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l’edera 267

il viso fra le mani, come quando, seduta sul gradino della porta che dava sull’orto, svolgeva nella mente il filo dei suoi tenebrosi pensieri. Non pronunziò più parola: capiva che Paulu, in fondo, era contento di liberarsi di lei, e Paulu, a sua volta, sentiva che le sue parole erano vane e non arrivavano più fino all’anima della disgraziata.

In lontananza risuonò il roteare pesante della corriera.

— Vattene, — supplicò Annesa. — Per amor di Dio, vattene! Lasciamoci in pace! Stringimi la mano: saluta i tuoi, don Simone, zio Cosimu, donna Rachele. Di’ loro che non sono un’ingrata: disgraziata sì, ma ingrata no. Va: addio!

Egli non si mosse.

La corriera s’avanzava, doveva aver già oltrepassato la giravolta prima del ponte.

Annesa si alzò, riprese il suo fagotto.

— Paulu, addio. Stringimi la mano.

Ma egli, pallidissimo, evidentemente combattuto fra il desiderio di lasciarla partire, di liberarsi di lei, e l’umiliazione che la generosità di lei gli infliggeva, volse il viso da un’altra parte, e ricominciò ad agitarsi.

— No, no! Io non ti voglio dire addio, nò stringerti la mano. Ci rivedremo! Ti pentirai amaramente di quello che oggi tu fai. Vattene pure: non te lo impedisco; ma non ti perdono. Annesa, non ti posso perdonare! perchè tu oggi mi offendi, come nessuno mai mi ha offeso. Va pure, va!