L'Etruria vendicata/Canto III

Canto III

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Canto II Canto IV

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CANTO TERZO.


Ma intanto il sir della Toscana gente
Siede a consiglio infra gli eletti suoi.
Gran senno ivi si aduna, eccelsa mente,
Quanta ne avesser mai gli Achivi eroi.
Calliope, o tu che dal maligno dente
D’oblío sottrar chi più t’aggrada puoi,
Costor mi narra e lor virtudi, e come
Si acquistasse ciascuno eterno il nome.

Ecco primier d’Agamennóne a destra
Anabatisso, de’ gran grandi il primo:
Questi al prence i corsier sceglie ed addestra.
Oltre ogni incarco il suo grave n’estimo
In vederlo qual rôcca in cima alpestra,
La cervice innalzar, che, già nel limo
Depressa a lungo da men alte cure,
Fan sì superba or le cavalcature.

Dopo costui Clidofilace siede,
Altra grande non men base del regno:
D’ira fremendo, mal suo grado ei cede
Il passo ad uom del primo onor non degno;
Che, se pur l’altro in dignità il precede,
Ei lo soverchia in gentilezza e ingegno.
Questi le regie chiavi aurate tiene,
E se le appicca in fondo delle rene.

Segue Maghizzo poi del terzo onore
Contento appien; perchè il ducale ventre,
Ch’ei satollar si studia, al suo signore,
Fa che di tutti assai più in grazia egli entre:
Solo è che in corte livido colore
Non pinga in volto e rabbia non concentre;
Cinge d’ampio grembiul l’obeso fianco
Pe’ gran conviti rilassato e stanco.

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Il quarto scanno a Cheroísso tocca,
Alto terror de’ cervi e daini in caccia.
Nè di Latona pur la prole scocca
Dardo che a par de’ suoi rovina faccia:
Pur, dotto in corte, assai men spesso imbrocca
Quand’è col prence, e a lui minor si spaccia:
Quindi è duce de’ boschi; e il sir l’ha adorno,
Perchè il rispetti ognun, d’argenteo corno.

Osseronte vien poscia, astuto e avaro,
Per sè più che pel sire, guardarobba.
È d’ogni altr’arte questo grande ignaro,
Fuorchè saper come magion si addobba.
Ben tollerati oltraggi il rendon chiaro;
Chè nullo in corte al par di lui s’ingiobba,
Sì che sua guancia fu onorata spesso
Dalle scherzose man del prence istesso.

Coriccio segue, barbassoro in cui
Cura importante dello Stato posa.
Più corti ei vide, e dir gli giova: Io fui.
Alta scïenza in cor preme nascosa:
Il preceder, lo star, l’andare altrui,
E il sedere, e il rizzarsi, e ogni altra cosa
Ch’usa del prence alla presenzia sacra,
Son gli alti studi a cui la mente ei sacra.

De’ primi grandi ultimo vien Pitillo,
Che alla reale mensa i vini mesce.
A donneschi trionfi il ciel sortillo,
Nè al bianco crine or già ’l bel sesso incresce:
Molle, attillato, qual prisco Batillo,
L’appassita beltà coll’arte accresce:
Bianca fresca vermiglia e liscia pelle
Ha sì, che par suo viso opra d’Apelle.

Ecco i sette primai splendor del trono;
Luminari maggior che al regio sole,
Come i pianeti a Febo, intorno sono.
Ecco sett’altri poscia, a cui non duole
Seconda luce onde dal prence han dono:
San che fumoso onor, vuote parole
Sogliono al fianco andar di maggioranza;
Ma che sta presso lor vera possanza.

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Graffio è primo tra questi. Avi ei non vanta
Chiari nè oscuri; e donde ei nasca, ignora:
Lo scarno corpo immensa toga ammanta;
Scarno, benchè lo impingui il sangue ognora
Del volgo, e sia per lui giustizia santa
Data a chi meglio le bilance indora.
Ben ei di regio cancellier il seggio
Empie: chè in corte il più fellon non veggio.

Ma Dïorizio consiglier di guerra
A far di lui qui menzïon m’invita.
Se in tuo servigio, o Marte, un poco egli erra,
Fa’ che lo escusi l’età sua fornita
Tra pacifici inchiostri in queta terra:
Ma, nella tanto al sire opra gradita
Di soppressare, ove ei pur n’abbia, i prodi,
Non è ministro che quant’ei si lodi.

Oh! chi se’ tu che torvo atroce sguardo
Vai folgorando sui colleghi tuoi?
Pseudologo se’ tu, quel sì bugiardo
Di regi dritti allegator, che noi
Spogli del nostro, e vieti abbia riguardo
Il prence al rio giurar degli avi suoi?
Questi, questi è di Stato alta colonna,
Che legalmente dell’altrui s’indonna.

Ma, non fia già che Mormolicco io lassi,
Scaltr’uom che ha sempre sulle labbra il riso
Ch’empio co’ rei, co’ buoni ottimo fassi.
Invid’arte di corte invan diviso
L’ha dal signor cui troppo in grazia stassi:
Al suo ritorno, appien l’ha riconquiso;
E fatto onnipossente e dentro e fuori:
Tratta egli sol con gli esteri oratori.

Segue quell’instancabile cervello,
Bdella, che al gran lavor continuo ferve:
D’ogni cosa far oro è il pensier fello
Cui giorno e notte a pro del duca ei serve:
D’ogni elemento al volgo ei fa balzello
In guise mille e tutte empie e proterve;
Ma non fia che mai tanto al volgo ei prenda,
Che il sir, dell’altrui largo, più non spenda.

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Ultimo vien della minor settina,
Filaprobato delle poste mastro:
Dignitade importante e pellegrina,
Che porge a lieve mal ben grave impiastro;
Non osa uscir d’ovil pecora fina,
Se il contende costui col suo vincastro:
Esca la plebe pur, che, s’io ben scerno,
Par troppa ognora in signoril governo.

Portano i sette e sette ch’io nomai,
In nobil fregio un bello aureo segnale
Che raggianti li fa, nè il lascian mai.
Pende a tutti dal collo un animale
Di quei che a’ pastor fanno tragger guai.
Tacciasi il vello d’or, tacciasi quale
Tra le regie patacche ebbe più fama.
Questa è il simbolo ver di real brama.

Ecco, mezza compiuta ho la rassegna
Dei consiglier che fanno al sir ghirlanda,
Lunghetta alquanto più che non convegna.
Forse avverrà che mal l’inchiostro io spanda.
Pur, benchè altrui non paia, a me par degna
Della destra non men la manca banda
Di rimembranza, qual dell’altra fassi.
Chi dissente da me, due carte passi.

Siede d’Arrigo la burbanza ria
In faccia al prence, di cui tiene il core.
Già non domanda alcun, che ufficio sia
Che immedesma costui col suo signore.
Siede ei nel mezzo, e i volti intorno spia,
Severo inesorabil delatore:
Nulla ei può dar, tôr tutto: anco il più ardito
Ne trema; e niun, quant’egli è reverito.

Ve’ degli ultimi eroi l’ultimo starsi,
D’Arrigo a destra, Dolcimel poeta:
Nè musa in corte loco altro arrogarsi
Osi; ma in corte Musa è ognor discreta.
Del prence il fausto natal dì cantarsi
Suol da lui con rotonda faccia lieta.
Laudar mal sa; biasmar, non n’ha l’ingegno:
Ben ei di questo Augustuletto è degno.

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Segue maggior d’un grado altr’uom più dotto,
Cui maestosamente atteggia Clio.
Questi di qua di là di su di sotto
Fruga i regali archivi: indi all’oblío
Qual fatto manda, e qual non ne fa motto,
Com’ei più sa del prence esser desío.
Se il nome io taccio, i posteri il sapranno;
Quei pochissimi almen che il leggeranno.

Scartabello vien poi, gonfio le gote
Pel gran saper che d’ogni parte sbuffa.
Suo doppio incarco assomigliar lo puote
A duce, ove non sia squadra nè zuffa.
Come lettor del sir, qualch’ore ha vuote,
In cui tutto nei classici si attuffa:
Nel custodire i regi libri ei poscia,
Fin ch’altri non sen merca, ha breve angoscia.

Uom veggio in negra veste a Morte accetto,
Cui ben altra davver cura si affida.
Colo ei s’appella: ogni mattina al letto
Del prence ei viene, al suo ben viver guida:
L’ozio regio tra ’l vitto e tra ’l diletto
Comparte; e, s’egli eccede, anco lo sgrida.
Costui solo ardiría portare in corte
Il ver, se al vero ivi si aprisser porte.

Ma tai cure salubri ha guaste spesso
Lenoncin, l’amoroso messaggero
Ch’ivi al servo d’Ippocrate sta presso.
Non di Maia il figliuol più lusinghiero
Nè più destro è a sedur qual voglia sesso:
Ottimo in corte, ei fu già mal guerriero;
Giocator di vantaggio assai sottile,
Pari in mentir non ha da Battro a Tile.

Quel d’Apirlo è il più grave d’ogni incarco,
Benchè di feste e di piacer soltanto.
Questi, qualor il prence affatto è scarco
Delle cure di Stato, al suono al canto
Alle danze ai conviti ha schiuso il varco:
Speso ha talvolta in una notte quanto
Nell’anno intero ampia provincia miete;
Nè tratto al prence ha del goder la sete.

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De’ laici consiglieri il numer chiude
Funal, ch’è capo lì dei terzi sette.
Nel penoso lavor forza è ch’ei sude
Di far chiare le vie, secure e nette:
Dalla città le laide donne esclude,
Nè impudicizia in basso sangue ammette:
Un esercito a ciò di spie minute
Solda, e quinci esce la comun salute.

Quei sette che rimangon, del divino
Ordine sono, e veneranda gente.
Sorba è semplice prete, e di latino
Troppo ei non sa; ma in corte il fa possente
Lo spacciarsi sortilego e indovino.
Dieci ne incontra, e mille volte ei mènte:
Pur fede ha il prence in lui; sì ben lo astuto
Sa favellare a tempo o starsi muto.

Non sia però chi nel tiranno alcuna
Non creda esser virtude: eccone in prova
Ceppon lemosinier, che ad una ad una
Sa le zittelle bisognose, e nuova
Una ogni dì ne adduce or bionda or bruna:
Suoi danni ei narra; e, se il signor l’approva,
Dote ottien ella poi pari alla faccia;
Ceppon riporta d’uomo pio la taccia.

Malto veggio più pingue e dignitoso:
Presiede questi alla regal cappella,
E fallo abbazïal mitra orgoglioso.
Bello a vedersi torreggiante in ella
Sagrificare in alcun dì pomposo!
Nel crescer ricchi arredi ond’ei si abbella,
La larghezza del sir presso ha che stanca;
Vera pietade in lui, null’altro, manca.

Qui bipartisce la devota schiera
Ferlo, che tèma alto difficil tratta,
Ei d’Iddio la parola aspra severa
Al molle orecchio principesco adatta:
Purchè il timor d’inferno in lui non pèra,
Poco è mestier che i regi error combatta:
Giorno vien, giorno di funerea teda,
In cui fan del codardo i frati preda.

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E per me il dica Plenario che segue,
Fervido scaltro confessor del duca.
Al pentirsi e al ben fare ei gli dà tregue,
Purchè a narrargli i falli suoi lo induca;
Ed alla chiesa intanto oro consegue,
Che chiusa tenga la tartarea buca,
Quel prence al certo avrà l’alma ben ria,
Di cui più fello il confessor non sia.

Ma qual vien mostro sanguinoso, ch’empie
Tutto di pianto, e sì vantarsen osa?
Frate Strozzicchia egli è, che le mani empie
Bagna nel sangue di chi ha fè dubbiosa:
Le segrete del sir vendette adempie;
E tirannide in lui secura posa:
Ch’a ogni uom che parli o pensi, ei reca ambascia,
Tradir, furar, stuprar, uccider lascia.

Chiude alfin la rassegna il non tradotto
Vescovo, che in volgare i libri santi
Traduce e affoga al gran commento sotto.
Svela questi e perseguita gli amanti;
E mille ben coppie infernali ha rotto;
Niuno al sagace suo fiutar si vanti
Sfuggir: sol lascia delle mogli altrui
Partecipare il prence e i preti sui.

Seduto appena è il gran consiglio a scranna,
Che Alessandro (dal cor profondo pria
Tratto un sospiro flebile, che affanna
Il cor d’ogni uom ch’ivi nel sir s’indía)
Con voce che il timor alquanto appanna,
Il gran tèma incomincia; e dice: Or fia...
Ma fatto egli è più pallido che giglio,
E sviene, ed ha ’l battito del coniglio.

Pensi ciascun nel nobil concistoro,
Al caso inopinato, qual tempesta
Di passïoni varie e qual lavoro
Ferva in salvar sì prezïosa testa.
Chi va chi vien chi piange: ma ristoro
Gli porgerà con man felice e presta
D’Ippocrate l’alunno, che in buon punto,
Util più ch’altri, ai consiglier s’è aggiunto.

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Tornerà tosto a vita il padre vostro,
Non vi affannate, o figli sviscerati;
Suo immenso amore ha ognun di voi ben mostro,
Pregando il Ciel con caldi miagolati;
Bench’io v’udii, quai monacelli in chiostro,
A cinque a sette a quattro sparpagliati
Sommessamente ir la cagion cercando,
Per cui sta il prence de’ suoi sensi in bando.

Odo, è vero, tra voi, quei che discreti
Più sono, la indefessa vigil cura
Incolparne, con cui troppo in segreti
Gravi affari di Stato il prence dura:
Ma fuvvi ancor chi ai troppo spessi e lieti
Sagrificii alla Dea del ciel men pura
Colpa ne diede: oh buon per te, che inteso
Solo da me, n’andrai dagli altri illeso!

Io la dirò l’alta cagion, che il fiato
Prima ingrossò poi tolse al signor mio.
Sua Prudenza quel dì s’era adattato
Di rinterzato ascoso giaco il rio
Peso, cui stretto troppo anco allacciato
Gli ebbe l’amica man d’Arrigo pio:
Le molli membra il ponderoso arnese
Gravò di mortal doglia, e i sensi offese.

Così vedemmo in genïal convito
O a mezzo appunto di leggiadra danza
Donna cader col viso tramortito,
Sol perchè il busto al corpo non è stanza.
Ma il più dotto zerbino e il più gradito
Non sì presto a soccorrerla s’avanza,
Come Arrigo a troncar di furto vola
L’empia cagion che il buon signor c’invola.

Destramente la man di forficette
Armata sotto regal ostro ei pone:
Tagliato è il laccio: il sire un sospir mette,
Che in temenza sua corte ricompone.
Poi che in silenzio alquanto ognun si stette;
Che il consiglio si sciolga Arrigo impone.
Tutti escon cheti: il confessor sol resta,
Accennandolo il duca colla testa.

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Tosto Arrigo si scosta: ei non paventa
Di lasciar sol col suo signore il frate.
Ben sa quant’util dalle sagramenta
Uscir ne suole a tempo amministrate:
E a vicenda il sant’uomo anch’ei rammenta
Che Arrigo in corte a lui le parti ha date:
Dall’armonia fra loro il ben ne nasce
Che il prence reggon come putto in fasce.

Compunto in viso e da gran duolo oppresso,
Plenario siede ad Alessandro accanto:
Poi come veritier celeste messo
Intuona: O figlio... e l’interrompe il pianto:
Ma pur ripiglia: O figlio, hai tu commesso
Qualche gran fallo che ti angosci tanto?
Narralo a me: ben sai che perdonato
Egli è, tosto che a noi vien rivelato.

Tanto spavento onde può nascer mai?
Tu reo non sei, che i sacerdoti santi
Temuto hai sempre, e venerati gli hai:
Di tutt’altri peccati, e sien pur quanti
Esser vônno, or già assolto appien ne vai:
Su via, mel di’, pria che vittoria canti
Il nemico infernal, che tanto gode
Di peccato taciuto per sua frode.

Mentre ei devoto e fervido parlava,
A poco a poco e gli smarriti sensi
E la voce Alessandro ripigliava.
Padre, non so se di colui ch’io spensi
Ultimo, che a mie mire contrastava,
Sia l’ombra quella che a me innanzi tiensi:
Ma certo è quello: odi? minaccia e grida.
E di vicina morte, ohimè! mi sfida.

Sì, certo, l’odo anch’io (Plenario dice);
Ma di Satana questo è un mero inganno:
E, se fidare in mie sant’armi lice,
Tosto farò che in lui ricada il danno.
Da capo ai piè, ciò detto, il benedice
Colle parole che sbagliar non sanno.
Indi, a calmar la fantasia turbata,
Saggia dottrina ei muove e ben fondata.

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A far svenar quest’ultimo nemico
Ti costringea ben sai, ragion di Stato:
E nel nome di Dio ti dissi, e dico
Che in ciel ten fu il perdono decretato
Quel giorno stesso, che allo stuol mendíco
De’ figli del Carmel ricovro hai dato.
Ma forse or altri ad interpor si viene,
Che l’eterne bilance in dubbio tiene.

Nella corte del cielo avvien talvolta
Che dei santi baroni alcun si muova
Per li mondani preghi a far che tolta
Tal grazia sia da tal che a lui non giova.
Vuol esser fè con largitade molta,
A voler con costor vincer la prova.
Io ben so di lassù le arcane cose,
E ai pari tuoi non dènno esser nascose.

Padre (il prence risponde) io non so come,
Ma certo irato è in me non poco il cielo;
Questo fantasma, che arricciar le chiome
Mi fea pur dianzi e andar per l’ossa un gelo,
La scorsa notte, chiamandomi a nome,
Sul cor la punta di sanguigno telo
Posemi; e disse... io le parole morte
Ridir non so, ma nunzie eran di morte.

Quindi atterrito, i miei gran saggi e fidi
A consiglio adunai: ma dato appena
Ebbi principio al dir, ch’io là rividi
L’ombra terribil di minacce piena.
Or non so che mi faccia o in chi m’affidi:
Ghiaccio mi stagna il sangue entro ogni vena:
E l’infernal voragine già parmi
Tutta avvampante aprirsi ed ingoiarmi.

Eppur sa il ciel se ai tuoi precetti ognora
Servo fedele io fossi e obbedïente.
Nell’irne a letto, io spendo un quarto d’ora
Segni di croce a far devotamente:
Lo scapolar che mi donasti, ancora,
Vedi, mel porto a carne ascosamente:
E la mia santa quotidiana messa
Mai per cagion nessuna non l’ho smessa.

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Qui tace; e dà in un pianto dirottissimo,
Che fa Plenario piangere di gioia
Nell’udir quel parlar religiosissimo,
Cosa in un tanto sir sbalorditoia.
Onde, tratto un sospir: Figlio amatissimo,
(Dic’ei) non fia giammai che il giusto muoia;
O ch’egli è vano il ministero mio,
E non ascolta le mie preci Iddio.

L’armi celesti ch’io ti posi indosso,
Ed il tuo spesseggiar nei sagramenti,
Or mi fan fede ch’avria indarno mosso
Contro te lo nemico i suoi spaventi:
Onde la visïon che t’ha commosso
La credo un di quei mistici portenti,
Che mostra Dio talvolta a’ figli suoi
E poscia impon d’interpretarli a noi.

E vedi prova manifesta e certa
Che da laico saper non era cosa:
La bocca appena or nel consiglio aperta
Hai tu, che ritornar più minacciosa
Vedesti l’ombra; ed or che a me scoperta
Hai la tua angoscia, è assai già men gravosa:
Sì che con poche note ho ferma fede
Tornar tua pace alla sua prisca sede.

Quella che a te apparisce in fero aspetto
Feroce larva, è l’eresía novella
Ch’or fra gli empi Germani ottien ricetto:
Alto favor d’Iddio concede ch’ella
Il suo dardo mortal ti appunti al petto;
Per far vederti quant’orrenda e fella
Sia la morte che all’alma dà costei,
Se non si volge ogni sant’arme in lei.

E ben del ciel fu grazia espressa questa,
Non mostrartela in vista lusinghiera,
Quale a tant’altri re; cui, santa e onesta
Fingendosi, lor fea notte anzi sera.
E, non ch’io mai di vanità mi vesta,
Ma il dobbiam forse a qualche mia preghiera;
Ch’io supplicare a Dio mai mai non cesso
Che al mio signor sua santa man stia presso.

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A quest’empie minacce oppor difesa
Or dunque vuolsi spaventevol cruda;
E investigar se alla romana Chiesa
Uom qui nemica in petto anima chiuda:
Ma nella santa e generosa impresa
L’alma d’ogni pietà vuol esser nuda:
Sol severa giustizia in opra porre,
Può omai dagli occhi tuoi quest’ombra tôrre.

E i più prossimi a te spiar più addentro
Dovrai, se vuoi ben monda aver tua corte.
Molti hai dintorno, a cui del cor nel centro
Io leggo espressa la tartarea morte:
Ma niun contaminato è più qua entro
Di Lorenzo, bench’ei tuo nome porte:
In vano ei tace, e celasi: il conosco;
Questi è il più audace e il men devoto tosco.

Già dirmi t’odo (o il celerai fors’anco)
Ciò ch’io pur so; che d’amoroso foco
Ardi per Bianca, e in te nol puoi far manco.
Ma, di tue cure a sollevarti un poco
S’ella giovasse, il temerario e franco
Suo fratel non darebbe a ciò mai loco;
O ch’ei di tua scusabil debolezza
Tenterebbe far base a sua grandezza.

Spegni, spegni costui: fia cosa grata
Al cielo ed a’ suoi pari un grave esempio.
Se poi forza di stella vuol che amata
Sia pur da te la suora di quell’empio;
La giovenil mancanza perdonata
Saratti, spero, se un marmoreo tempio
Ergerai, dentro al qual si chiudan cento
Vergini salmeggianti a canto lento.

Ecco, ad ogni tuo caso è omai provvisto:
Dunque ardir tu ripiglia, e in me confida:
Finchè i ministri avrai per te di Cristo,
Ogni nemico ogni altra larva sfida.
Pur che l’uom miscredente audace e tristo
A gloria e in nome del Signor si uccida,
D’ogni colpa ti assolvo: e appien fia spenta,
Se tre Pater dirai con Ave trenta.