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l’etruria vendicata. — canto iii 223


Qui tace; e dà in un pianto dirottissimo,
Che fa Plenario piangere di gioia
Nell’udir quel parlar religiosissimo,
Cosa in un tanto sir sbalorditoia.
Onde, tratto un sospir: Figlio amatissimo,
(Dic’ei) non fia giammai che il giusto muoia;
O ch’egli è vano il ministero mio,
E non ascolta le mie preci Iddio.

L’armi celesti ch’io ti posi indosso,
Ed il tuo spesseggiar nei sagramenti,
Or mi fan fede ch’avria indarno mosso
Contro te lo nemico i suoi spaventi:
Onde la visïon che t’ha commosso
La credo un di quei mistici portenti,
Che mostra Dio talvolta a’ figli suoi
E poscia impon d’interpretarli a noi.

E vedi prova manifesta e certa
Che da laico saper non era cosa:
La bocca appena or nel consiglio aperta
Hai tu, che ritornar più minacciosa
Vedesti l’ombra; ed or che a me scoperta
Hai la tua angoscia, è assai già men gravosa:
Sì che con poche note ho ferma fede
Tornar tua pace alla sua prisca sede.

Quella che a te apparisce in fero aspetto
Feroce larva, è l’eresía novella
Ch’or fra gli empi Germani ottien ricetto:
Alto favor d’Iddio concede ch’ella
Il suo dardo mortal ti appunti al petto;
Per far vederti quant’orrenda e fella
Sia la morte che all’alma dà costei,
Se non si volge ogni sant’arme in lei.

E ben del ciel fu grazia espressa questa,
Non mostrartela in vista lusinghiera,
Quale a tant’altri re; cui, santa e onesta
Fingendosi, lor fea notte anzi sera.
E, non ch’io mai di vanità mi vesta,
Ma il dobbiam forse a qualche mia preghiera;
Ch’io supplicare a Dio mai mai non cesso
Che al mio signor sua santa man stia presso.