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216 vittorio alfieri


Ultimo vien della minor settina,
Filaprobato delle poste mastro:
Dignitade importante e pellegrina,
Che porge a lieve mal ben grave impiastro;
Non osa uscir d’ovil pecora fina,
Se il contende costui col suo vincastro:
Esca la plebe pur, che, s’io ben scerno,
Par troppa ognora in signoril governo.

Portano i sette e sette ch’io nomai,
In nobil fregio un bello aureo segnale
Che raggianti li fa, nè il lascian mai.
Pende a tutti dal collo un animale
Di quei che a’ pastor fanno tragger guai.
Tacciasi il vello d’or, tacciasi quale
Tra le regie patacche ebbe più fama.
Questa è il simbolo ver di real brama.

Ecco, mezza compiuta ho la rassegna
Dei consiglier che fanno al sir ghirlanda,
Lunghetta alquanto più che non convegna.
Forse avverrà che mal l’inchiostro io spanda.
Pur, benchè altrui non paia, a me par degna
Della destra non men la manca banda
Di rimembranza, qual dell’altra fassi.
Chi dissente da me, due carte passi.

Siede d’Arrigo la burbanza ria
In faccia al prence, di cui tiene il core.
Già non domanda alcun, che ufficio sia
Che immedesma costui col suo signore.
Siede ei nel mezzo, e i volti intorno spia,
Severo inesorabil delatore:
Nulla ei può dar, tôr tutto: anco il più ardito
Ne trema; e niun, quant’egli è reverito.

Ve’ degli ultimi eroi l’ultimo starsi,
D’Arrigo a destra, Dolcimel poeta:
Nè musa in corte loco altro arrogarsi
Osi; ma in corte Musa è ognor discreta.
Del prence il fausto natal dì cantarsi
Suol da lui con rotonda faccia lieta.
Laudar mal sa; biasmar, non n’ha l’ingegno:
Ben ei di questo Augustuletto è degno.