L'Argonautica/Libro I.
Questo testo è incompleto. |
Traduzione dal latino di Marcantonio Pindemonte (1776)
Libro II. | ► |
LE strade che i primieri ignote avanti
I gran figli de’ Numi in mar s’apriro,
Io canto, e la fatal prefaga nave,
Che del Scitico Fasi osò le rive
Cercar, passando con veloce corso
De i mobil gioghi un contra l’altro opposti
Fra le alterne percosse, e novo al fine
Su ’l fiammeggiante Olimpo astro s’assise.
M’aita, o Febo tu, se ne la casta
Magione la cortina a me non niega
De la Vergin Cumea scoprir gli arcani,
Se degnamente a la mia fronte intorno
Il sacro allor verdeggia; e tu, cui rende
Più glorioso il mar che apristi poi,
Che l’Anglico Nettun le vele tue
Accolse benché pria gli altri sdegnasse
Gran Nepoti di Julo, al basso vulgo
E a la terra di nebbie ingombra e nubi
Toglimi, o Prence, e ’l tuo favor mi spira
Or che de’ prischi eroi le venerande
Gesta m’accingo a dir. De la ribelle
Vinta Sion fia, che poi canti un giorno
Il tuo gran Figlio, e del Fratel guerriero
Che di polve Idumea cosperso il crine
A le mura di Solima gl’incendi
Feroce porta, e le gran torri abbatte.
Egli a Te, quale a Giove, e a gli altri Numi
Appresterà del meritato culto
Le sacre pompe, ed alzerà delubri,
Ove tua Deità la gente adori,
Allora che nel Ciel de l’altra parte
Scintillar ti vedremo. Ah non fiai mai
Che con più certa luce ai Tiri legni
Risplenda Cinosura, e da gli Achei
Porti i nocchieri usciti Elice guidi;
O nova stella tu sfavilli, o sotto
I segni tuoi la Grecia, e ’l Nilo, e Tiro
Sciolgan gli alati pin. “Tale del saggio
Imperator l’opre lodava, e ’l Nume
Invocava il buon Flacco, ed io, che dopo
Sì lungo variar di lustri e d’anni
Presso a l’antico suol, che a lui fu nido,
Trassi l’aure vitali, e i dotti suoi
Carmi divini a la nativa or porto
Dolcissima favella, a te mi volgo,
O de le Adriache rive inclito Prence,
Fregio de la tua prisca altera stirpe,
E del Veneto regno onore, e lume.
Ben i grand’Avi tuoi, cui dee se stessa
La salute comun, ma più le tue
Virtudi eccelse, e ’l tuo gran senno, e ’l merto
T’aprir la via del Trono: ah non con tanti
Applausi e feste entrò con l’aureo stame
Ne’ Tessalici porti il sacro legno;
Nè di sì liete voci il Pegaseo
Lido suonò, quando sen giro incontro
A i ritornati eroi le Greche madri,
Come la plebe, e i cittadini egregi,
E ’l purpureo Senato, e le soggette
Al saggio dolce fren cittadi illustri
Gioiro allor, che sul tuo crin si vide
Più bello folgorar l’aurato corno.
Ed oh fe del futuro entro gli arcani
Penetrar potess’io , là vedrei forse
Cotanto amici a te girarsi i cieli,
Che pria del tuo ritorno a le natie
Tue Atelle, dove spaziando vanno
Di tanti Eroi Pisani i chiari spirti;
A’ suoi Signori obbediran que’ regni,
Che de l’Eoo ladron fur preda ingiusta :
Ma quel furore, onde ne infiamma Apollo,
Non mi delude no. Pelope i suoi
Liberatori abbraccia, e non più servo
Ne’ simulacri tuoi suda Corinto,
Che de barbari Duci i fieri aspetti
Or con suoi bronzi effigiar si sdegna.
Indi ancor sciolgerà suoi duri lacci
La famosa di Giove antica culla.
Verrà, verrà stagione, e non fia lunge,
Che gl’Itali cultor de le Cretensi
Vigne i liquori preziosi eletti
Raccoglieranno: per le verdi rive
Del selvos’Ida guideranno il gregge
I pastor nostri, e ne’ Gortini prati
Di nuovo pasceran Veneti armenti.
Al fin Citera, e Paffo, il fren deposto
Del Tiranno d’Abido, a le vittrici
Adriache prore i suoi fioriti lidi
Sgombri apriran da rei nimici indegni;
Nè più raminghi, e di suo regno in bando
La dolce rivedran perduta fede
Venere bella, e i pargoletti Amori.
Allor non con l'altrui, ma col mio stile,
Non menzognere pugne, e finti eroi,
Ma veraci trionfi a l’altre etadi
Io manderò. Sin che i felici in tanto
Anni a condur Febo s’appresta, e l’opre
Ben di Flacco
più degne, anzi d’Omero,
Matura il Ciel, deh tu, Signor, seconda
Mia nova audace impresa, onde se stesso
In queste carte mie conoscer possa
Il gran Poeta, e de’ suoi carmi al fine
Per l’Itale cittadi il suon rimbombi.
Fin da sua verde età Pelia reggea
L’Emonia, ah troppo grave, e troppo lungo
A i popoli terror! soggetti a lui
Erano quanti ne l’Ionia Dori
Scendono ameni fiumi; egli Emo, ed Otri
Felice arava, ed il profondo Olimpo.
Ma torbido inquieto ei vive, e insieme
Del fratello la prole, e le celesti
Minacce teme. La tremenda voce
D’ogni Profeta, ogni veduta fibra
De le pecore uccise a lui rovina
Dal nipote predice; indi la grande
Fama del forte eroe, l’alta virtude
Non grata ad un Tiran, lo cruccia, e l’ange.
Spinto da tai timori il suo periglio
Prevenir tenta, e in cor rivolge e pensa
Inganni occulti, onde rimanga estinto
D’Esone il figlio, e le opportune vie
Medita seco stesso, e ’l loco, e ’l tempo
Per dargli morte. Ma non più son guerre,
Nè più le Greche ville alcuno infesta
Moctro; ad Alcide omai chiude le tempie
Del leon di Nemea l’orrido ceffo:
Nè più gli angui di Lerna Arcadia teme;
E già di Creta al toro, e ad Acheloo
Infrante fur le corna. Alfin gli piace
Del mare a l’ira esporlo. Il chiama un giorno,
E con placido sguardo, e fronte lieta,
Con parlar di lusinghe e fraudi pieno,
Tale bell’opra, e tal fatica, a cui
Niun de prischi guerrier vanto s'eguagli,
Non mi negar, gli dice, e me seconda.
Ben sai, come di sangue a noi congiunto
Fuggisse di Creteo gli altar nefandi
Frisso, che poscia da l’infido Aeta
Cui la Scitia è soggetta, e ’l freddo Fasi,
Ne l’ospitali stanze (o del gran Febo
Infamia eterna!) di solenne mensa
Fu tra le feste indegnamente ucciso.
Ne da tal nefand’opra il Re crudele
Di noi memoria, o riverenza a’ Numi
Raffrenar già poteo. Non sol ciò narra
Messaggiera la fama; io stesso, io stesso
Lui piagnente sognando ascolto, e miro.
Con quai gemiti oimè, con quai singulti
L'ombra sua sanguinosa, e la sorella,
Novello del mar Nume, ognor mi desta!
Deh se qual era pria, l’antica possa
Fosse in me, già pagar Colco la pena,
E del Re qui vedresti il capo, e l’armi
Ma da gli anni sopito in me languisce
L’ardor primiero, e la mia prole ancora
Non a regger altrui, non a la guerra,
E non al mare atta esser può. Tu nostro
Onore, cui non manca ardire, e senno,
Vanne, e ’l periglio incontra, e a l’are Greche
De l’avito Monton rendi lo stame.
Con tali detti il giovin forte a l’opra
Accende, e poi di chi comanda in atto
Tace; e ben fa, che con alterni colpi
Là nel Scitico mar s’urtano ſempre
Le Simplejadi acute, e non paleſa
Che del vello Frisseo custode orrendo
Con molte lingue è fier dragon, cui spesso
Da’ penetrali suoi con cibo e versi
Del Re la figlia fuor chiamava, e miele
D’esterno
venen misto a lui porgea.
Poſcia noti a Giason gl’inganni occulti
Ben furo, e del Tiran l’arti ei conobbe,
Che al fin per odio solo , e non di Frisso
Per far vendetta, o per desio del vello,
D’ignoto mar, de la remota Colco
Gl’impose i rischi. Or i talari ei brama
Del volator Persèo; di fiere serpi
Stringer vorrebbe le fischianti bocche.
Con non usati freni in carro assiso,
Come quel che primier del valto suolo
Non a Cerere avvezzo aprio le zolle
Con l’incognito aratro, e l’uman germe
Allontanò con le trovate spiche
Dal più scuoter le quercie. Or che far deve?
L’instabil plebe, e del Tiran canuto
Nemica adunerà? chiamerà forse
Ad Esone pietosi i saggi Padri?
O di Palla guerriera, e di Giunone
Su l’aita affidato i fier comandi
Per l'acque errando ad eſeguir fia pronto?
E da se vinto il mar, rapito il vello
Proverà se per lui d’opra si grande
Sparger si possa al mondo eterna fama?
Gloria, tu sola a lui la mente, e l’alma
Accendi; egli te mira in verde eterna
Florida età, senza temer gli oltraggi
D’egra vecchiezza, ora del Fasi in riva,
Che i giovim forti a l'alta impresa inviti.
Religione al fine a lui confuso
E ancor incerto i dubbi toglie. Al cielo
Ergendo le pie mani, onnipotente
Regina, ei dice, cui quando fremea
Torbido Giove, e impetuosa pioggia
Versava al suol da i pregni nembi, io steso
Per l'Enipèo spumoso a i campi asciutti
In sicuro
portai; nè te per Dea
Già conoscer potei, pria che co’ tuoni
Te dimandasse il gran Consorte, e pria
Che con subito orrore in ciel rapita
Io ti vedessi. Deh la Scitia, e ’l Fasi
Toccar mi dona; e tu, Vergin Minerva,
Al periglio mi togli: il fatal vello
Risplenderà ne’ vostri templi; e ’l padre
Con le dorate corna a le bipenni
E a’ fochi sacri offrirà tauri, e bianchi
Greggi vedrete a le vostre are intorno.
Tai preghi udir le Dee, che per diversi
Giù con subito vol dal ciel discese
Sentier n’andaro. Frettolosa Palla
Ne le Tespiache mura al suo diletto
Argo sen vola: a lui tosto comanda
Il fabbricar la nave, e con la scure
L’alte quercie atterrar; poi seco ov’ombra
Fan del Pelio le selve, i legni cerca:
D’altra parte Giunon s'affretta, e omai
Per le cittadi sparge, e per le terre
E de’ Maceti insieme, e de gli Argivi,
Che de’ venti Giasone a gli avi ignote
Le forze tenta; e che la nave è pronta
Già di remi guernita, e solo attende
Chi deggia in sen portar, ond’ei famoso
Sen passi e chiaro a i secoli futuri.
Per gesta e fama ogni guerrier già noto,
Tai novelle in udir, percosso e punto
Da stimoli di gloria il petto sente.
E quel s’accende ancor, cui d’opre illustri
Per troppo verde età non anco offrirsi
L’occasion poteo. Poscia de’ campi
Cui piace il culto, e l’innocente aratro
S’offrono a chiara luce apertamente
D'Argo con alte lodi, e de gli eroi
Per le strade,
e pe’ boschi ognor cantando
I Faumi irsuti, e le silvestri Dive,
E i Fiumi, che da gl’imi erbosi fondi
Alzan l’umide corna. Accorre tosto
D’Alcmena il gran figliuol, le cui saette
D’Arcadico venen cosperse, e l’arco
Lieve a portarsi del bell’Ila a tergo,
Che ne gode, pendea; ben il fanciullo
De la nodosa clava ancor vorrebbe
Alzar le cuoia, ma regger non puote
La tenerella mano a sì gran peso.
Gl’ineguali compagni allor che vede
Giunon, gli segue, e i soliti lamenti
Ripete seco stessa: oh se non tutta
Al periglio novel precipitosa
La Greca gioventù corresse, e questo
Se del nostro Euristeo fosse un comando,
lo stesa moverei le pioggie, e i venti;
Ingombrerei di tenebre, e di nubi
lo stessa il cielo, e di Nettuno il grave
Tridente acuto, e scaglierei dal cielo
Ad onta del marito il fulmin torto.
Ah costui per compagno e per sostegno.
Non vorrei di mia nave, e non fia mai,
Che da l’Erculee forze aita io speri,
E che io deggia cotanto a quel superbo.
Così disse, e mirò d’Anauro in riva
De la nave sudar nel gran lavoro
Un numeroso stuol; colà portato
Vide un reciso bosco, e de le scuri
A i colpi riſuonar i liti udio.
Vide la gente con acuti ferri
In tavole minute i pini sciorre;
Unirli poſcia i lati, e di leggiera
Fiamma a l’ardor piegarsi a poco a poco
Vide i seguaci ubbidienti legni.