L'Etruria vendicata/Canto IV
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CANTO QUARTO.
Così pentito confessato e assolto
Riede Alessandro alle regali stanze
Più queto e alquanto men pallido in volto.
Arrigo è quivi; e fervorose istanze
Gli fa, perch’ei raffibbi il giaco sciolto:
Ma il sir non vuole all’amorose danze
Tale impaccio serbar; quind’ei lo gitta,
Come in quel punto il suo mal genio ditta.
Poi tra il consiglio e la paura e il pio
Farneticar col frate avendo spesi
Del dì più che due terzi, in dolce oblío
Cenando ei spera che il timor men pesi;
Chè ognor fra i vini e il dissoluto brio
Son di mezzo valor gli spirti accesi;
Quindi ei, l’avanzo del fuggente giorno,
Diffonde a mensa d’aurea copia il corno.
A ogni tazza ch’egli avido tracanna,
Sente novello in sè nascer coraggio:
E com’uom che se stesso ama ed inganna,
Dei forti usurpa il vantator linguaggio.
Ma sua ragion però non gli s’appanna
Così ch’ei di timor non vegga un raggio.
L’uom vil che asconde in sè natura fera
Non apre a Bacco mai l’anima intera.
Pur dice ai grandi, che dintorno stanno
Atterriti laudandolo umilmente,
Ch’ei nulla teme e che i nemici il sanno,
E ch’altro egli non vuol più ardentemente
Che ciò mostrar con lor vergogna e danno.
Que’ suoi fedeli piangon caldamente
Maravigliati del valor sovrano:
E ognun tremante gli bacia la mano.
Ma, per più liete far le frutte poscia,
Destramente incomincia Arrigo a dire:
Signor, noi tutti poni in fera angoscia
Nel lasciarti agitar così dall’ire:
Vedi come dirotto il pianto stroscia,
E quanto il tuo martir ne dà martìre:
Piacciati, deh, rasserenar l’augusta
Fronte di troppo alti pensieri onusta.
Servirti a gara ognun di noi desía:
O giuochi o cacce vogli, o canti o amori;
Sol che tu dica: Io voglio: e fatto fia.
Ben è dover che alquanto si ristori
Con lieti aspetti omai tua fantasia.
Qual che dei nostri ministeri onori,
Piacer conforme al tuo desir scegliendo,
Ciascun presto già il tiene antivedendo.
Sorride il duca a cotai detti; e tosto
Ode i destri ministri ad uno ad uno
Narrar qual tresca gli abbiano disposto.
Lungo sarebbe a dir come ciascuno
Gli ha pel miglior l’ufficio suo proposto.
Vuol Cheroísso, all’aere ancor bruno,
Metter già il sir contro un cignale in sella;
E glien promette alta vittoria e bella.
Anabatisso a cavalcar lo invita
Un superbo corsier d’Africa tratto,
Domo pur or da lui, per l’inaudita
Sua rapidezza ad ogni caccia adatto.
Del prence a un tempo per la sacra vita
Giura che manso egli è non men che ratto:
Ciò giura ei, certo di sua man maestra
Con che il destriero a regia soma addestra.
Ma con vermiglia faccia e fronte lieta
Ride Maghizzo dei piacer penosi,
Da cui vuolsi che il sir sollievo mieta:
Quasi fosse del par nei faticosi
Giuochi ed in quei d’amore il prence atleta.
Quindi ei sapendo i suoi diletti ascosi,
Fa segno a Lenoncin che innanzi passi;
E in disparte coi più frattanto ei fassi.
Il sol che immantinente non dà luogo
Al buon messo d’amore, è Dolcimèle,
Che altero va dell’Apollineo giogo.
Vate non men che servitor fedele,
Vorría far de’ suoi carmi un breve sfogo
Per acquetar del prence le querele:
Ma, accennandogli il sir ch’ei non l’annoi,
Gli ha ricacciati in gola i carmi suoi.
Tosto che il duca è sol col messo fido,
Gli dice: Arrechi tu cosa novella?
Sir (gli risponde) io certo in me confido
Farti stanotte possessor di quella
Ch’ebbe finor più di ritrosa il grido;
Del fier Lorenzo la gentil sorella;
Bianca, che già sì debilmente or niega,
Che certo il sol tuo aspetto omai la piega.
Molto ella trema per l’amante suo,
Che da più giorni in carcer duro hai chiuso:
Con lui pur essa or tieni in poter tuo,
Se sai del suo timor far debit’uso.
Taciti e soli andremo a lei noi duo:
Certo segnal farò cui fare er’uso
Il suo Fileno, al qual Bianca venía
A un veron basso onde il suo amor udía.
Ella, credendo il suo amator disciolto
(Ciò che si brama credesi per poco)
Verrà al veron; dove a scoperto volto
Tuo nome a un tempo appalesando e il fuoco,
Le avrai ben tosto ogni suo scrupol tolto.
In erma strada corrisponde il loco:
Io veglierò ch’uom non vi passi: e intanto
Per te fia ’l cor della donzella infranto.
Ben dici: ov’io parlar possa con lei
Da solo a sol, tosto fia vinto il tutto.
E piacer doppio di quest’una avrei,
Per vieppiù rïempir di scorno e lutto
Quel suo fratello e madre, entrambi rei
Di questo a me finor vietato frutto.
Ciò detto; il prence in suo pensier disegna
Come Bianca ei possegga, e il fratel spegna.
Altamente nel core a lui s’è fitto
Il consiglio del provido Plenario;
Sì che il destino di Lorenzo ha scritto
Entro al fero suo libro sanguinario.
Pria non l’amava: or che lo udía proscritto
Per bocca di quel gran penitenziario,
Giurò sua morte; e di svenarlo ei spasma,
Per levarsi dagli occhi il rio fantasma.
Dopo un breve tacer, quindi ei soggiunge:
Infra un’ora a venir meco t’appresta.
Poi, com’uom cui speranza e desir punge,
L’aulica turba al suo pensier molesta
Tosto dal fianco suo tutta disgiunge,
Accomiatando colla regia testa.
Si prosternano i grandi; e uscendo, in cuore
Invidian tutti il messagger d’amore.
Solo Arrigo riman, cui brevemente
Narra il sir che ad impresa ardita e nuova
Egli uscirà soletto quetamente,
A veder se in amor vince la prova.
A prence, ai cui desir tutto consente,
È un saporetto che il piacer rinnova
Trovar ripulse: onde Alessandro or bolle
Dell’orgogliosa Bianca a sè far molle.
Prudente Arrigo vuol che d’otto o diece
De’ suoi sergenti accompagnato ei vada,
Da lunge almen, se da vicin non lece:
Ma il prence, o sia che in cor dubbio gli cada
Che a piegar Bianca non gli vaglia prece
Ond’abbia escluso a rimanersi in strada,
O sia destino, o ardir di Bacco sia;
Testimoni ei non vuol nè compagnia.
Mentre egli aspetta che più innanzi vegna
La notte amica a sue magnanim’opre,
Di privato zerbin l’arti non sdegna:
Leggiadretto vestir sue membra copre;
La chioma ei fa di odor soavi pregna;
La bianca mano e il bianco collo ei scopre
E, pien d’amore, al dì novello impone
Che si strozzi Lorenzo in ria prigione.
Ne gode Arrigo che Lorenzo abborre;
E suggerisce come a chiuder s’abbia
Del Sant’officio entro la negra torre,
Dove in segreto con devota rabbia
Lo inquisitore il può di vita tôrre.
Così mondata d’ogni erronea scabbia
Pura serbar sua corte il duca spera,
Se avvien che questo eretic’empio or pèra.
D’alto cor d’alto ingegno avea Natura
Fatto Lorenzo e d’una stampa rara:
Gran meditare aggiunto a gran lettura
Reso gli ha poi sana la mente e chiara.
Invidia quindi con sua bocca impura
Non fu contr’esso di calunnie avara:
E d’eretico egli ebbe ingiusta fama,
Perchè avea d’imparar la nobil brama.
Ma, mentre in corte il suo morir si ferma,
Tornato egli ha dentro a sue case il piede:
Dove la coppia sconsolata ed erma
Della madre e sorella appena il vede,
Che l’una e l’altra in voce egra e mal ferma,
Se sia compiuta lor vendetta, il chiede.
Narra Lorenzo brevemente ad esse,
Quanto l’ombra del Frate a lui dicesse.
La visïon maravigliosa ottiene
Facil credenza in cor d’afflitte donne:
Quindi dolce speranza omai le tiene
Che giustizia del ciel più non assonne.
Oh! se in lor mani il prence a por si viene,
Con qual furor fia che di lui s’indonne
Lorenzo, cui tre caldi sproni a un punto,
Onor vendetta e libertade, han punto.
Fremendo stanno ivi aspettando intanto
Ciò che per troppa brama or credon vero
Or non par loro da sperar mai tanto.
E investigando vanno ogni pensiero,
Per cui simile al vero appaia alquanto
Il venir quivi del tiranno altero.
Dice al fin Bianca: Or, s’io non erro, ho scorto
Come a ciò potria indursi il malaccorto.
L’ultima volta che il suo messo audace
D’infame amore favellarmi ardiva,
Non per ripulse mie men pertinace,
Mentr’ei da me scacciato a forza usciva,
D’umani affetti esplorator sagace,
Con questi detti il core ei mi partiva:
Pensa, o donzella, che al tuo sposo amante
Può tôr la vita il prence ad ogni istante.
Misi uno strido a tal minaccia, e in forse
Stetti piangendo e pregando per esso:
Ma ratto era il fellone allora a tôrse
Dagli occhi miei con artificio espresso.
Quel vil per certo al signor suo sen corse
A riferir l’alto terror che impresso
M’avea nel core, e a dir che palma avranne
Se arditamente ei stesso a me verranne.
Tremai, nol niego; e tuttavia pur tremo
Per lui, che in van mi prometteste sposo:
Misero! il tragge ora al periglio estremo
L’amor mio che già ’l fe’ tanto gioioso:
Ma in tomba entrambi pria chiusi n’andremo,
Che rïunirci in modo obbrobrïoso.
Nutre il tiranno in cor contraria spene;
Quindi in persona or forse a me sen viene.
Sì, venga ei pur, grida Lorenzo, ei venga:
Molto aspettato giunge, e accolto fia.
Come esser può ch’io qui l’iniquo spenga,
Chiaro or comprendo, e prego il ciel che sia:
E spero ch’oggi la grand’ombra attenga
Ciò che il labro profetico m’apría.
Qui tace, e taccion tutti: e dubbio e speme
Ora il cor loro innalza ed or lo preme.
Giunta è l’ora frattanto: e il duca solo,
Dal buon messo d’amore preceduto,
Di sfrenato desir sull’ali a volo
Ardito e baldo al vicolo è venuto:
Ivi il veron due braccia alto dal suolo
Vede chiuso, e dintorno il tutto è muto:
Tosto ei dice al fedel che il segno faccia
Che al rio Filen così gran ben procaccia.
Vero era ben ch’ivi venían talvolta
A favellar tra lor gli onesti amanti;
Non che licenza di vedersi tolta
Lor fosse il dì, poichè ai parenti avanti
Fè si giuraro che non fia mai sciolta;
Ma ognor d’amor pensieri anco i più santi
Sfuggon l’aspetto di madre severa:
Dei lor segreti la cagion quest’era.
Dal dì che Bianca in cor del prence entrava,
Di Lenoncino astuto il vigil guardo
Gli andamenti di lei tutti spiava:
Onde il cenno ei non era a scoprir tardo,
Con cui sua donna l’amator chiamava.
Già fe credere al sir quel vil bugiardo
Che in casa era Fileno indi introdotto:
E ciò soltanto in carcer l’ha condotto.
Or, com’uom che n’ha visto il pronto effetto,
Manda un certo suo fischio acuto all’aura
Ch’empie di gioia ad Alessandro il petto
E d’ogni avuta pena lo ristaura.
Ecco aprirsi il verone; e in vestir schietto
Donzella, il cui bel crin sparso s’innaura,
Sopra apparirvi con stellanti ciglia:
Volto ed atto che a Bianca appien somiglia.
Dov’è più buio, a invigilar si è posto
Lo scaltro messo; e s’è inoltrato il sire,
Quanto ei più puote, al bel verone accosto;
E senza far lungo proemio, a dire
Le vien ch’è tempo omai sia corrisposto
L’amor d’un prence, che ha per lei martíre,
E che in oblìo mandata sua grandezza,
Notturno vien per la di lei bellezza.
All’udir tali accenti, come stata
Fosse la donna dal segnal delusa,
Fa di ritrarsi vista in atto irata.
Ma allora il sire altro sermon seco usa,
Che tosto immobil l’ha quivi fermata.
Donna, credevi al tuo Filen dischiusa
Aver la via, dic’ei: ma in carcer duro
Io ’l tengo; e in lui far mie vendette io giuro.
I brevi detti orribili ogni senso
Paion tosto aver tolto alla donzella:
Voci di pianto ed un gemito intenso
Fan di altissima téma fede in ella.
Vedendo il prence al suo desir propenso
Giungere il punto, con audacia fella
D’un lieve salto in sul verone ei balza:
Ella dentro ritrassi; egli la incalza.
Calcato appena egli ha la soglia interna,
Che quasi lampo la donzella spare.
Stridula spranga il veron serra e imperna:
Nè raggio omai di stella ivi entro appare
Più che nella profonda grotta inferna.
Ecco, incomincia Alessandro a tremare;
Non sa che farsi; e non ch’ei gridi o muova,
Nè pur respira; e sta come ei si trova.
Non creda alcun che la donzella fosse
Bianca, qual parve all’amator suo rio;
L’alta Dea, che dal sonno dianzi scosse
Lorenzo ad obbedirla non restío,
Or dall’etereo polo anco si mosse;
E di sua mano ella il balcone aprío:
E il crine e il volto e i panni e gli andamenti
Di Bianca assunse, e ne imitò i lamenti.
La nobil Diva che ogni cosa estolle,
All’atto vil, che d’onestà la scorza
Parea macchiar, Bianca ivi trar non volle:
Chè la donzella al cor gentil far forza
Troppa dovuta avría nel parer molle
Verso un infame che a tremar la sforza.
E Libertà benchè ad inganni astretta,
Non vuol che a rischio mai l’onor si metta.
Quindi ella agli occhi del tiranno appena
S’è dileguata, che in sua propria forma
Venuta è dove il pianto mal si affrena,
Dove tre cuori un sol dolore informa.
Al lampeggiar (qual in notturna scena)
Della gran donna che a Lorenzo è norma,
Ben è mestier ch’alto terror percuota
Bianca e la madre a cui la Diva è ignota.
Ma il pro’ Lorenzo, che sua immagin viva
Caldamente nel core ha ognor scolpita,
Tosto a gioia i lor petti rïapriva
Gridando: O santa Libertade, aìta
Certo ne arrechi: il tuo venir ravviva
La speme in noi di non infame vita;
E a me foriero è del bramato istante,
In che il tiranno io svenerotti innante.
È giunta, sì (gli rispondea con voce
Tutta fremente di magnanim’ira
La Dea); sì, giunta alla tartarea foce
È omai quella crudele anima dira:
Fra queste mura, in tuo poter, l’atroce
Tiranno è già, che del suo error sospira;
Ma in vano. Io stessa de’ suoi vizi al laccio
Or or l’ho colto: ei sta di morte in braccio.
Arma, su tosto, la tua ardita destra
Del pugnal ch’io ti diedi sanguinoso.
La sala, a cui solo è il veron finestra,
Chiuso nasconde quel vile orgoglioso:
Quivi entro vanne: e la tua man maestra
Colpo sicuro vibri e dignitoso;
Ch’io, per tôr di viltade ogn’ombra all’atto,
Cingere al sire anco il suo brando ho fatto.
Ciò detto, spare: e già Lorenzo vola
Di gioia pieno all’additata stanza.
Ma intanto il sir sente afferrarsi a gola
Da una man d’invisibile possanza;
Ed ode a un tempo articolar parola
Da voce di terribil rimembranza:
Giunto è il momento ch’io predetto t’aggio;
Me non credesti: or credi in tuo coraggio.
Ciò dire, un lampo balenare, e sciorsi
A quel fulgore in fumo una figura,
È un punto sol: ma benchè ratta a tôrsi
Dagli occhi suoi, pur l’ombra raffigura
Il prence; e cade com’uomo che muorsi.
Già più di pria tornata è l’aura scura:
Silenzio e Morte sottentrati sono
Dei feri detti all’improvviso tuono.
Tutto ha ripien del suo terribil Nume
Timore il loco, e più del prence il petto:
Misero! omai di sè nulla ei presume,
E il fiero annunzio duolsi aver negletto.
Quindi il fantasma entro al suo tetro lume
Sen vien del duca al messagger diletto,
In vista d’uom d’armi sonante tutto;
E lunge caccia in fuga il servo brutto.
Ecco il sir dunque d’ogni aiuto è privo:
D’oltraggiato nemico in man sta chiuso,
Tremante, palpitante, semivivo,
Chi dell’altrui viltà fe lungo abuso.
Ma ripigliar l’alto valor nativo
Or or potrà quando fia ’l varco schiuso;
E nel veder che incontro un sol gli vada,
Gli sovverrà che al fianco ha pur la spada.
Già pe’ spiragli della chusa porta
Di luce alcun barlume si frammette:
Già un calpestio di piè l’aura v’apporta:
Già la stridente chiave s’intromette.
Il sir giacente vieppiù si sconforta,
E tien verso il rumor le orecchie erette:
Quand’ecco con grand’urto spalancarsi
L’uscio, e Lorenzo in sulla soglia starsi.
Sovra il suo capo innalza e all’aura scuote
Viva facella con la manca mano;
Ristretta l’altra a sè quanto più puote
Tien col pugnale il feritor sovrano:
E in suon di morte intuona al sir tai note:
Esci, esci, o tu, non men che infame, insano;
Tu, che a noi scorno qui arrecar credesti:
Ti schiudo io ’l varco; e quinci uscir dovresti.
Ma che? ti appiatti, e non rispondi? uscirne
Dunque non vuoi. Sta ben: noi due soletti
A parlamento qui potrem venirne. —
Entrar, l’uscio sprangar dopo tai detti,
Posar la face, e il fier pugnal brandirne,
È un solo istante: i piè quindi ha diretti
Dell’ampia sala in fondo, ove al verone
Non lungi il prence per terra è boccone.
Per incespare in lui già quasi stava
Lorenzo, allor che steso appiè sel vide:
E così forte pel timore ansava,
Che di Lorenzo la ferocia ride.
Egli stesso da terra lo levava,
E in uno scanno in faccia a sè lo asside.
Lo guata il duca, e di pugnale armato
Sopra sel vede orribilmente irato.
Quindi in codardo e supplichevol suono
Grida: O Lorenzo, al tuo signor cui presso
Stavi onorato qual leale e buono?...
— Perfido, sì; quel tuo Lorenzo istesso,
Che a’ tuoi voleri ubbidïente e prono,
Quale servo a tiranno, avesti spesso;
Quello, sì, quello, or Libertade e Onore
Arman di ferro ad isbranarti il core.
Che fai tu qui? donde v’entrasti? il vile,
Il traditor qual è di noi? favella,
Pria che ti pianti in sen questo mio stile.
Stuprar tu di Lorenzo la sorella?
A me tu giogo imporre aspro servile
D’inaudita tirannide novella?
Ciò tentasti: e speravi omai protrarre
Tuoi dì? Del folle error ti vengo a trarre.
Anch’io fra il lezzo di tua iniqua corte
Vivea, nol niego, tacito fremente:
Perfin lusinghe menzognere e accorte
Teco usai, per celarti appien mia mente:
Ma sempre in cor scolpita la tua morte
Portai, com uom di nobil brama ardente
Di liberar da un mostro qual tu sei,
Più che me stesso, i cittadini miei.
Nè tu, benchè al tuo fianco ognor volessi
Tenermi, incontro a me nel cor protervo
Odio avevi minor di quel ch’io avessi;
Ma farmi intanto alle tue voglie servo
Godevi, infin ch’a uccider me credessi
Bastarti appien di tua possanza il nervo:
Vittima in corte mi serbavi e ostaggio
Del futuro tirannico coraggio.
Ben io ciò lessi entro il sanguigno sguardo
Che a me volgevi, simulando il riso.
Se ad assalirti in mezzo a’ tuoi fui tardo;
Non creder già che rio timor conquiso
Mi avesse il cor; ch’io di furor tropp’ardo,
Ed esser vo’, purch’io te sveni, ucciso:
Ma il non poter mai ben sicuro il colpo
Vibrar, fa ch’io d’indugio ancor m’incolpo.
Forse al mio dire altro a risponder hai?
Pria di morir, non io tel vieto, parla:
Udiam, se in nulla contraddir mi sai. —
Fin qui sua voce, senza mai fermarla,
Movea Lorenzo. Il sir più lento assai
La sua trovava; chè a gran pena trarla
Può dal tremulo petto, e si confonde.
Ma sua Bassezza al fin così risponde:
Che posso io dir, che dal pensier tuo fello
Di darmi morte, or che qui m’hai, ti toglia?
È ver ch’io spesso di pietà rubello
A molti era cagion di fera doglia:
Ben creder puoi ch’or non sarei più quello,
Se mai tornassi alla regal mia soglia;
Or che i tuoi detti ed il mortal periglio
Giovato m’han di salutar consiglio.
Tu, che sei d’alto cor; se aver pietade
Di me non vuoi, poich’io pietà non merto;
Dèi pur pensar che al mio cader non cade
Qui la possanza del mio regio serto,
Che al ritornarsi i Toschi in libertade
Fia ’l gran monarca ispano ostacol certo,
L’alto suocero mio, quel quinto Carlo
Che mezzo ha il mondo e tutto fa tremarlo. —
Scaltro così, benchè atterrito, ei tenta
Di por di sua viltà Lorenzo a parte.
Ma studiato il suo dire tanto stenta,
Che l’altro grida con furore: Ogni arte
Vana è con me, ch’ogni dubbiezza ho spenta.
Bastami sol ch’empio e fellon negarte
Non puoi tu stesso: io narrerotti il resto
Di quanto spetta al mio avvenir funesto.
Ben so che il tôrre a te la infame vita
Timor può tôrre e non tornar virtude
Nei cittadin della città partita;
So che invano avverrà forse ch’io sude:
Gente fra vizi in rio servir marcita
So qual feccia e viltade in cor racchiude:
Ma fia perciò che un trucidato mostro
Breve gioia non rechi al popol nostro?
Per questa imbelle innanellata chioma
Alla mia manca man tua tronca testa
Doman fia dolce e spaventevol soma:
L’andrò mostrando intorno: e fia gran festa
Veder superbia e crudeltade doma.
Ma in alto a un tempo, a trucidar me presta
Con questo ferro ch’io dal cor ti trassi,
La non tremante destra mia vedrassi.
Forse avverrà che il tuo abborrito sangue
Schiuda all’ardire e a libertà la via:
Forse avverrà che pallido ed esangue
Ogni uom per tema più invilito sia.
Ma, sia che vuole, in me virtù non langue:
Se grande e forte parrà l’opra mia,
Sarò doman liberator nomato;
Se traditor, per mano mia svenato.
E quel tuo Carlo, che al Ducato diede
E non a te sua spuria figlia in moglie,
Se, ucciso te, franca l’Etruria ei vede,
Senz’altro dir la figlia sua ritoglie:
Se pon sui Toschi altro tiranno il piede,
Genero a sè l’altro tiranno accoglie.
Ma non può in vita mai Carlo tornarti
Nè di me palma aver nel vendicarti.
Nè quel tuo padre, o immaginato tale,
Che il Ducato creò per farten duca,
S’anco ei vivesse, il rio poter papale
Varrebbe a trarti dalla inferna buca.
Chi vuol morir, più d’ogni prence ei vale:
Quindi raggio di speme omai che luca
Per te qui dentro, aspetti in van dai grandi
Ch’eran base ai tuoi vizi abbominandi. —
Di un tal parlar la ragionata rabbia
Ben mostra al sir, quanto tenace il chiodo
Lorenzo in core or conficcato s’abbia;
E vede alfin che sta per sciorsi il nodo.
Quindi con bianca e tramortita labbia:
Ch’io morir debba, e in così infame modo?
Grida un avanzo del regal suo spirto.
Gli si fa intanto il crin per orror irto.
Ma con impeto fero ecco risposta
Gli dà Lorenzo che d’indugio è stanco;
Infame il modo? e sceglierlo a tua posta
Nobil non puoi, fin che hai la spada al fianco?
Da me, se l’osi, un passo o due ti scosta;
Tuo brando snuda: ei non potría già manco
Del pugnal breve che mia destra afferra:
E ben fia tutta in tuo favor tal guerra.
Mira: non fammi ascoso usbergo audace:
Di ferro no, di virtù cinto ho il petto.
Ma che? non muovi? e già il tuo sdegno tace?
Il vedi or quanto abbia tremendo aspetto
Morte che altrui spesso inviar ti piace:
Tu il vedi or quanto a darla fora inetto
Tuo regal braccio, ove ferir tu stesso
Dovessi invece del crudel tuo messo.
Alta divina libertade io porto
In cor: tu, vil, di tirannia l’hai pieno:
Sorgi, su, sorgi; e fia il combatter corto.
Ma omai convinto che d’ogni uom sei meno
Ti veggo: e teco è il tuo furor già morto;
Non l’è il mio, no; che mi s’addoppia in seno
Nel veder ch’abbia alma codarda tanto
Bevuto a sorsi il nostro sangue, il pianto.
Inevitabil, necessario, e molto
Vicino è il morir tuo: ma pur lordarmi
Nel tuo fetido sangue e mani e volto
Del mio valor poco degn’opra parmi.
Meglio fia, se tu stesso, in te rivolto
L’acciar, sì brutta cura a me risparmi:
E a te parrà morte assai men sinistra
Quella onde fai tua regia man ministra. —
E in così dir, con ardimento strano
Nella destra del sir Lorenzo ha posto
Il suo proprio pugnal; ma con sua mano
Del duca il pugno ei tien da sè discosto.
Così corregge il generoso insano
Rischio a cui sè per troppo ardire ha esposto
E intanto gli occhi più che bragia ardenti
Sovr’esso tien ferocemente intenti.
Nè il prence in lui più che in sè stesso forte
Far uso alcun del non suo ferro accenna:
Altrui non osa, a sè non sa dar morte:
Sospira, e geme, e col pugnal tentenna.
Già non fia che Lorenzo omai sopporte:
Già col furor che l’ultim’ali impenna,
Gli strappa il ferro in sì terribil atto,
Che in piè qual lampo balza il duca ratto.
Nè so dir come in un baleno ei trova
Via di sguizzar sotto le irate braccia
Di lui ch’era per far l’ultima prova.
Per l’ampia sala indi a fuggir si caccia,
E il terzo giro a volo ei già rinnova:
Ma l’altro il segue, e incalzalo, e minaccia
E al fin l’ha giunto: ecco nel crin gli avvolge
La manca mano: e indietro a sè lo svolge.
Poi, quando in viso ben mirato l’ebbe,
Vile (gridò) tu mi vi sforzi e duolmi;
Che sì onorata man non ti si debbe.
Muori al fin, muori; chè i tuoi giorni hai colmi.
In ciò, piantato in cor gli ebbe e riebbe
Lo stil, finch’ei sua giusta ira ricolmi.
Lagrimando sfuggía l’alma odïosa,
Che fu sì cruda al mondo e obbrobrïosa.