L'Etruria vendicata/Canto II

Canto II

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Canto I Canto III

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CANTO SECONDO.


Sorger da’ lidi Eoi la messaggera
Del nuovo dì vedea Lorenzo forte.
Rose la fronte, il crine auro non era:
Ma come pinta di color di morte,
Dietro una nube orribilmente nera
Par che novella notte al mondo apporte.
Almo Sol, forse rischiarar tu sdegni
Terra ove il giusto gema e l’empio regni.

Tinte di sangue e in torbo fuoco ardenti
Travi tengon dell’aria il vasto campo.
Benchè il Bruto toscan poco ai portenti
Creda, a tal vista pure un doppio lampo
Gli appar negli occhi di furor splendenti:
E grida: O ciel, s’oggi il tiranno ha scampo
Dal mio pugnale, in questa guisa orrenda
Sempre sanguigno il sole a me risplenda.

Precipitoso già fuor della soglia
Scagliasi, e l’alta impresa a compier vola;
Quand’ecco innanzi a lui d’amara doglia
Piena il cor, piena il volto, in negra stola
Sua madre fassi; e in disadorna spoglia
Trista del par vien seco la figliuola.
Vedova madre, al mondo or che ti resta?
Nè congiunti nè prole altr’hai che questa.

Lorenzo e Bianca ad un sol parto in luce
Died’ella, del suo amore ultimi pegni:
Chè tosto poscia inesorabil truce
Morte il suo sposo trasse ai cupi regni;
Indi l’ingorda ultimo danno adduce
Al fratel suo; nè pon tregua agli sdegni,
Se pria non l’ha d’altri duo figli orbata,
E quasi a eterne lagrime dannata.

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Posta ogni cura ogni speranza estrema
Dunque ha ne’ due cui morte non le tolse:
D’affetto piena e di materna tema
Ad ogni lor più lieve duol si dolse:
Chi dir potria com’ella or spera or trema!
Quante fïate al ciel gli occhi rivolse
Imploratori del supremo aiuto,
Pria che il quinto lor lustro abbian compiuto!

E già del figlio e la virtude e il senno,
Come di Bianca la dolce beltate,
Quasi obbliar suoi prischi guai le fenno,
Soave appoggio a sua cadente etate.
Ma il dì, che ad essa i figli increscer denno,
Già surse; e duolsi che crudel pietate
Le Parche indusse a differir lor rabbia,
Perch’ella poscia a disperar più s’abbia.

Figlio, dicea, deh! figlio, a che sì ratto
Alla stanza materna dài tu il tergo,
Se suora e madre pria non hai sottratto
Dal mal sicuro doloroso albergo?
Non sai l’oltraggio orribil che a noi fatto
Vien da quel vil che il trono ha per usbergo?
Ah nol sai tu: che se il sapessi... Oh figlio!
Tempo, tempo è d’oprar, non di consiglio...

L’empio Alessandro, i cui trofei novelli
Son giustizia onestà fede e natura
Vinte ed infrante sotto i piè rubelli,
Questi cui preme sol regale cura
Contaminare vergini e donzelli,
Sentina vil d’ogni più ria lordura,
Ahi schiavi noi!... quest’Alessandro regna;
E novella ogni dì vittima ei segna.

E a gara van, di sua libidin cruda
Chi più infame di lui sia il gran ministro:
Già in altro arringo omai Tosco non suda,
Nè ferro usa che il molle calamistro.
Ma il fero arcano il mio parlar ti schiuda.
Manda già il quarto reo messo sinistro
A Bianca il sir, che sue malnate brame
Feroce annunzia e squarcia ogni velame.

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E noi l’udimmo? Or che più narro? assai
Tutto comprendi in cor, quant’è l’oltraggio
Da nobil sangue non patito mai,
O vendicato con viril coraggio.
Tu fremi? oh gioia! oh figliuol mio! sciorrai
Tu, sì, sciorrai di così reo servaggio
Il crudo infame abbominevol nodo,
Cui codardia fa sol tenace e sodo.

Mentre con pianto e rabbia escon tai detti
Dalla adirata dolorosa donna;
Del figlio, a cui già in cor bollian ristretti
Feroci spirti, alto stupor s’indonna:
Son gli accenti al rispondere intercetti;
Fredda immobile sembra alta colonna;
Tanto è profondo ed immenso il suo sdegno:
Ma di vendetta il gran silenzio è pregno.

Ecco già rotte al suo furor le sbarre:
Con occhi accesi orribilmente torti
Stridere in suon tremendo, il ferro trarre,
Gridar: Muoia il tiranno: alti trasporti,
Vivi moti, cui mal penna che narre
Tenta ombrar di color fievoli e smorti;
Tai di Lorenzo i rapidissimi atti
Sono: e men ratto assai palpèbra batti.

Già fuori, già del limitar si scaglia,
Reiterando: Muor, muori, tiranno.
Ma la minaccia e il corso ecco gli taglia
Bianca, che esclama con mortale affanno:
Deh, fratel mio, t’arresta! ah! più ti caglia
Di te, di noi: t’arresta: orribil danno
A tutti noi sovrasta: odimi; ah! pria
Tutta almen odi la sventura mia.

Che vuoi tu far? valor non è che baste
Contro il fellon, cui sua viltà nasconde
Dietro ben cento e cento usberghi ed aste
Per te per noi s’io tremo, or n’ho ben d’onde.
Quel che a me sposo dar già voi fermaste,
Al cui fedele amor mio amor risponde;
Quegli, or più giorni in carcer duro afflitto,
Nunzio m’è al cor d’ogni maggior delitto.

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Fileno mio, di mia vita conforto,
Unico ben che tirannia mi toglie;
Sol perchè m’ami rïamato, attorto
Gemi or fra lacci in preda all’empie voglie
Di rio signor che già tanti altri ha morto!...
Volea più dir: ma il gran pianto le scioglie
I mesti accenti in flebili ululati.
Stan Lorenzo e la madre abbrividati.

Beltà vedresti semplice, dolente
Tutta al viso chiamar l’anima trista;
Parte d’esso ombreggiarne il crin cadente
Sovra il percosso petto in doppia lista;
E la pallida guancia amaramente
Solcare un rio che ognor più forza acquista;
Or le mani al fratel sporger pietosa,
Le luci al cielo or volger dispettosa.

Ma poi ripiglia in suon più maschio assai:
Aspra mandommi il sir fera minaccia;
Deh, pria che forza, al mio voler non mai
Ma a questo corpo debile si faccia,
Tronca, o fratel, col tuo pugnal mie’ guai;
In mezzo al cor quel ferro tuo mi caccia:
Già vendicarmi tu mai nol potresti:
Me lasci, a morte corri; e vuoi ch’io resti?

Lorenzo allor: Pria di saper quest’onte
Private nostre, io m’era in cor già fitto
O perder vita o rïalzar la fronte
Di questo servo popolo proscritto:
Già il rio tiranno d’ogni angoscia fonte
Dianzi cader per me dovea trafitto;
Chi fia che omai la rabbia mia raffreni?
Tanto oltraggio s’aggiunge; e ch’io nol sveni?

O degno figlio, o veramente mio:
Grida la madre con feroce gioia:
Pèra, sì, pèra, per tua man quel rio:
Va’, tenta, e non temer ch’io schiava muoia,
Nè che in preda al tirannico desío
La figlia io lasci, e a noi l’onor premuoia.
Noi pure un ferro, ardir noi pure avremo:
Se cadi tu, di nostra man cadremo.

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Ma troppo è certo il vincer tuo: ti scorre
Nelle vene per me libero il sangue
Di quel gran Soderin, che ardì sol porre
Il piè sul Medicèo tirannico angue:
Tu del nome paterno a te ben tôrre
Saprai l’infamia, se in tuo cor non langue
L’ira materna, e se abborrir tiranni
Io t’insegnai fin da’ più teneri anni.

Tu, benchè nato di Medìceo seme,
Per me purgata hai già tal macchia in parte:
Se al vostro nome ogni uom d’orror qui freme,
Cor ben altro tu spieghi e ben altr’arte:
Da’ tuoi se oppressa la tua patria geme,
Qual ti fia gloria in sua difesa armarte!
Qual gloria a me, se dal mio fianco usciva
Germe di re che tirannia sbandiva!

So che tu, nato a iniquo trono appresso,
Mai, se non per disfarlo, nol bramasti.
Or ecco t’offre il crudo prence istesso
Alta cagion che a tanto effetto basti;
Va’ dunque, corri, scágliati sovr’esso:
Già non fia che a virtù viltà contrasti:
Teco è lo sdegno mio; teco è di tutti
L’alto furor: teco di Bianca i lutti:

Teco il gran braccio di quel Dio possente,
Che fe la ebrea donzella un dì sì forte,
Che osò, per dar vittoria alla sua gente,
Entro nemica tenda a un re dar morte.
Deh, fossi io teco, come in cor l’ardente
Brama ne avrei! che di niun’altre scorte
Or m’udresti al ferir farti parola:
Scorta a tanto sarìa questa man sola.

Disse: e Lorenzo già dai materni occhi
S’è dileguato a vol, rapido tanto
Che assai men va stral che dall’arco scocchi.
Le donne entrambe desolate intanto,
Acciò lor duol più libero trabocchi,
Della magion nel più riposto canto,
Là dove fioco alcun barlume fiede,
Ritraggon meste il vacillante piede.

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Quivi aspettar di dubbia impresa il fine
S’eleggon; quivi alto consiglio han fermo:
Che pria che il sol di nuovi raggi il crine
Cinga, se a lor vien meno ogni altro schermo,
Un ferro stesso esangui al suol le inchine;
La madre il vibri, ch’aver dee più fermo
Per più etade e più sdegno il braccio e il core.
Ahi crudo pegno di materno amore!

Ahi crudo sì, ma necessario pegno
Di vero amor! se avvien che sceglier deggia
Tra vergognosa vita e morir degno.
Così già un dì, là dove oggi campeggia
Viltà che usurpa di virtude il regno,
Virginio, a cui niun padre si pareggia,
Di ferro armato e di pietà, svenava
La propria figlia, e a lei l’onor salvava.

Mentre nel duol profondo immerse stanno
Le forti donne al fier rimedio preste;
Quei che a morire o a ristorar lor danno
Vola sull’ali che il furor gli veste,
Dell’empio ostel che asconde in sè il tiranno
Ecco ei già preme le soglie funeste:
Ma, oimè! chi veggio, che l’entrar gli vieta
E vieppiù di vendetta in van lo asseta?

Il riconosco ben: questi è Foberro,
Timido-ardito delle guardie duce,
Che la natía viltà di tutto ferro
Addobba, e appiatta sotto aspetto truce.
Olà, gridava l’orgoglioso sgherro,
Tu cui del mio signor qui non conduce
Ordine espresso, oltre varcar non puoi.
Perchè?... Così si vuol... Ma pur?... Nol puoi.

Lorenzo usava col tiranno spesso,
E ciò per più l’odio celare ei fea;
Onde il non mai finor vietato ingresso
Or ben mille sospetti in cor gli crea.
Teme, col chieder più, tradir se stesso,
E a colui dar qualche sinistra idea:
Ma d’altra parte il piè ritrar gli duole:
Ond’a lui vengon men fatti e parole.

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Timor lo assal sol di non compier l’opra
Ch’altro timor nel petto suo non entra:
Dunque è mestier che il suo furor ben copra;
Ch’ove non può virtude, arte sottentra.
Volto ei compon che l’animo non scopra;
L’ira nel cor profondo riconcentra;
E in non crucciato, anzi in gioioso aspetto,
Dice: Dunqu’io d’entrar qui l’ora aspetto.

Soggiunge l’altro: Aspetteresti assai,
Chè in suo fido consiglio il prence stassi:
E nuova legge vuol che non più mai
Uom non richiesto alle sue stanze passi.
Perduta ha dunque ogni speranza omai
Lorenzo d’inoltrar dentro i suoi passi:
Ond’ei le spalle dà senza far grido,
Aspettando che il duca esca dal nido.

Fra sè rivolge qual cagion novella
Oltre l’usato il sir sì cauto renda:
Ma poi sovviengli che natura è quella
Di chi regna, temer che ogni uom l’offenda,
E più temer quanto più l’alma ha fella:
Quindi stupor non fia ch’ei di ciò prenda.
Trema a tua posta, trema (ei grida), o vile:
Già, per tremar, non sfuggirai mio stile.

Poi fa pensier come assalirlo tosto
Che il piè fuor della reggia iniqua ei porte:
Sia, quant’ei vuole, in mezzo a’ suoi nascosto,
Sì, ’l troveranno pur vendetta e morte.
Già già Lorenzo s’è in aguato posto,
Dove in solinga via celate porte
Del principesco ostello escono al fiume,
Donde il sir fuori andare avea costume.

Quinci a’ suoi stupri e a sue vendette ei muove
Tacitamente con pochi seguaci:
E quivi han scelto far le ardite prove
Di Lorenzo le cupe ire sagaci.
Era omai l’ora in che il figliuol di Giove,
Quel che disperde le notturne faci,
Giungendo al fin del suo veloce corso,
Par che a’ feri destrier più allenti il morso:

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Quando improvvisamente ecco turbarsi,
E mugghiando strosciar dell’Arno l’onda;
Ora in vortici aprirsi, or rigonfiarsi,
Tal che ne trema l’una e l’altra sponda;
Non altrimenti che sott’essa d’arsi
Zolfi s’aprisse voragin profonda;
Sì ch’or l’acqua nel vuoto giù trabocca,
Or l’adirato fuoco in su la scocca.

Così là dove al cavernoso fianco
D’Etna tonante il mar rabido fragne,
Spesso Vulcan di sofferir già stanco
Che impetüosa altera onda lo bagne,
Quel fuoco a cui mai l’esca non vien manco
Sgorga sovra le liquide campagne;
E d’imo a sommo a svolgerle sotterra
Tutte le ardenti sue chiostre disserra.

Or che fia mai che l’umil Arno agguaglia
Al mar ch’ogni elemento a prova mesce?
Ecco già vinta ha la feral battaglia
Fiamma che fuor dell’acque orribil esce:
Torba fiamma che in su già non si scaglia,
Ma lenta lenta a poco a poco cresce:
Ed or l’asconde, or l’appalesa un tetro
Fumo che intorno serpe in vario metro.

Di sangue assai più che di fiamma rosso
Color tra ’l negro fumo ivi traspare.
Pria smisuratamente sopra il dosso
Dell’onde alzato torreggiante appare:
Quindi forma vestir di uman colosso
Vedi il vapor; poi dal salir restare:
E, quel fragor terribile tacendo,
Più terribil seguir silenzio orrendo.

D’ira e dolor la spaventevol forma
Sua faccia atteggia in vêr Lorenzo vôlta:
L’ispida barba, e l’irto crin s’informa
Di lunghe strisce di caligin folta:
Irsuto è il ciglio, d’atra nube a norma:
Fiamma in profonda caverna sepolta
Fosco-splendente il morto occhio rassembra;
Sanguigno foco, l’altre immani membra.

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Non cred’io che a veder terribil tanto
Fosse il fantasma, che notturno apparve
A Bruto là dov’ebbe ultimo vanto
Libertà che dal mondo poi disparve.
Ma, come il cor del gran Romano infranto
Non avrian tutte le tartaree larve,
Tale il Tosco miglior de’ tempi suoi
Grida allo spettro: Or chi se’ tu? che vuoi?

Spirto son io di tal cui fra quest’onde
Diessi, ha più lustri, scellerata tomba:
Vengo in tuo pro. Così cupa risponde
Voce che in aria al par del tuon rimbomba.
Poi segue: Il cener mio quaggiù s’asconde,
Ma il nome no, chè la sonora tromba
Di lei che l’uom dal cieco oblio sottragge,
De’ prepotenti ad onta, fuor nel tragge.

Stoltezza invan d’ignaro volgo, invano
Maligna astuta superstizïone,
Da cui raccoglie il gran prete romano
Oro più assai che da religïone,
E invan l’abuso del poter sovrano,
Perfin tiranno della opinïone,
Han di lor negre tede inceso il rogo
Che il corpo m’arse e all’alma tolse il giogo.

Mie polpe ed ossa in polve invan ridutte
Giaccion prive d’inutil sepoltura;
Chè meco spente non son l’ire tutte,
Ed è l’alta vendetta omai matura:
A te si aspetta; e per tua man distrutte
Le reliquie saran di questa impura
Schiatta che a me non fu spegner concesso,
In cui tuo nome ammenderai tu stesso.

Oh! disse allor Lorenzo: io ti ravviso
Al tuo maschio parlare, ombra feroce.
Te spento, io nacqui: ma pur so che assiso
In pergamo tuonasti della voce
Sì che ogni Tosco fu per te conquiso;
Tu, non libero nato ove ha sua foce
Dei fiumi il re, pur festi udir, ma indarno,
Liberi sensi al non più liber Arno.

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Deh, dimmi; e perchè mai timido velo
Piacqueti fare agli alti insegnamenti
Di libertà coll’oppressor vangelo?
Quei che bollíano in te nobili ardenti
Spirti, ch’or più non dà l’italo cielo,
Che non sgorgasti in manifesti accenti?
Ratto avria il core agli uditor tuo dire:
Saprían per te, pria che servir, morire.

O giovinetto (ripigliava l’ombra)
In cui non men che il petto arde la mente,
Per poca età biasmi ogni vel che adombra
Il ver, che dir si dee liberamente:
Ma tu non sai qual d’error nebbia ingombra
Le corte viste alla odïerna gente:
Tua liber’alma è scorta a te fallace
Per giudicar l’altrui che serva giace.

Ad aggiunger valor fierezza o sdegno
Al tuo fervido cor già non venn’io;
Un cotal poco a farti accorto io vegno,
Perchè n’esca a buon fin l’alto desio:
Nè, me s’ascolti, precettor non degno
Io ti parrò: nè dell’esempio mio
Schivo in tutto sarai: chè, non mio errore,
Sorte involommi il da te ambito onore.

Questa città rifar libera volli:
Difficil era, e mi fallía l’impresa.
Or tu gl’intrepidi occhi a tanto estolli,
Tu che ben senti se il gran giogo pesa:
Tua vita almen, se tirannìa non tolli,
Fia nel tôrre il tiranno assai ben spesa.
Io nol potei, ch’eran più d’un; ma in bando
Tenni il Mediceo vil seme nefando.

Del volgo irato ed incostante io poi
Vittima caddi; e tale esser dovea;
Chè la plebe discior da’ lacci suoi
Mal puossi, mentre di costumi è rea.
Che val che in vista il soggiacer l’annoi,
Se del reggere ha in sè falsa l’idea?
Gente imbelle, corrotta, e al mal nudrita,
Pria che all’armi, io la trassi a santa vita.

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Regoli qui, qui non avea Catoni:
Roma vista m’avria brandir lo stile;
Flora udì miei vangelici sermoni:
Tra’ grandi grande, in fra codardi vile:
A diversi destrier, diversi sproni:
Altro loco, altra età, vuolsi altro stile:
Certo a color per cui Licurgo scrisse,
Stolto fora il narrar Cristo qual visse.

Ma qui, d’Italia fetida nel mezzo,
Dove di luce aurora pur non sorge,
A penetrar ben dentro i cuor qual mezzo
Miglior dei tanti che il vangel ne porge?
Libro de’ libri! a chi nol legge a mezzo,
È in esso assai più là che il volgo scorge.
Fraude, il veggio, ti spiace; ed io non l’amo:
Ma chi si coglie or di virtude all’amo?

Tu pur se il nobil tuo disegno in parte
Compier vorrai, mestier ti fia l’inganno.
Qui lo interrompe il giovin fero: All’arte
Scenderà (grida) chi non teme danno?
Questo mio stil, più che tue sacre carte,
Nobil mezzo non è contro a tiranno?
Amor di vita ogni grand’opra guasta:
Èmmi il saper morir arte che basta.

Qui pur t’inganna il tuo gran cor: soggiunge
Lo Spirto allor. Morire è d’ogni forte
L’arte, ma pur non ogni forte aggiunge
All’arte del sapere altrui dar morte.
Te desío di morir pur troppo punge,
Ma all’uccider non son tue man sì scorte:
Non al tiranno, a te qui tendi aguato:
Ch’ei forse vien d’ascosa maglia armato.

Fa’ ch’egli esca soltanto: e sì s’appiatti
Poi dietro a doppio e triplicato usbergo;
Quanto ei più può, ferro su ferro adatti
Al petto ai fianchi e al timido suo tergo.
Fa’ sol ch’egli esca: indi a veder qui statti
S’io tutto in lui, tutto il pugnale immergo:
Ferro ogni membro sia, gli occhi ha di carne;
Varco fien gli occhi onde l’alma empia trarne.

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Così, fremendo, il giovin furïoso.
Ma risponde il fantasma in suon di sdegno:
Saggio fossi tu quanto ardimentoso!
Che val schietto valor contr’uom che ha regno,
E, baldanzosamente pauroso,
L’oro ha per schermo e il doppio astuto ingegno?
Se l’ordin tu dell’assalir non cangi,
Qui ’l tuo furor, qual onda a scoglio, infrangi.

Ti duol la frode: or di’; non è la frode
Che il primier di que’ vili in seggio pose?
Re qual divenne mai per l’esser prode?
Finte virtudi, iniquità nascose,
Fur l’arti ond’ebber nome e possa e lode.
Leoni no, ma volpi insidïose,
Cui non mi par che d’uom titol convenga:
Fraude vita lor diè, fraude li spenga.

Ben è lo inganno abbominevol, dove
Virtude ha loco e manifesta guerra:
Me già non strinse alle mendaci prove
Solo il cappuccio che viltà rinserra;
Più mi v’astrinse assai ragion che muove
Da lunga esperïenza che non erra.
Sfidar vorresti a singolar tenzone
Chi al tuo brando mannaia e scettro oppone?

Stupida in te se la ferocia fosse,
Allegarti potrei biblici esempi;
Come il rettor del cielo ei stesso mosse
Con frode l’armi a far trafigger gli empi;
Come spesso al tradir prendean le mosse
Perfin donzelle da’ suoi sacri tempi.
Ma se d’ebraici eroi tu sdegni l’orme,
Dienti i greci e i latin più illustri norme.

E Pelopida e Cassio e Bruto e quanti
Le man bagnâr nel sangue di tiranni,
Forti eran pure, e non di fraude amanti;
E tutti pure opraro in ciò gli inganni.
Che più? tu stesso al reo signor davanti
Non t’infingi ogni giorno, or già ben anni?
Tu il vedi pur, tu pur gli parli; e in core
Chiudendo l’odio, a lui dimostri amore.

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Che or qui lo attendi, già non gli hai tu detto:
E a sua magion dianzi affrettando il piede,
Morte volgendo entro al bollente petto,
Vestivi il volto di mentita fede.
Dunque fingesti, e fingi: e chi può schietto
Appresentarsi ove tiranno siede?
Servirlo, amarlo, favellargli è fraude
Più vil che il trucidarlo, e ottien men laude.

Or, se col sir finger de’ sempre il servo,
Fingasi; ma vittoria ampia se n’abbia.
Vanne; riedi alla madre: ivi il protervo
Fia tratto in breve da lasciva rabbia:
In man lo avrai fatto di tigre cervo;
E il purgherai tu dalla immonda scabbia.
Così fia spento quel pestifero angue,
E l’onte e il sangue laverai col sangue.

Nulla più aggiungo; vanne: ivi opportuna
Occasïon del vendicarti avrai:
Lussuria, e tosto, ammenderà fortuna,
E recherà al tiranno ultimi guai.
Quivi aspettalo: altrove ognor digiuna
Tua fera sete rimarrebbe omai.
Qui tacque l’ombra, e sua gran forma fuse:
L’igneo fumo sparì: l’onda si chiuse.