposto al piano sottostante. Che altre parti del territorio potessero chiamarsi, e non si vedano chiamate cosi, avrà i suoi motivi.
  109. Quindi il nome si adopera sempre senza articolo, mentre, p. es., nella regione stessa si dirà costantemente la Torr, la Gesa, e, cosa ben più notevole, el Faid (Fagetum), sebbene Torr, Gesa, Faid, siano ora nomi di villaggi, e quest’ultimo neppur sopravviva nel suo significato originario.
  110. Un perchè dovrà esserci, ad esempio, per il Bergamino, che un tempo non significò Bergamasco solo nel senso affatto specifico in cui s’è ora irrigidito. Ved. Giorn. stor. della Letter. it., X, 50.
  111. «Agglerius Praesul Parthenopensis», dirà, per citare un caso, l’epitafio in tersi sul monumento eretto nel 1315 ad un vescovo dal suo successore.
  112. Questa è una delle idee cardinali che escono dimostrate dal libro già allegato del Fisch.
  113. Gellio, 16, 7, 6, Fisch, p. 116. Cosa vogliano dire talabarrio e talabarriunculus, nessuno sa dire; ma a noi basta il suffisso diminutivo di quest’ultima forma.
  114. Fisch, p. 183.