L'edera (romanzo)/X
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X.
Andato via Paulu, prete Virdis, nonostante i replicati richiami della cugina, non si mosse dalla cameretta del balcone. Coi gomiti sulla tavola, le dita fra i peli rossicci della parrucca, egli sbuffava e ripeteva a voce alta:
— Che fare? Che fare?
Paulu gli aveva dichiarato che voleva a tutti i costi e contro la volontà di tutti sposare Annesa. Egli la riteneva colpevole, e appunto per questo voleva sposarla. Ma in questa sua decisione v’era tanta rabbia, tanto rancore, che prete Virdis n’era rimasto sgomentato.
— Sarebbe il matrimonio del diavolo! Sarebbe il matrimonio del diavolo! — pensava, strappando i capelli della parrucca.
A un tratto si sollevò e cominciò a contare sulle dita.
— Primo: non credo alla decisione di Paulu. Egli però è capace di perseguitare Annesa, e di andare a raggiungerla a Nuoro. Secondo: credo poco anche al pentimento ed alla conversione della disgraziata. Mi spaventa sopratutto, in lei, la mancanza di rimorso. Ella, ora, è invasa da una specie di manìa religiosa; ma se rivede Paulu scommetto che gli ricade subito fra le braccia. Terzo: se questo avviene, siamo tutti perduti; perduti loro, i due disgraziati, perduti i vecchi nonni, l’infelice madre, perduto io, davanti al Signore, io che non sarò stato buono di salvare un’anima disgraziata. Perduti, perduti...
— Micheli, non si cena, stassera? Vieni giù, tutto è pronto.
Zia Paula stava sull’uscio: egli la guardò, senza vederla, e ripetè desolamente:
— Perduti!
— Che cosa hai perduto? — domandò la vecchia, inquieta, guardando per terra.
— Fammi venir su quella donna, va, — egli disse, levandosi la parrucca un’altra volta e andando su e giù per la camera.
— Ma come, non vieni giù, Micheli? Parlerai con lei mentre ceneremo.
— Non è tempo di cenare: va!
— Mi pare sia tempo di portare qualcuno al manicomio, — borbottò zia Paula; e scese le scale sbuffando e sospirando anche lei.
Annesa salì, entrò, muta e triste, ma rassegnata: prete Virdis continuò ad andare su e giù per la camera e, al solito, non la guardò.
— Annesa, hai letto la lettera? Che hai deciso?
— Di partire.
— Paulu era qui; abbiamo parlato a lungo. Sai cosa vuol fare? Vuole sposarti: la sua famiglia non vuole, ma egli è deciso. Ah, ah, ora, ora! Ora s’è deciso. Angeli santi! Che ne dici, Annesa? Vuoi sposarlo?
— No, — ella rispose subito.
— Perchè non vuoi sposarlo?
— Prete Virdis, lei lo sa meglio di me!
— Io lo so? Sì, tu lo hai detto: vuoi fare una vita di penitenza. Così parli oggi, ma fra un mese, fra un anno, parlerai così ancora? Se rivedi Paulu non ricadi con lui in peccato mortale? E non è meglio, forse, che vi sposiate, ora, giacchè egli è deciso?
— No, no, mai! — ella disse con forza.
— Egli vuol vederti. Egli sa che sei qui, sa dove andrai, sa tutto, insomma. Dice che ti seguirà, che ti perseguiterà. È meglio che tu lo veda e gli dica ciò che pensi.
— No, no, — ella ripetè, supplichevole. — Non voglio vederlo. Prete Virdis mio, non glielo permetta!
— Ecco! Tu hai paura di rivederlo! È meglio, allora, che tu lo riveda; e fra voi v’intenderete. E se vuoi sposarlo sposalo pure, Annesa. Questa sarà forse la tua maggior penitenza: ma una penitenza che costerà molte lagrime anche ad altri innocenti. E Dio, vedi, Dio, ti ripeto, è misericordioso: Egli ti ha perdonato, e non t’impone di castigarti oltre misura: ma ti impone di non far più male agli altri, hai capito?
Ella lo seguiva con gli occhi: lo vedeva irritato, capiva che egli diffidava sempre di lei. Che fare? Che dire per convincerlo?
— Prete Virdis, — rispose semplicemente. — Il tempo risponderà per me.
— Il tempo, il tempo! — ripetè con voce monotona, volgendo gli occhi verso il balcone aperto, quasi per scrutare, fuori, nell’orizzonte buio, il mistero dell’avvenire.
Prete Virdis si fermò, la guardò alla sfuggita, scosse la testa.
— Tu dunque non vuoi vederlo? Pensaci bene: hai tempo tutto domani.
— Ho già pensato: non voglio vederlo.
— Allora andiamo giù e ceniamo.
Scesero. Zia Paula aveva chiuso il portone, ed era andata a prendere il vino in cantina.
Prete Virdis pranzava e cenava in cucina, come un contadino; i suoi pasti erano frugali, ma inaffiati da abbondante e generoso vino d’Oliena. Anche quella sera egli bevette discretamente, poi cominciò a chiacchierare e a discutere con zia Paula, la quale ripeteva le cose dette da Gantine.
Prete Virdis s’irritava contro il servo «chiacchierone e leggero come una donnicciuola», ma non difendeva Paulu: Annesa ascoltava e taceva, come se i suoi ospiti non parlassero di lei, ma d’una persona che ella non avesse mai conosciuto o fosse morta da lungo tempo. A un tratto, però, mentre zia Paula andava di nuovo in cantina, ella sollevò gli occhi e disse:
— Prete Virdis, le domando una grazia: mi faccia partire domani mattina.
— Anghelos santos, hai ben fretta, Anna! Fino a posdomani mattina non è possibile.
— Mi faccia partire! Altrimenti mi avvierò a piedi, stanotte: bisogna che vada; è tempo.
Zia Paula rientrò, con la bottiglia in mano, e ricominciò a borbottare.
— La botte è in agonia: vien giù appena un filo di vino. La nostra casa è diventata un’osteria...
— Stureremo l’altra botte, cugina mia: tutti i mali fossero come questo! — rispose filosoficamente prete Virdis.
Dopo cena egli uscì, e quando ritornò battè all’uscio della cameretta di zia Paula. Annesa era già a letto: aveva la febbre e sonnecchiava, immersa in una nebbia di sogni affannosi e cupi. Sentì benissimo la voce di prete Virdis, ma le parve di continuare a sognare.
— Annesa, domani mattina all’alba trovati vicino al ponte, e aspetta la vettura postale. Prima di andar via vieni su da me. Paula, vieni, ho da dirti una cosa.
Zia Paula, in cuffia e sottanino, ricominciò a borbottare.
— Cosa vuoi? Neppure la notte mi lasci in pace! Non riposi e non lasci riposare. Devo andare a letto, ora.
— Vieni, cugina mia; due parole sole.
E quando furono nel cortile le disse: — Bisogna prepararle un fagotto, mi pare: non bisogna mandarla via così. Avresti qualche sottana e qualche camicia da darle?
— Tu diventi matto davvero, Micheli. — Ora vuoi anche spogliarmi, strapparmi la camicia, strapparmi anche la pelle!
— Davanti al Signore compariremo senza camicia ed anche senza pelle, — egli disse severamente, sebbene poco a proposito. — Meno chiacchiere, Paula; pensa a far un’opera di carità.
— Ma non capisci che dentro una delle mie camicie ci stanno tre Annese?
Questa ragione parve convincere il vecchio: egli non insistè, e salì al buio la scaletta. E zia Paula chiuse la porta di cucina, rientrò nella sua cameretta, ma invece di coricarsi aprì la cassa, cercò qualche cosa, fece un fagotto: e nella cocca d’un fazzoletto annodò una moneta d’argento, da due lire, e mise il fazzoletto dentro il fagotto.
Prete Virdis, intanto, acceso il lume e chiuso l’uscio, guardava anch’egli nel suo cassetto, contando il poco denaro che aveva. Fra questo poco c’era una monetina d’oro, da dieci lire, che egli aveva ricevuto da donna Rachele per la celebrazione di cinque messe funebri in suffragio dell’anima di Zua Decherchi. E poichè il resto del poco denaro era in rame e pesava troppo, egli decise di dare ad Annesa la monetina d’oro.
⁂
L’alba di settembre cominciava a rischiarare il cielo, sopra il monte San Giovanni. La grande vallata dormiva ancora, con le roccie, i muraglioni di granito, i cumuli di pietre, chiari appena tra il verde scuro delle macchie: e nel silenzio dell’alba triste, pareva, coi suoi monumenti fantastici di pietra chiara, e le sue macchie melanconiche, un cimitero ciclopico, sotto le cui roccie dormissero i giganti di una età scomparsa.
Il cielo era grigio; cinereo-violaceo in fondo all’orizzonte, sparso di nuvolette giallastre sopra i monti di Nuoro e di Orune velati da vapori color fiore di malva. Una tristezza solenne, di cose morte, di luoghi vergini mai attraversati dall’uomo, incombeva sul paesaggio, fino all’orizzonte lontano, che con le sue nuvolette immobili pareva una pianura vaporosa sparsa di macchie ingiallite dall’autunno.
Annesa scendeva verso il ponte, con un fagotto in mano, e sembrava compenetrata dal silenzio cupo del luogo e dell’ora: il suo viso grigio e immobile, e gli occhi chiari dalla pupilla dilatata, riflettevano la serenità funebre del grande paesaggio morto, del gran cielo solitario.
Arrivata vicino al ponte, sotto il quale non scorreva più un filo d’acqua, ella si mise dietro una roccia; e siccome c’era da aspettare un bel po’, prima che la vettura di zio Sogos riempisse col suo fragore il silenzio dello stradale, ella sedette su una pietra e depose il fagotto per terra.
Poco distante sorgeva un elce dalla cima inaridita, e alcune fronde d’edera, strappate dal tronco dell’albero, stavano sparse al suolo, non ancora secche ma già calpestate da qualche passante.
Ella le vide e ricordò che molte volte Paulu l’aveva rassomigliata all’edera. Addio, addio! Ora tutto è finito davvero! Ella ha ripreso il suo fatale cammino, che deve condurla lontano per sempre da quei luoghi ove un giorno è giunta così, come ora parte, con un fagotto in mano e guidata da un vecchio misterioso che era forse il suo triste Destino. Ancora egli la guida; è invisibile ma è lì, al suo fianco, e non l’abbandonerà mai.
Passò quasi un’ora. Il cielo si copriva di vapori rossastri che annunziavano una giornata torbida e calda. Un’allodola cantò, da prima timidamente, poi sempre più vivace e ardita: un roteare di carrozza risuonò nello stradale. Annesa balzò in piedi, ascoltando. La carrozza s’avvicinava. Era la vettura di zio Sogos? Era presto ancora, ma il vecchio carrozziere aveva probabilmente anticipato l’ora della partenza; la vettura, infatti, arrivata vicino al ponte rallentò la corsa e si fermò. Ella prese il fagotto, e si avanzò verso lo stradale: ma appena ebbe fatto qualche passo si fermò, e un rossore lividognolo le accese il volto. Paulu Decherchi era là, a pochi passi da lei, fermo davanti a un carrozzino a due posti.
— Annesa!
Ella non rispose, non si mosse, e lo guardò come spaventata, vinta da uno strano sentimento di paura e di gioja. Egli le fu vicino e le disse qualche parola che ella, nel suo improvviso turbamento, non udì. Per un attimo ella dimenticò ogni altra cosa che non fosse lui: se durante quel momento d’inconscienza egli le avesse preso una mano dicendo «torniamo a casa», ella lo avrebbe seguito docilmente.
Ma egli non le prese la mano, non le propose di tornare a casa: ed ella ritornò in sè, vide che egli era invecchiato, imbruttito, e che la guardava in modo strano, con occhi cattivi, disperati.
— Che vuoi? — gli domandò, come svegliandosi da un sogno.
— Te lo dirò in viaggio. Cammina, su; montiamo sul carrozzino. Avremo tempo di parlare in viaggio.
— Che vuoi? Che vuoi? Dove vuoi andare? ella ripetè, ridiventata pallida e triste.
— Andremo dove vorrai. Ma cammina, andiamo; bisogna partire.
— Io non partirò con te.
Gli occhi di lui s’accesero d’ira.
— Tu partirai con me! E subito! Andiamo. Vieni.
Allungò la mano, ma la ritirò subito, quasi che una forza o un disgusto superiori alla sua volontà gli impedissero di toccare Annesa: ed ella se ne accorse, come sulla montagna s’era accorta della paura instintiva di prete Virdis. Tuttavia indietreggiò, scostandosi sempre più da lui.
— Io voglio partire, ma non con te, — gli disse con tristezza, ma senza rancore, fissando sempre negli occhi dispettosi di lui i suoi occhi spalancati e vitrei. — Perchè sei venuto? Sapevi che io non ti avrei obbedito. Non te lo ha detto prete Virdis? Io non verrò con te, non verrò più.
— Tu verrai invece, tu verrai! Ti legherò!...
— Puoi legarmi, trascinarmi: io scapperò appena potrò, te ne avverto!
Egli incrociò le braccia, nervosamente, come per comprimerne i possibili scatti violenti: tremava tutto, e si avvicinava a lei, e se ne allontanava come spinto e risospinto da sentimenti opposti, da ira e da passione, da pietà e da orrore. Ella non lo aveva mai veduto così, neppure nei momenti più disperati, quando egli diceva di volersi uccidere; e lo guardava, anche lei vinta suo malgrado da un sentimento di pietà e di umiliazione.
— Tu verrai con me, — egli disse, seguendola fin sotto l’elce, dietro il cui tronco ella s’era riparata, — tu verrai con me, senza dubbio: se non oggi domani, verrai con me. Parti pure sola, ora, se vuoi, ma bada bene a quanto ora ti dico: ti proibisco di fare la serva. Non sono un vile io, capisci, non sono un vile. Sono Paulu Decherchi, e so il mio dovere! Io non ti abbandono. Hai capito?
— Ho capito. Tu non sei un vile e non mi abbandoni. Sono io che devo fare il mio dovere. E lo farò.
— Lascia le parole inutili, Anna! Lasciamo le parole inutili, anzi: nè io ti abbandono, nè tu devi tormentarmi oltre. Sono stanco, ora, hai capito, sono stanco! Sono stanco delle pazzie di prete Virdis, e delle idee che egli ti ha messo in mente. Sono stanco di tutto: è tempo di finirla!
— Sì, è tempo di finirla, Paulu. Non gridare non alzare la voce. Prete Virdis non ha a che vederci, nei nostri affari. Anche gli altri, i tuoi, si inquietano inutilmente: lasciatemi in pace e ritornate in pace. Non andare contro la volontà di nessuno e neppure contro la tua stessa volontà!
— E allora è proprio contro la tua volontà che devo combattere?
— Sicuro.
— E perchè?
— Il perchè tu lo sai: non farmelo dire.
E ad un tratto gli occhi smorti di lei s’animarono, esprimendo un dolore quasi fisico.
— Tu lo sai, — ella ripetè, parlando sottovoce. – Te lo leggo negli occhi. Va, non tormentarmi oltre. Tu ci hai pensato un po’ tardi, al tuo dovere. Ma del resto è meglio così: quello che è accaduto sarebbe accaduto lo stesso, e tu mi avresti maledetto. Anche ora, vedi, anche ora sei cambiato con me, Paulu! Io non sono più Annesa: sono una donna malvagia. Ma, vedi, cuore mio, io sono contenta che tu non mi maledica. Avevo paura di questo. Sono contenta che sei venuto, e non ti domando altro... Tu non hai, come credi, obblighi verso di me: io ho fatto quello che ho fatto perchè era il mio destino: non l’ho fatto solo per te: l’ho fatto per tutti... per tutti voi... Ho fatto male, certo ma ero come pazza, ero fuori di me: non capivo niente. Dopo, dopo, ho capito: e ho fatto un voto. Ho detto: se loro si salveranno, se io mi salverò, voglio castigarmi da me, voglio andarmene, voglio vivere lontano da lui... per non peccare più... Ecco tutto: e ho fatto bene, perchè tanto, tanto tu... Paulu, tu... sei cambiato: tu ora hai paura di me, ed hai ragione...
— Tu vaneggi; tu sei fuori di te... — egli disse, stringendosi la testa fra le mani. — Non è vero niente! Non è vero!... Non è vero!— gridò poi, come fuori di sè, rabbiosamente.
— Invece tutto è vero. Quello che è stato è stato.
Ella scosse la testa, scosse le mani, quasi per scacciar via lontano da sè il passato. Egli parve calmarsi, convinto dalle parole di lei. Curvò la testa e fissò, senza vederle, le fronde appassite dell’edera: nel silenzio del luogo, dall’alto dell’elce il trillo dell’allodola si spandeva come il riso d’un essere invisibile, un po’ malinconico e un po’ beffardo, e pareva deridesse i due piccoli mortali ch’erano andati a portare il loro dolore nella grandiosità impassibile del paesaggio morto.
Paulu sollevò la testa e domandò:
— Che farai, ora? Dove andrai? Tu sei malata, sei invecchiata. Che farai? La serva. Sai cosa vuol dire far la serva? Sai com’è la famiglia presso la quale vuoi andare? Io li conosco, i tuoi padroni. Gente avara, gente pretensiosa: essi non ti ameranno certo. Tu ti ammalerai, vedi, tu cadrai e ti seccherai inutilmente, come quest’edera staccata dall’albero.
— L’edera stava per soffocar l’albero: meglio che sia stata strappata, — ella rispose, intenerita dalla pietà che egli finalmente le dimostrava. E cadde a sedere sulla pietra, e nascose il volto fra le mani, piangendo.
Paulu continuò a parlare: ella continuò a piangere; ma ad un tratto si calmò, e stette immobile, seduta sulla pietra, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, come quando, seduta sul gradino della porta che dava sull’orto, svolgeva nella mente il filo dei suoi tenebrosi pensieri. Non pronunziò più parola: capiva che Paulu, in fondo, era contento di liberarsi di lei, e Paulu, a sua volta, sentiva che le sue parole erano vane e non arrivavano più fino all’anima della disgraziata.
In lontananza risuonò il roteare pesante della corriera.
— Vattene, — supplicò Annesa. — Per amor di Dio, vattene! Lasciamoci in pace! Stringimi la mano: saluta i tuoi, don Simone, zio Cosimu, donna Rachele. Di’ loro che non sono un’ingrata: disgraziata sì, ma ingrata no. Va: addio!
Egli non si mosse.
La corriera s’avanzava, doveva aver già oltrepassato la giravolta prima del ponte.
Annesa si alzò, riprese il suo fagotto.
— Paulu, addio. Stringimi la mano.
Ma egli, pallidissimo, evidentemente combattuto fra il desiderio di lasciarla partire, di liberarsi di lei, e l’umiliazione che la generosità di lei gli infliggeva, volse il viso da un’altra parte, e ricominciò ad agitarsi.
— No, no! Io non ti voglio dire addio, nò stringerti la mano. Ci rivedremo! Ti pentirai amaramente di quello che oggi tu fai. Vattene pure: non te lo impedisco; ma non ti perdono. Annesa, non ti posso perdonare! perchè tu oggi mi offendi, come nessuno mai mi ha offeso. Va pure, va!
— Paulu, cuore mio! — ella gridò con disperazione. — Perdonami: guardami! Non farmi partire disperata. Perdonami! perdonami!
— Vieni con me, allora! Andiamo. Ora vado ad avvertire zio Sogos che passi diritto.
Allora ella gli si avvinghiò al collo, per impedirgli di muoversi: e fra le braccia di lui, che l’accolse sul suo petto con un impeto di vera pietà, tremò tutta come un uccellino ferito.
— Andiamo, andiamo, — egli ripeteva, — andiamo dove tu vuoi. Dovunque si può fare penitenza: abbiamo peccato assieme, faremo penitenza assieme.
La corriera arrivò, si fermò sul ponte. Annesa capiva benissimo che Paulu le parlava con dolcezza e con pietà perchè era certo che ella sarebbe partita: non le venne neppure in mente di metterlo alla prova; si staccò da lui, le parve di aver peccato col solo toccarlo. Senza dirgli più una parola riprese il suo fagotto e si diresse verso lo stradale.
Egli non la seguì.