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l’etruria vendicata. — canto iii | 217 |
Segue maggior d’un grado altr’uom più dotto,
Cui maestosamente atteggia Clio.
Questi di qua di là di su di sotto
Fruga i regali archivi: indi all’oblío
Qual fatto manda, e qual non ne fa motto,
Com’ei più sa del prence esser desío.
Se il nome io taccio, i posteri il sapranno;
Quei pochissimi almen che il leggeranno.
Scartabello vien poi, gonfio le gote
Pel gran saper che d’ogni parte sbuffa.
Suo doppio incarco assomigliar lo puote
A duce, ove non sia squadra nè zuffa.
Come lettor del sir, qualch’ore ha vuote,
In cui tutto nei classici si attuffa:
Nel custodire i regi libri ei poscia,
Fin ch’altri non sen merca, ha breve angoscia.
Uom veggio in negra veste a Morte accetto,
Cui ben altra davver cura si affida.
Colo ei s’appella: ogni mattina al letto
Del prence ei viene, al suo ben viver guida:
L’ozio regio tra ’l vitto e tra ’l diletto
Comparte; e, s’egli eccede, anco lo sgrida.
Costui solo ardiría portare in corte
Il ver, se al vero ivi si aprisser porte.
Ma tai cure salubri ha guaste spesso
Lenoncin, l’amoroso messaggero
Ch’ivi al servo d’Ippocrate sta presso.
Non di Maia il figliuol più lusinghiero
Nè più destro è a sedur qual voglia sesso:
Ottimo in corte, ei fu già mal guerriero;
Giocator di vantaggio assai sottile,
Pari in mentir non ha da Battro a Tile.
Quel d’Apirlo è il più grave d’ogni incarco,
Benchè di feste e di piacer soltanto.
Questi, qualor il prence affatto è scarco
Delle cure di Stato, al suono al canto
Alle danze ai conviti ha schiuso il varco:
Speso ha talvolta in una notte quanto
Nell’anno intero ampia provincia miete;
Nè tratto al prence ha del goder la sete.