L'Altrieri (1910)/La Principessa di Pimpirimpara
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La Principessa di Pimpirimpara.
Ah! bene. L’uscio non avèa cricchialo. Io lo aprii soavemente e, sulla punta de’ piedi entrài nella càmera rattenendo il respiro e facendo, colla mano, intoppo tra il lume e il viso del mio fratellinuccio, di quel caro bottone di rosa che, tranquillo, là, nel suo lettino càndido, dormiva semi-aperte le labbra. Come i mièi stivaletti sbrisciàvano sul lùcido pavimento della sala, il pèndolo avèa scattato e, dopo un breve e sordo ràntolo, con voce argentina sonava. Le tre! Quale straora per uno sbarbatello! Ve rassicuro, in vita mia non m’era peranco occorso vedere che faccia mai mostrasse il mondo in sìmile freddo punto, in cui, nelle lunghe silenziose vie, le làmpade s’illùminano solo reciprocamente — tant’è vero che, nel rasentare l’ampio specchio della sala, gricciolài scontrandovi una figura e con inquietudine, guardài se, proprio io, dovèa èssere quel giovinetto pàllido che con un candeliere veniva verso di mè.... in grigio sopràbito.... calzoni neri.... guantato e cravattato di bianco, il cilindro su’ n occhio. Il cilindro! In quella stessa giornata me l’avèvano imposto: fu una delle prime càuse della sua memorabilità. IL COME.
Io mi sedeva giusto a tavolino fra le dòdici e un'ora, non so se istroppiando i miei pensieri entrò un sonetto o imbrodolàndovelf di aggettivi, quando mamma, avanzatasi cheta cheta nella'stanza, depose davanti a ine un.... chissà-mài.... incartato di azzurro.
Io levai hi testa. Mia sorrise : — ficcolo. — Al papa i versi i (lettili la matita e, d una ni tuo febrile, tolsi dalla cappelliera un cilindro incamiciato di carta finissima, svolta la (piale, scoprii un cappello, nero come inchiostro di China, lùcido più di un bicchiere molato. Cal- cànclotnelo in capo corsi al mio consigliere di vitro, lo interrogai.... o l idi ì ìi primo tratto ne fui malcontento ; mi smaltì 1 entusiasmo. E, certo, la rabbiolina mi trapelava sul viso, perocché mamma, premurosa, mi disse : Bibì, non isti zzi rU. Il cappello nuovo, vedi, è un arnese cui ci bisogna assuefare. Domandale) un po’ alle donne ! sentirai. E ci vuole anche 1 assieme. Bibì.... I ua cravatta pulita, una giubba elegante, un panciotto.... — Io disarmadiài di furia i chiesti abbigliamenti: ma mi uà andò a chiamare babbo. E questi venne, poi soprugiunse una vecchia prozìa, n sèguito la cuci ni era : tutti ad una voce — salvo nondimeno (ìiorgetlo il (piale borbottava che il mio berrettone da mago gl» metteva paura e giurava sfondarmelo, così acquistando un severo : ciarlino ! e rincantucciando poi con greppo e broncio ; — tulli, dico, concilili- Sero che un più gentile cappello non l’avèvano 70 L* ALTRI ERI mai, per lo innanzi, veduto ; che noi eravamo creati l'uno apposta per l’altro ; dalle dalle, me ne convìnsero tanto, che, diméntico affatto de7 versi alla Luna e non curando quelli del fratellino, uscii a passeggiare fino a dì basso. Su tale soggetto — giova avvertirlo — ho poi cangialo di idèe : le idèe, a fortuna , seguono la sorte delle o;sa. \llora peraltro qual- tr’anni 01* fà) quantunque ghignassi imbattèn- domi ne’ collegialini dei Barnabiti, i (piali in lunga fila scarpinavano al Duomo schiacciali sotto de’ cilindroni senza un’ombra di grazia, tenevo ciò nondimeno il fermo convincimento che il salubre cappello — dico salubre rispetto ai colpi di canna — se dotalo di una certa curva alla moda, felicissimamente si adattava diàvolo di un periodo a qual confessione ini incili \) si adattava a un giovinollo, come ine — già, capirete che per tracciarmi almanco la dirizzatura dovevo ricórrere allo specchio — un giovinotto — làh : modestia a parte — bello. E mi fu, tale cilindro, origine di un grande avvenimento. Era per mè, proprio nel ritornare a casa con lui. che l’avvocato Ferretti, il mio palrino. attraversava la via. — (ìnido — egli mi disse fcrmàndomi — stasera mia moglie fà ballare. Sai.... una torta, uria bottiglia di vino spumante e quattro salti. Etichetta, zero. Vieni. Vi ha molle e molte bilie ragazze che attèndono un cavaliere. Io gli opposi che babbo avèa la sera slessa seduta e che, (pianto a mamma.... — Corpo delle Pandette ! — esclamò l’avvocato ridendo ed appoggiandomi su’na gota uno scili affetto. — E tu ? che hai, tu ? Non hai gam!)C, a caso? Poh! un giovinotto in cilindro! — Io arrossii fino alla sèttima pelle : stringendogli la mano, lo ringraziai.
Bene — fui al festino.... Ma, alt! Prima di proseguire, è d’uopo ch’io vi presenti la spiegazione — intraveduta forse, pel buco della serratura, da qualcuno di voi — intorno a fatti toccati di già e, per sopramcrcalo, vi unisca altre poche parole, allineile quelli che seguiranno spièghinsi da loro medésimi a voi senza nuove postille.
CASA E PERSONA DEL VOSI HO AMICO SCRITTORE.
Circa la prima, sappiate, i mièi carissimi, che ora gli occhi della nostra pentola vedevano un’altra gola di camino, ben più stretta, ben più lunga dcH’anlica ; vedèvano la cappa di una città. Babbo, con tutta la sua economìa, non pagava più tasse sopra la maggior parte delle possessioni di casa due anni, pensale, clic si tagliava, per così dire, il frumento colle ce- soje e Io si stendeva a seccare nei cassettoni ! due anni che si vendemiava coi panieri da calza !) babbo dunque, alliltalo il poco avanzà- toci, tasta di quà, tasta di là, giungeva alla fine a trovarsi un buon impiego nella vicina città qual segretario in una pùbblica amministrazione. Del rimanente, il trasporto della nostra pignatta. Io avrèbbero richiesto anche i mièi studi. Non era ancor l’anno dalla partenza di (ihioldi, che, scivolato al grosso Proverbio il piede su «pie* pericolosi suoi pavimenti, rompeva a sè il collo, a noi canarini il graticcio — (piindi — non più maestri, non libri !... figuràtevi.... già minacciavo una ricaduta nella poltronàggine e n Ila cattiveria. Ma venne la risoluzione di bahi 2 l’altrikri 1k> : nolo clic nei vagone che ci trasportava alla città, noi occupavamo quattro posti ; nel (piarlo si adagiava una pail'ula balia con un naccherino tutto polpa alla cioecia, un naccherino elle i miei genitori avèan potuto méttere insieme nei mesi quieti di mia lontananza. Quanto a niè, allorché sollevai la portiera nel racconluccio presente, correvo il mio quindicèsimo: ero a pena sgatlajolato dal ginnasio e cominciavo ad arieggiare L’uomo con barba. Ora, óltre a lavarmi e pettinarmi ogni mattina e, qualche volta, la sera, facevo gran consumo di saponi, manteche, pólvere d’ìreos ; attaccavo molta importanza al nodo della cravalla. alla freschezza dei guanti, alt’arroccetlatura delle camicie ; ora imporlafogliavo i mici viglictli da vìsita, intaschinavo un bell'orologio d oro. e»m catena d’oro, dóndolo doro — indispensàbile per tener sbottonala la giubba — ed ora, come mi era messo tutto alla via, in punto, comparivo sul corso con una giannetta in mano, fulminando degli occhi le tose. In confidenza, peraltro, osservo che sùbito li sbassavo e facevo lo gnorri se mai qualcuna mi reggeva allo sguardo.... Che rabbia ; K in questo, volere o no, saliva a galla ch’io era pera nco bambino, in questo e in molte altre cose, ehè — sebbene ora mi guardassi dallo sostare dinanzi le mostre de* baloccài — pure, le sbirciavo vogliosamente, impromettèndomi di sfogarmi a casa sotto pretesto di trastullar (»ior- gio e, tuttoché non mi andasse che mamma dicesse mi : — lìi hi o (i nidi no — alla preseli a di forestieri, a quattro, anzi a sei occhi, accomodandovi sulle di lei ginocchia e le parlavo con un vocabolario di parolinette graziose, inintelligibili a tutti — fuorché a noi. Principiavo dunque, intenderete anche, a in- garbugliarmi in quella matassa di stùpide convenzioni sociali più geroglìfiche dei due bottoni che i sarti cucìscono dietro ai soprabiti c* càusa della maggior parte delle nostre pìccole miserie.... Dio ! quante pene io soffersi per esse. Tra le altre : 1.° I n terrìbile mal au cocur, avendo, come me lo si offriva, accettato e stretto Fra i denti con disinvoltura un lungo zìgaro di Virginia — acceso. 2.° I na spellala di gola e due giorni di letto, regalatimi da un tortissimo punch, da me coraggiosamente ordinato, in cambio dell’abituale aqua aranciata, trovandomi in un caffè con mio cugino '1 iberio. capitano di cavallerìa e vero imbuto di uhi sa. Infine ; i mille ed uno fastidi pel cangiamento di voce. Vi accennerò solo a quel dì in cui, entrato nella sala dove sedeva zia Maria con la signora Buglioni e la figliuola di questa — la quale, i miei compagni, avèa no erroneamente per una mia fiamma — avvisando di ilare il buon giorno, m’inviài su1 n tuono, cupo, profondo, e finii con uno sì acuto, con una stonatura tale che Dora si porlo il fazzoletto alla bocca ed io mi morsi le labbra. Ma la cosa sulla (piale mi preme condurre, più che su ogni altra, la vostra attenzione, come quella che apre la ragionìssima del presente racconto, è il completo riversamento nel mio naturale, ('erto, molti di coloro che mi conóbbero spensierato fanciullo, vivendo giorno per giorno, allegro come uno scrìcciolo, me ne vorranno forse, perchè io mi ri presenti serio. riflessivo, alle volte triste, ma, oltre che i fatti son fatti, avverto come il modificarsi, il mutare de’ gusli sia inerente a ir uomo, anzi, secondo me, costituisca uno de’ suoi principali 74 L* ALTRIERI caràtteri. Mio padre, da pìccolo, sentìvasi fuggire l'ànimo alla veduta solo di un pezzettino di zucca: ora, ne mangerebbe entro il tè. Non poteva dunque — su via morale — ripètersi un tale caso a mio riguardo ? E, invero, la melanconia che Lisa coll ùltima stretta di mano mi gettava nel cuore, si era a poco a poco inspessata e fatta morbosa; mi avèa condotto ad almanaccare, a — come babbo diceva — perticare la luna, scopandomi uno strano regno di spìriti eli* io non sospettava manco esistesse ; un regno, se di diffìcile entrata, d’impossibile uscita. E ciò avèa fortemente scossi i mièi nervi. Sotto il chiarore del fantàstico mondo, le cose del materiale mi si colorivano al doppio. Lodà- vami, a ino’ d’esempio, il maestro ? trac.... io mi trovava balestrato nel salonone degli esami, dinanzi ad una tàvola col tappeto verde e con sedutivi tre personaggi (cravatta bianca, marsina, decorazioni, sorriso paterno) de’ quali uno porgèvami un libro in rosso ed oro. — Oli ! grazie — e tutto intorno scoppiavano applàusi. ("osi ; pigliava una febbrolina a Giorgio? Madonna ! scorgevo sul letto di lui il lenzuolo segnare le forme di un corpicino instecchito, scorgevo lì a fianco una cassa aperta.... della segatura.... fiori e chiodi. Da lungi, l’estremo tempcllo di un’agonìa ; dalla stanza vicina, singulti. Pcrilqualchè, capito il mio sistema nervoso, torna piano Immaginare quanto la festa — a!!ro che i (unitivo salti! — dell’avvocato Ferretti, mi scombussolasse. Le feste, per chi non c’è abitualo, fanno come il vino ; montano al cervello. Tutte quelle lumiere con specchi che le raddoppiavano ; quel su e giù di gente che s’impacciava reciproca¬ mente il passo, signori vestiti ad un modo e dallo stesso scipito frasario, domèstici livreati ladronescamente (piasi come Ministri di Stato, (lame mezzo svestile, con gonne di color zaba- « * • glione, gambero cotto, dorso di scarabèo.... di raso, di mussolina, di velluto, con guarnizioni, nastri e fiori di pezza ; e quel trimpcllamento cunlinuo, monòtono di un pianotorte ; (pie’ colmi càlici di falso-Champagne, il tutto avvolto in un'aria calda, polverosa, che rincollava a camicia alla pelle e ti essiccava il palalo, mi avèa- 110 ubbriacalo del tutto. Al che, se tu aggiungi 7 O O D un pajo di occhi che mi guardavano fisi fisi, neri, birichini, come quelli della vedovella contessa di Xievo, uno degli aslri della città se.... Dio ! (piando ci penso, don mè, essa, avèa ballalo la maggior parie de valzi, polche, quadriglie, a mè chiedeva il braccio perchè la scortassi alla cena — e le recài io medésimo lo abellino, poi un’ala di quaglia — per mè, in quella sera, le lusinghiere frasette, le stra- lueenti zolfanellate. Pensale dunque quanto se ne dovesse tenere un giovanoltino fuggito appena dal materno capézzolo, sentendosi il favorito di un ìdolo dei meglio incensati, vedendosi su la di lui nera mànica il più rotondo sodo avambraccio che mai portasse smaniglio ! Sarèb- bene, fin un dei sette, impazzito.... E proprio ci avèa motivo: nè più nè meno che per certe to- suecie dalla corta vestina, le quali, in quella stessissima veglia, èrano — da un bel luogotenente degli Ussari, dai mostacchi biondi arricciati — tolte, non so perchè, esclusivamente a piroettare. Da parte mia, m’abbandonavo a una èstasi tale che sono sicuro di avere commesso a quel ballo, e sùbito dopo, le più niajuscole farfal- lonerìe. Bastimi ricordare come dimenticai af¬ 76 lValtrikri fatto, partendo, di riverire gli òspili, e come, accompagnata la contessimi, giusta il suo desiderio. fino a pie' della scala e sospirato all'ùltima languidissima occhiala di lei e vistala scomparire, ravvolla in un bianco scialle, nella carrozza, presi a camminar verso casa sotlo una folta neve senza nemmeno aprire il paraqua, poi, giùntovi, slelli un buon (piarlo d ora, frugando e ri frugando nelle saceoeeie, prima di rinvenire la chiave della porta di strada, una chiave, diàvolo ! lunga dieci centimetri. Con tutta la mia agitazione, peraltro, riuscii, come già sapete, fortunatamente, a non far cigolare gli usci e ad entrare nella càmera ; non intoppando in spìgolo alcuno, nè interrompendo, un àttimo, a Giorgio il suo tranquillo respiro. Entralo, in vece mia, buttai sul letto (dalla solleticante rimboccatura, con due calzerotti di lana rossa al guanciale la tuba, i guanti, il sopràbito e, punto badando alle palpebre che tiravano a chiùdersi, mi lasciai cadere su di una sedia presso alla tàvola, sopra la quale avèo allogato il lume e a capo di cui — basso il tendone — piantàvasi un teatrino porlàbile, delizia di Giorgio ed anche spesso mia. E lì, poggiài sulla tàvola i gòni ili : fra le mani la testa.... a scoppiar bolle di aria. Che tuttavìa contenessero mai, mi duole, mièi cari, di non potèrvclo dire. Punto primo: egli è impossìbile di imprigionare — salvo che (Unirò un rigo da mùsica — certi pensieri che fra di loro si giùngono non già per nodi grammaticali ma per sensazioni delicatissime e il cui prestigio slà tulio nella nebulosità dei contorni : un tentativo di abbigliarli a perìodi con il h»r verbo, il soggetto, il complemento.... so io di molto ! li fuga. Punto secondo: avessi io aaclic la potenza, la quale nessuno ebbe nò avrà nini, di acchiapparli con invisìbili maglie, di prcscntàrveli come vennero a me, bisognerebbe clic voi, per non trovarli ridìcoli, per non trovarli bambinerìe, foste, leggendo, nella medésima disposizione di spìrito del loro scrittore. Il che. fra noi, non può èssere. Quando la fantasìa nostra si affolla, (piando ci scordiamo di vìvere con pelle ed ossa, un libro — stretto da noi e con amore, prima — ci sfugge inavvertitamente. Dunque, pazienza. Vi accennerò solo che, alla fin fine, schiacciata entro lo staccio, tutta la hiribara de’ mièi pcnsieroni non la filava altro di questo: che ringattimento della contessa di Nievo per mè — quantunque mezza-bottiglia era fuori del forse e die io riamàvala alla spietata.... E allora ? Dormi — consigliommi la polpa. Bah ! avevo trincalo troppi romanzi. Scrivi — mi vellicò, dall’allro orecchio, l‘i- maginazione. Io sobbalzai. Tua lèttera, eh? E come ne intravidi, l’idèa, di colpo, con quella stessa foga che, pochi mesi innanzi, pressàvami a comperare — venti per volta — le scàtole de’ soldatini di stagno, diedi di grappo alla cartelletta, f aprii, inli usi nel calamajo la penna.... cominciai.... CON.... Ma — in questa — il lume impallidisce e, bizzarri suoni di una metàllica musica, simile
- i quella di certi Umilili organetti germànici,
pnjonmi gariglionare dal teatrino che mi sta in faccia : il lume si smorza ; voi fate un sìbilo. 78 L*ALTRIK!tI Ed al segnale, un luminoso quadrato si forma neiroscurilà. È il sipario, il (piale, rotolandosi, scoj)re alla slavata luce del magnesio un proscenio.... Xoi siamo nella magnìfica reggia di Pimpirimpara : colonne, capitelli, architravi, tutto sembra coperto da un’àurea, impalpàbile polve, tutto tremola, scintilla, crepita, esageratamente càrico di elettricità. lui ecco, nel mezzo della scena, su di un tettuccio S. A. R. la principessa Tripilla, una bellissima bàmbola, in vesta oro ed argento, con un visetto bianco c rosso come una giuncata colle maggioslre, occhi aerini, treccie di stoppa stelleggiate di diamanti. Un groppo al fazzoletto, se mai ih* usate, filosofi ! S. A. che mangia lingue di Araba Fenice e inghiotte perle sciolle in l'ocài, che dorme su piume di uccellimosca e si forbisce con biglietti da mille, ahimè ! si annoja pure a morirne. Invano la duchessa di Tricli- e-lrach — sua dama che le scalda le coltri — si affanna a trillare, a bocca chiusa, le più sdrucciolévoli poesiuccie ; invano la contessa di Piripicchio — la (piale, ogni tanto, le solila il nasino con una pezzuola a merletti — pizzica, su* n' arpa priva di corde, delle inzuccheranti armonie ; Tripilla batte sempre, stizzosa, il plumbeo piedino contro le assi del palco: di più : come la marchesa di Chiacchierella rispettosamente la prega di inanimirsi, di non comprométtere la sua augusta salute, essa, in risposta, degnasi appoggiarle uno schiaffo. Se la spalmata, che, poco dopo, dalle quinte si od'*, intende imitarlo, che Dio ci salvi anche dalie carezze della regale fanciulla. Ma — taratàntara ! — udite clangor di trombe. Ai lj.eti suoni di una fanfara (cioè di mi pèttine vestito di carta velina, e di migliare)1i entro una scàtola di latta) due guardie, tutte d’un pezzo, dai larghi scudi, si appostano agli stipiti di una porta.
E in mezzo a loro, passa il Re di Pimpirimpàra. Esso è un vecchione con barba e zàzzera di bambagia, con una gran corona a gemme di talco, scettro e globo — insegne le quali dàvano, ai sovrani di una volta, maestà, e che ora la danno ai rè de’ tarocchi; di più, con un manto d’amoerre celeste, ch’io giurerèi staccato dal cappellino di mamma.
Il per-la-grazia-di-Dio, viene, secondo il sòlito, ad augurare la buona mattina alla principessa figliuola; si avanza verso di lei — non senza distribuire de’ pizzicotti alle belle damine d’onore — l’abbraccia e, paternamente, baciale il cipollotto.... Senonchè, tosto, si accorge del malumore di S. A. R. — A un padre non sfugge nulla. Se ne accorge, benchè le labbra di lei siano scolpite ad un eterno sorriso, e ne domanda la càusa:
— ? —
Risposta: — La principessina si annoia. —
Si annoja? — Ecco S. M., da babbo esemplare, offrirle un nùvolo di divertimenti: — Vuòi ch’io faccia tarantellare i mièi generali e ministri? vuòi ch’io converta il reame in un parco di caccia, avendo, per venagione, i nostri conigli di sudditi? —
Ma no. Tripilla crolla sempre la testa con quell’aria che, così bene, segna nei burattini: sconforto — quantunque indichi pure, altra volta: starnuto.
— E allora — sclama salt.... restando in bestia la Maestà Sua — và a spasso!... — Poi — scuote, braccia, capo e gambette.
— Già, andiamoci.... fà sùbito, ad annaquare il paterno furore, la principessa. E quì, tutti si òrdinano; ricomincia la mùsica, cui aggiungesi un picchiamento di unghie sopra la tàvola per imitar lo scarpiccio e.... via. La reggia imbianca, cancèllasi a poco a poco: dietro di essa, come ne’ cromatropi, disegnasi una seconda scena.
Gran piazza: — l’attornia una tiritera di pòrtici; in fondo, chiesa: sul dinanzi da un lato un albergo con insegna sporgente; dall’altro, un edifizio di carta grigia la cui soprascritta porta: asilo infantile. Sebbene il cielo stìa pinto a un immacolato sereno, i signori burattinisti avvisano di rappresentare: tempo cattivo. Difatti, la luce che piove è glàuca, fredda come in una palude: tu, instintivamente aspetti, dalle quinte — un rospo.
Ma s’ode il crocchiar d una toppa.
Invece del rospo, dall’asilo infantile, esce un collegialinuccio, in tùnica azzurra, il moccichino appiccato alla cintola, in mano la cartelletta.... Erbette in minestra! chi scorgo! Ma sono io, colùi, io stesso, l’eco i miei capelli ricci, il mio bel naso all’insù, le mie labbra sottili.... perfino un cerio pìccolo neo, alla dritta, sul ciglio.... oh oh, chi osò mai?
Rataplan: in risposta, uno stamburamento.
Nasce, da lungi, un rumore sìmile a quello di molte dita a pìzzico, battute su gonfie gote cavallerìa in galoppo poi, il patatà-patatà si moltìplica; mèscolavisi tintinno di sonagliuzzi, squilli di casserole e uno scucchiario come di mano che frughi, convulsa in una cesta di posate d’argento.
Appàjono i primi fanti; ciascuna fila somiglia ad una spiedata di quaglie.... E pàssane, pàssane, arrìvano i cavalieri, corazzati in stagnolo; certo, de’ cavalieri eccellenti per durarla 111 sella con ì sopranaturali salti, con lo sprangar di calci violento, delle loro gran lepri; infine, su’n elefante, spunta, velata, la graziosa Tripilla, fermasi a mela piazza e, dopo qualche infruttuoso tentativo, si scopre. 0 sfolgoreggiante bella ! Chi la vede, inimin- chionisce : agghiacciasi sollo gli sguardi di lei il pispino di una lontana. QuanLo a mè, il che viene a dire.... quanto alla mia brulla copia, rimango quasi a criccato, un si allarga la bocca, mi si sbarrano gli occhi avèo movìbili queste due parli, indizio della importanza mia nella comedi») insoflima mostro un lai viso abbagliato clic S. A non può non addarsene. Allora, ella pispiglia non-so-che nel braccio della sua dama, baronessa Bachcròzzola : un fischio ! e, lullo 1*esèrcito, 1 elefante compreso, dà in un precipitoso movimento ; lanlo precipitoso che i soldatucci, per meglio córrere, non toccali più suolo e — ingarbugliando fili di seia e ili ferro — vanno ad ammonlonarsi in mezzo alle quinte. gabinetto di S. A. lì. — Si arreda con molte sedie c con tàvole introdotte dall’altro, si popola con le sòlite dame c damigelle d’onore. EnIrti la principessa : essa va ad accomodarsi, ptr quanto glielo perméttono le giunture, su’na poltrona. Dopo il silenzio di pochi momenti, in cui spicca il ronzìo addonnentatorc di una fontana.... tac.... tac — alla porta. - Chi è? — È un messaggiero ; quel messaggiero in ferraiolo rosso, dagli sterminati baili arricciali, che mi recava una lellcrona stracotta della graziosa Tripilla. Ei viene per annunciarmi ; trincia de’ minti ètti ci inchini e.... Ma qui gli succede cosa imprevista ; nel compiere una magnìfica riverenza, stramazza sul palco col suo l'ilo di ferro.... Allora un ruanone grassoccio, dai DOaSl. 6 82 ^ALTRIERI tozzi diti c dalle unghie cimate, discende, prestamente il raccoglie : risetto betTeggiatore diedro le tele e la rappresentazione continua. Rapito il messo, spazzale via le dame, chi, se non io, dovèa squintarsi ? E invero, Fjjq compare nel suo beirarnese delle domèniclie. Ego che, in sulle prime, tremante, incora*»- gisce poi e comincia a spifferare a Tripilla mia pippionala d’amore. Ma (piella, con uno sguardo rimuginante, lo lira sùbito fuor di rotaja, lo confonde talmente che Ego, persa allallo affatto la scherma, le si butta alla balza in ginocchio. Poh ! e’ s'è fritto. 11 lontano rumore che, nel principio dell’amoroso colloquio pareva ([nello di un orologio polseggianle in mezzo alfovalla, raggiunge il rombo di cento incannatói, come in cantina ; un bolli bolli, uno sfrigolare, un sussurrìo, lo accompagnano. E tutta la stanza si abbuja : con il cri-crac di cattivi fiammiferi, segnalisi, dissolvonsi sulle pareli, girigògoli strani — fosforescenti, fumosi. Intanto de’ violini, che si èrano inviati sottaqua, s’instradano in un crescendo. Fuga. Subiscono strappate sprezzanti, rabbiose, che obbligano certo i lor suonatori a balzar dalle sedie tre dita ogni arcata ; — poi — ad un tratto, lampeggio. E nuovamente chiarore. Continuando il frastuono, attorno, nella scena, mi si perlùgiano mille finestre con duemila occhi che guardano giù, e, da cento porte, una folla di burattini sincalza, si stiva, risucchia come l'onda del mare. A mè trèmuli le gambe : lento «ridare, o n non posso. La principessa, in questa, le cui pupille gatteggiano più che più, incoronami un cércine, imboccami un dentaruolo. Generale sii- folamenlo ; la piena ballonzola, il fracasso aumenta, aumenta. E.... bo-um.... un colpo di tamburone, poi, tutto, teatro, ometti di stoppa, luce — in un battibaleno — come una palla di ferro che tonfi in negra aqua, scompare ; scompare non lasciando dietro di sè che un forte odore di smoccolatura ed un rintrono da grossa campana suonata. E io mi sveglio. Ilo il corpo indolenzito, la lingua allappata, gli occhi mezzo ingommati. Fò per stirarmi : ahi ! — dico, urtando contro la tàvola — che c’è ? — Io ne rimango sopra- pensieri, quindi strasecolo allorché, riuscito tastoni alla finestra e schiusa un’imposta, vedo vestito mè, e il Ietto, non tòcco : quanto all’orologio, accenna alle nove ; quanto al mio Giorgio, si dorme pacificamente la sua dodicèsima ora. Ed impossìbile raccapezzarmi ; mi affanno invano a cercare. A chi, dunque, ricorrere ì Perdio ! alla brocca. Difatti, come v’immergo le mani — che migli iella ! — e mi bagno la fronte, ecco nella fantasìa ripasseggiarmi, a braccio; la principessa di Pimpirimpàra e la contessa di Nievo. — Mariuole ! — penso io tra lo stizzoso e il ridente. E lì, non posso rimanermi di dare una occhiata dietro al sipario del teatruccio ; vi si animontoiia un garbuglio di fantoccini : ne volgo un altro alla carta da lèttera posta sopra la tàvola, vicino al candeliere senza candela e colla gorgieretta di vetro spezzata ; c’incontro in majuscole, un : COW... — Mariuole, mariuole ! — ripenso nelTabbe- verare la penna. F, perchè le due burlone non 84 l’altrifri si gloriassero almeno di avermi fatto anche sciupare un foglietto di carta, utilizzo il già scritto, seguendo : CQKjugazione del verbo difettivo, gutturale e nutriente : == MANGIARE. £ qui mi fermo. L ora è tarda e i mièi ricord , pòveri vecchi ! son stanchi. Essi cominciano a ciondolare del capo, a palpeggiar le palpebro, a sbadigliare ; essi tèndono a poco a poco a riaddormentarsi in un cantone del mio cervello. Làh ' buona notte, carissimi. Dunque, vero? potremmo parlar del presente.... Ma 110. Le gioje e i dolori dell oggi intorbidano troppo ancora le aque : lasciamo die posino.... poi.... Pure, sappiale che, proprio in questo 1110- menlo, tròvomi nella più gentile, nella più còmoda saletta del mondo. Qui avvampa, crepila un vivissimo fuoco e, dinanzi gli alari, barbuglia un fuliginoso ramino ; (pii, un vassojo con lazze di porcellana azzurra, sullo scodelletto di cui staccano i pìccoli cucchiài d’argento — insieme alla lucente còcoma del tè, ad una zuccheriera, ad una coppa di panna ed un buon tondo di panettone a felle — ci allende. A destra del camino, s'ini poltrona poi mio padre ; egli ascolta colla sua aria bonaccia t«ior- gio, il quale, accavalcia Log li un ginocchi», si sfoga a contargli le ne&ligeiize e le cattiverie del signor maestro di scuola: a manca, siedono quelle due care ànime nella pupilla di cui, bevo, tratto tratto, le idèe. La prima è una donna di mezza età, pàllida, colla capigliatura nera, liscia, e con lo sguardo accarezzante : l’altra, una fanciulla di quattórdici anni, dai capelli crespi, come spolverizzati di oro e dagli occhi vispissimi : quella, la quale avvolge del filo su’n dipanino, è mia mamma ; questa (che, con le mani distese e la matassa allargata, le serve da guìndolo) mia.... Una mia cugina.
A rivederci.
Milano, 1868.