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218 | vittorio alfieri |
De’ laici consiglieri il numer chiude
Funal, ch’è capo lì dei terzi sette.
Nel penoso lavor forza è ch’ei sude
Di far chiare le vie, secure e nette:
Dalla città le laide donne esclude,
Nè impudicizia in basso sangue ammette:
Un esercito a ciò di spie minute
Solda, e quinci esce la comun salute.
Quei sette che rimangon, del divino
Ordine sono, e veneranda gente.
Sorba è semplice prete, e di latino
Troppo ei non sa; ma in corte il fa possente
Lo spacciarsi sortilego e indovino.
Dieci ne incontra, e mille volte ei mènte:
Pur fede ha il prence in lui; sì ben lo astuto
Sa favellare a tempo o starsi muto.
Non sia però chi nel tiranno alcuna
Non creda esser virtude: eccone in prova
Ceppon lemosinier, che ad una ad una
Sa le zittelle bisognose, e nuova
Una ogni dì ne adduce or bionda or bruna:
Suoi danni ei narra; e, se il signor l’approva,
Dote ottien ella poi pari alla faccia;
Ceppon riporta d’uomo pio la taccia.
Malto veggio più pingue e dignitoso:
Presiede questi alla regal cappella,
E fallo abbazïal mitra orgoglioso.
Bello a vedersi torreggiante in ella
Sagrificare in alcun dì pomposo!
Nel crescer ricchi arredi ond’ei si abbella,
La larghezza del sir presso ha che stanca;
Vera pietade in lui, null’altro, manca.
Qui bipartisce la devota schiera
Ferlo, che tèma alto difficil tratta,
Ei d’Iddio la parola aspra severa
Al molle orecchio principesco adatta:
Purchè il timor d’inferno in lui non pèra,
Poco è mestier che i regi error combatta:
Giorno vien, giorno di funerea teda,
In cui fan del codardo i frati preda.