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266 | l’edera |
niente! Non è vero!... Non è vero!— gridò poi, come fuori di sè, rabbiosamente.
— Invece tutto è vero. Quello che è stato è stato.
Ella scosse la testa, scosse le mani, quasi per scacciar via lontano da sè il passato. Egli parve calmarsi, convinto dalle parole di lei. Curvò la testa e fissò, senza vederle, le fronde appassite dell’edera: nel silenzio del luogo, dall’alto dell’elce il trillo dell’allodola si spandeva come il riso d’un essere invisibile, un po’ malinconico e un po’ beffardo, e pareva deridesse i due piccoli mortali ch’erano andati a portare il loro dolore nella grandiosità impassibile del paesaggio morto.
Paulu sollevò la testa e domandò:
— Che farai, ora? Dove andrai? Tu sei malata, sei invecchiata. Che farai? La serva. Sai cosa vuol dire far la serva? Sai com’è la famiglia presso la quale vuoi andare? Io li conosco, i tuoi padroni. Gente avara, gente pretensiosa: essi non ti ameranno certo. Tu ti ammalerai, vedi, tu cadrai e ti seccherai inutilmente, come quest’edera staccata dall’albero.
— L’edera stava per soffocar l’albero: meglio che sia stata strappata, — ella rispose, intenerita dalla pietà che egli finalmente le dimostrava. E cadde a sedere sulla pietra, e nascose il volto fra le mani, piangendo.
Paulu continuò a parlare: ella continuò a piangere; ma ad un tratto si calmò, e stette immobile, seduta sulla pietra, coi gomiti sulle ginocchia e