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l’edera 261

triste, pareva, coi suoi monumenti fantastici di pietra chiara, e le sue macchie melanconiche, un cimitero ciclopico, sotto le cui roccie dormissero i giganti di una età scomparsa.

Il cielo era grigio; cinereo-violaceo in fondo all’orizzonte, sparso di nuvolette giallastre sopra i monti di Nuoro e di Orune velati da vapori color fiore di malva. Una tristezza solenne, di cose morte, di luoghi vergini mai attraversati dall’uomo, incombeva sul paesaggio, fino all’orizzonte lontano, che con le sue nuvolette immobili pareva una pianura vaporosa sparsa di macchie ingiallite dall’autunno.

Annesa scendeva verso il ponte, con un fagotto in mano, e sembrava compenetrata dal silenzio cupo del luogo e dell’ora: il suo viso grigio e immobile, e gli occhi chiari dalla pupilla dilatata, riflettevano la serenità funebre del grande paesaggio morto, del gran cielo solitario.

Arrivata vicino al ponte, sotto il quale non scorreva più un filo d’acqua, ella si mise dietro una roccia; e siccome c’era da aspettare un bel po’, prima che la vettura di zio Sogos riempisse col suo fragore il silenzio dello stradale, ella sedette su una pietra e depose il fagotto per terra.

Poco distante sorgeva un elce dalla cima inaridita, e alcune fronde d’edera, strappate dal tronco dell’albero, stavano sparse al suolo, non ancora secche ma già calpestate da qualche passante.

Ella le vide e ricordò che molte volte Paulu l’aveva rassomigliata all’edera. Addio, addio! Ora