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220 | vittorio alfieri |
Tornerà tosto a vita il padre vostro,
Non vi affannate, o figli sviscerati;
Suo immenso amore ha ognun di voi ben mostro,
Pregando il Ciel con caldi miagolati;
Bench’io v’udii, quai monacelli in chiostro,
A cinque a sette a quattro sparpagliati
Sommessamente ir la cagion cercando,
Per cui sta il prence de’ suoi sensi in bando.
Odo, è vero, tra voi, quei che discreti
Più sono, la indefessa vigil cura
Incolparne, con cui troppo in segreti
Gravi affari di Stato il prence dura:
Ma fuvvi ancor chi ai troppo spessi e lieti
Sagrificii alla Dea del ciel men pura
Colpa ne diede: oh buon per te, che inteso
Solo da me, n’andrai dagli altri illeso!
Io la dirò l’alta cagion, che il fiato
Prima ingrossò poi tolse al signor mio.
Sua Prudenza quel dì s’era adattato
Di rinterzato ascoso giaco il rio
Peso, cui stretto troppo anco allacciato
Gli ebbe l’amica man d’Arrigo pio:
Le molli membra il ponderoso arnese
Gravò di mortal doglia, e i sensi offese.
Così vedemmo in genïal convito
O a mezzo appunto di leggiadra danza
Donna cader col viso tramortito,
Sol perchè il busto al corpo non è stanza.
Ma il più dotto zerbino e il più gradito
Non sì presto a soccorrerla s’avanza,
Come Arrigo a troncar di furto vola
L’empia cagion che il buon signor c’invola.
Destramente la man di forficette
Armata sotto regal ostro ei pone:
Tagliato è il laccio: il sire un sospir mette,
Che in temenza sua corte ricompone.
Poi che in silenzio alquanto ognun si stette;
Che il consiglio si sciolga Arrigo impone.
Tutti escon cheti: il confessor sol resta,
Accennandolo il duca colla testa.