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l’edera | 259 |
— Mi faccia partire! Altrimenti mi avvierò a piedi, stanotte: bisogna che vada; è tempo.
Zia Paula rientrò, con la bottiglia in mano, e ricominciò a borbottare.
— La botte è in agonia: vien giù appena un filo di vino. La nostra casa è diventata un’osteria...
— Stureremo l’altra botte, cugina mia: tutti i mali fossero come questo! — rispose filosoficamente prete Virdis.
Dopo cena egli uscì, e quando ritornò battè all’uscio della cameretta di zia Paula. Annesa era già a letto: aveva la febbre e sonnecchiava, immersa in una nebbia di sogni affannosi e cupi. Sentì benissimo la voce di prete Virdis, ma le parve di continuare a sognare.
— Annesa, domani mattina all’alba trovati vicino al ponte, e aspetta la vettura postale. Prima di andar via vieni su da me. Paula, vieni, ho da dirti una cosa.
Zia Paula, in cuffia e sottanino, ricominciò a borbottare.
— Cosa vuoi? Neppure la notte mi lasci in pace! Non riposi e non lasci riposare. Devo andare a letto, ora.
— Vieni, cugina mia; due parole sole.
E quando furono nel cortile le disse: — Bisogna prepararle un fagotto, mi pare: non bisogna mandarla via così. Avresti qualche sottana e qualche camicia da darle?
— Tu diventi matto davvero, Micheli. — Ora vuoi anche spogliarmi, strapparmi la camicia, strapparmi anche la pelle!