Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo XI

Libro ottavo - Capitolo XI (1-4 dicembre 1563)

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CAPITOLO XI

(1-4 dicembre 1563).

[La notizia della grave malattia del papa fa anticipare la sessione, nonostante l’opposizione spagnola. — Congregazione generale per l’accettazione dei decreti giá formati. — Si approva di leggere tutti i decreti conciliari dal 1845 in poi. — Sessione venticinquesima. — Decreti del purgatorio, dell’invocazione dei santi e venerazione delle reliquie e immagini. — Decreto di riforma degli ordini religiosi. — Decreti di riforma generale. — Decreto dell’autoritá pontificia sul concilio. — Decreto delle indulgenze, digiuni ecc. — Solenne chiusura del concilio.]

Mentre queste cose si fanno, il dí primo decembre al tardi arrivò con gran diligenzia in Trento un corriero da Roma, con avviso che il pontefice, sopraggionto da gravissimi accidenti, era caduto in pericolosa infirmitá. Portò lettere del Cardinal Borromeo alli legati e al Cardinal di Lorena che accelerassero l’espedizione del concilio quanto fosse possibile, e vi mettessero fine senza aver rispetto ad alcuno, per ovviare alli inconvenienti che potrebbero occorrere sopra l’elezione del papa, se il concilio fosse in essere in tempo di vacanza della sede. Nelle lettere vi erano poche parole di mano del pontefice, che commetteva l’istesso assolutamente, e a Lorena diceva raccordarsi della promessa. È cosa certa (per dir qui, se ben fuori di luoco, questo particolare) che il papa era risoluto, se non si riaveva presto, di crear otto cardinali e metter ordine che nella elezione del successore non nascesse confusione. Li legati e Lorena, risoluti di antecipar il tempo della sessione e finir il concilio (o con le proposte o senza) fra due giorni, acciocché prima non si potesse aver nova della morte del papa, [p. 366 modifica] mandarono a comunicar l’avviso avuto e la loro resoluzione alli ambasciatori, e negoziarono con li prelati principali. Tutti assentirono, eccetto l’ambasciator spagnolo, qual disse aver ordine dal suo re che, vacando la sede, non lasciasse far papa in concilio, ma l’elezione fosse de’ cardinali; e però non faceva bisogno precipitare. Ma il Cardinal Morone per il contrario disse che sapeva certo l’ambasciator di Francia, che era ancora in Venezia, aver commissione di protestare che quel regno non obedirebbe ad altro papa che all’eletto per il concilio; onde bisognava onninamente finirlo per fuggir ogni pericolo. Il conte di Luna fece una congregazione dei prelati spagnoli in casa sua, e diede fama di aver resoluto di protestare e opponersi.

Con tutto ciò la mattina seguente li legati fecero la congregazione, nella quale furono letti li decreti del purgatorio e dei santi, come erano stati formati dal Cardinal varmiense e altri deputati; dopo, letta la reforma dei frati: il tutto approvato con grandissima brevitá de voti e con pochissima contradizione. Poi, letti li capi di riforma, nel primo, che delli costumi de’ vescovi tratta, al passo dove si dice: «che delle entrate della Chiesa non arricchiscano li parenti o familiari», si diceva: «che delle entrate della Chiesa, de quali essi sono constituiti fedeli dispensatori per li poveri». Al qual ponto il vescovo di Sulmona si oppose, con dire che, essendo divise per antichi canoni le porzioni dei poveri, della fabbrica e della mensa episcopale, non era da dire che i vescovi e altri beneficiati fossero «dispensatori», ma che come di parte loro propria erano patroni. Non che, spendendola male, non incorressero peccato e indignazione divina, sí come anco ogn’altra persona che spende male il suo proprio; ma se fossero dispensatori per i poveri, sarebbono ubbligati alla restituzione, cosa che non s’ha da dire. Vi furono discorsi assai, tenendo la maggior parte che li beneficiati fossero patroni dei frutti, o vero usufruttuari; altri dicevano, come giá l’ambasciator francese nell’orazione, che sono usuari. Alcuni defendevano le parole del decreto, che erano dispensatori, allegando il luoco [p. 367 modifica] dell’Evangelio del servo fedele, e la dottrina di tutti i santi Padri. Ma il dover venire al fine del concilio fece che si tralasciarono quelle parole, cioè «delli quali essi sono constituiti fedeli dispensatori verso i poveri»; e col silenzio troncate tutte le difficoltá.

Nel capo dei iuspatronati li ambasciatori di Savoia e di Fiorenza fecero instanzia che fossero eccettuati quelli dei loro principi, o vero che non fossero eccettuati altri che l’imperator e li re. Li fu data sodisfazione con eccettuare, oltra l’imperatore, re o vero possessori di regno, li altri grandi e supremi principi che nei loro domini hanno potestá d’imperio.

Nel rimanente fu proposto di legger in sessione tutti li decreti fatti sotto Paulo e Giulio per approvarli. Al che fu repugnato dal vescovo di Modena, dicendo che questo sarebbe stato un derogar l’autoritá del concilio di quei tempi, quando le cose allora fatte avessero bisogno di nova conferma de’ padri, ed era mostrar che questo con quello non fosse tutt’uno, perché nessuno mai conferma le cose proprie: dicendo altri che fosse necessario farlo a ponto per questo, acciò non fosse levata a quelli l’autoritá, con dire che non sono dell’istesso concilio. E li medesmi francesi, li quali altre volte con tanta instanzia avevano richiesto che si dechiarasse il concilio esser novo e non continuato col precedente di Paulo e Giulio, piú degli altri s’affaticavano acciò fosse levata ogni ragione di dubitare che tutti gli atti dal 1545 sino al fine non fossero d’una medesima sinodo. Cosí avviene non solo nelle cose umane, ma anco in quelle della religione, che, mutati gl’interessi, si muta la credulitá! Mirando adonque tutti ad un istesso scopo, fu determinato semplicemente di leggerli e altro non dire, perché con questo si dechiarava apertissimamente l’unitá del concilio e si levava la difficoltá che averebbe potuto portar l’usar parola di «conferma», lasciando a ciascuno intendere come piú gli piacesse, se l’averli letti portasse in consequenza averli confirmati o pur dechiarati validi, o pur inferire che tutta è una sinodo quella che li fece con quella che li ha letti. [p. 368 modifica]

Fu finalmente proposto d’anticipar la sessione e celebrarla il dí seguente; e quando in quella non si potessero ispedir tutte le azioni, continuarla il giorno dopo come tutt’una, e licenziar li padri, e il giorno della dominica sottoscrivere tutti gli atti del concilio. A questo si opposero quattordici vescovi spagnoli, dicendo che non era necessitá di abbreviar il tempo; con tutto ciò il Cardinal Morone disse che la sessione si sarebbe fatta. E il Cardinal di Lorena con li ambasciatori cesarei rinnovarono gli uffici coll’ambasciator spagnolo che si contentasse di quello che con tanta concordia era deliberato; quale in fine, dopo molte cose dette e replicate, si contentò con due condizioni: l’una, che si decretasse che il papa provvederebbe alle cose che restavano; l’altra, che nella trattazione delle indulgenzie non si ponesse che fossero date gratis, né alcun’altra cosa la qual potesse far pregiudicio alle cruciate di Spagna.

Venuto adonque quel giorno venere dei 3 decembre, andati alla chiesa con le cerimonie solite, si cantò la messa, nella quale fece il sermone Gerolamo Ragazzoni vescovo di Nazianzo. Chiamò tutto il mondo ad ammirar quel giorno felicissimo, nel quale il tempio di Dio si ristorava e la nave si riduceva in porto dopo grandissimi turbini e onde; che piú sarebbe da rallegrarsi se li protestanti avessero voluto esser a parte, ma questa non esser la colpa dei padri. Disse che per il concilio avevano eletto quella cittá nelle fauci di Germania, nel limitar della loro casa, senza alcuna guardia, per non dar sospetto di poca libertá; che li protestanti erano stati invitati con fede pubblica, aspettati e pregati; che per salute delle loro anime si era esplicata la fede cattolica e restituita la disciplina ecclesiastica; recapitulò tutte le cose trattate dal concilio in materia di fede; narrò li abusi levati nelli riti sacri; disse che, quando non vi fosse stata altra causa di convocar il concilio, era necessario farlo per la sola proibizione dei matrimoni clandestini. E passato alle cose statuite per riforma, mostrò di passo in passo il servizio pubblico che per quei decreti la Chiesa riceverebbe. Aggionse che nei [p. 369 modifica] passati concili si era trattata l’esplicazione della fede con la reformazione de’ costumi, ma in nessuno piú diligentemente. Disse che gli argomenti e ragioni degli eretici erano stati trattati e piú volte discussi, e spesso con grandissima contenzione; non perché tra essi padri vi fosse discordia, la qual non può esser in quelli che sono dei parer medesimo, ma per trattar con sinceritá e illuminar la veritá in tal maniera che, se ben li eretici sono stati assenti, tanto è stato fatto come se presenti fossero stati. Esortò tutti che, tornati alle diocesi, mettessero li decreti in esecuzione; esortò anco tutti a ringraziar Dio e poi il pontefice, narrando le opere da lui fatte per favorir il concilio, mandando nonci alle regioni protestanti, legati a Trento, eccitando li principi a mandarvi ambasciatori, non perdonando spese per mantener il concilio in libertá. Lodò li legati per esser stati guida e moderatori, e in particolare il Cardinal Morone; e finalmente concluse nella lode dei padri.

Finite le ceremonie, furono letti li decreti. Nella dottrina del purgatorio si diceva che la chiesa cattolica dalle sacre lettere, dalla tradizione e in quella medesima sinodo ha insegnato esserci il purgatorio, e le anime ritenute in quello esser aiutate dai suffragi dei fedeli e dal sacrificio della messa. Però comanda ai vescovi che insegnino e faccino predicar sana dottrina in quella materia, senza trattar inanzi la plebe semplice questioni sottili, né lasciando divulgar cose incerte e inverosimili, proibendo le curiositá, superstizioni e inonesti guadagni, procurando che siano piamente eseguiti quei suffragi che dai vivi sogliono esser fatti per i morti, e siano eseguite accuratamente le cose ordinate nelli testamenti o in qualonque altro modo.

In materia dei santi comandò alli vescovi, e a tutti gli altri che hanno carico d’insegnare, d’instruir il popolo dell’intercessione e invocazione dei santi, dell’onor delle reliquie, del legittimo uso delle immagini secondo l’antica dottrina della Chiesa, consenso dei Padri e decreti dei concili; insegnando che li santi pregano per gli uomini, che è utile invocarli e [p. 370 modifica] ricorrere alle orazioni e aiuto loro. Poi tutt’in un periodo condannò otto asserzioni di questa materia: che li santi del cielo non si debbono invocare; che non preghino per gli uomini; che sia idolatria l’invocarli acciò preghino per noi eziandio singolarmente: che repugni alla parola di Dio, sia contrario all’onor di Cristo, sia pazzia supplicar loro con la voce o col cuore; che li corpi de’ santi, per quali Iddio presta molti benefici, non debbiano esser venerati; che le reliquie e le sepulture loro non debbono esser onorate; e che in vano si frequenta le loro memorie per impetrar aiuto.

Quanto alle immagini, che quelle di Cristo, della Vergine e dei santi si debbino tenir nelli templi e renderli il debito onore, non perché in loro sia divinitá o virtú alcuna, ma perché l’onor redonda nella cosa rappresentata: sí che per mezzo delle immagini sia adorato Cristo e li santi, la similitudine de’ quali portano, come fu difinito dalli concili, specialmente dal niceno secondo. Che per l’istorie li misteri della religione, espressi in pitture, al populo sono insegnati, e raccordati gli articoli della fede; e non solo li sono suggeriti li benefici di Cristo, ma ancora posti inanzi agli occhi li miracoli ed esempi de’ santi, per ringraziarne Dio e per imitarli, anatematizzando chi insegnerá o crederá il contrario di quei decreti. Soggionse poi che, desiderando levar gli abusi e le occasioni di perniciosi errori, ordina che per le pitture istoriali della Scrittura sacra, occorrendo figurar la divinitá, s’insegni al populo che ciò non si fa perché quella possi esser vista con gli occhi del corpo. Soggionse che sia levata ogni superstizione nell’invocazione de’ santi, venerazione delle reliquie e uso delle immagini; ogni guadagno inonesto sia abolito, evitato ogni lusso, non dipinte né ornate le immagini lascivamente; nelle feste de’ santi e visitazione delle reliquie non si facciano banchetti; che in nessuna chiesa o in altro luoco sia posta immagine insolita, se non approvata dal vescovo, né admessi novi miracoli o ricevute nove reliquie; e occorrendo qualche dubbio o abuso difficile da estirpare, o difficoltá grave, il vescovo aspetti il parere del concilio provinciale; [p. 371 modifica] né sia decretata cosa alcuna nova o insolita nella chiesa senza il parer del papa.

Ventidoi capi conteneva il decreto della riforma de’ regolari, con questi particolari precetti in somma:

I. Che tutti osservino la regola della professione, e specialmente quello che appartiene alla perfezione, che sono i voti e precetti essenziali, e alla comunitá del viver e vestire.

II. Nessuno possa posseder beni stabili né mobili come propri; né li superiori possino conceder stabili, eziandio ad uso, governo o commenda; e nell’uso dei mobili non vi sia né superfluitá né mancamento.

III. Concede la sinodo a tutti i monasteri, eziandio mendicanti, eccettuati li cappuccini e li minori osservanti, di posseder beni stabili, con precetto che nelli monasteri sia stabilito il numero de’ religiosi, quanti possino esser sustentati o delle rendite o delle elemosine consuete; né per l’avvenir siano fabbricati tali luochi senza licenza de’ vescovi.

IV. Che nessun religioso senza licenza del superior suo possi andar al servizio di qualsivoglia luoco o persona, né partirsi dal suo convento, se non comandato dal suo superiore.

V. Che li vescovi abbino cura di restituir e conservare la clausura delle monache, esortando li principi e comandando alli magistrati, in pena di scomunica, a prestarli aiuto. Che le monache non possino uscir dal monastero; e in pena di scomunica nessun vi possa entrare, senza eccezione di condizione, sesso o etá, se non con licenzia. Che li monasteri delle monache fuori della mura delle cittá e castelli siano ridotti dentro.

VI. Che le elezioni si faccino per voti secreti, né siano creati titulari a questo effetto o supplita la voce degli assenti, altramente l’elezione sia nulla.

VII. Che nei monasteri di monache la superiore sia almeno di quarant’anni e di otto di professione; e dove questo non si possi, almeno sia sopra li trenta di etá e cinque di professione. Nessuna possi aver superioritá in due monasteri, e quello che sará soprastante all’elezione stia fuori delle grade. [p. 372 modifica]

VIII. Li monasteri che sono immediate sotto la sede apostolica si riducano in congregazione e diano ordine al loro governo; e li loro superiori abbiano quell’autoritá che gli altri delli giá redotti in congregazione.

IX. Li monasteri di monache soggetti immediate alla sede apostolica siano governati dalli vescovi come delegati.

X. Che le monache si confessino e comunichino almeno ogni mese; e oltra il confessor ordinario, li sia dato un estraordinario due o tre volte all’anno; e non possino tenir il sacramento dentro il monastero.

XI. Che nelli monasteri che hanno cura d’anime secolari, quelli che l’esercitano siano soggetti al vescovo in quello che tocca il ministerio dei sacramenti, eccetto il monasterio di Clugni, o dove risedono abbati generali o capi dei ordini, o dove li abbati hanno giurisdizione episcopale o temporale.

XII. Che li regolari pubblichino e servino le censure e interdetti papali ed episcopali, e parimente le feste che il vescovo comanderá.

XIII. Che il vescovo inappellabilmente sia giudice di tutte le controversie di precedenzia tra le persone ecclesiastiche, si secolari come regolari; e tutti siano obbligati andar alle pubbliche processioni, eccetto quelli che vivono in stretta clausura.

XIV. Il regolare che resiede nel chiostro e commette eccesso fuori con scandalo del popolo, sia punito dal superiore nel tempo che il vescovo statuirá, e della pena sia fatto il vescovo certo, altrimenti il delinquente possa esser da lui punito.

XV. Che la professione, fatta inanzi sedici anni finiti e un anno intiero di probazione, sia nulla.

XVI. Che nessuna renonzia o obbligazione vaglia, se non fatta tra il termine di due mesi inanzi la professione, e con licenzia dell’ordinario; e finito il tempo della probazione, li superiori admettino li novizi alla professione o li mandino fuori del monasterio; non intendendo però di comprender li gesuiti. Che il monasterio non possa ricever alcuna cosa dal [p. 373 modifica] novizio inanzi la professione, eccetto il vitto e vestito; e partendo, li sia restituito tutto il suo.

XVII. Che nessuna vergine riceva l’abito né faccia professione, senza esser prima esaminata dal vescovo e ben intesa la volontá di lei, e che abbia le condizioni requisite secondo la regola di quel monasterio.

XVIII. Che siano anatematizzati tutti, di qualsivoglia condizione, quelli che sforzeranno alcuna donna, fuorché nei casi legittimi, ad entrar in monasterio, recever l’abito o far professione; e similmente quelli che impediranno senza giusta causa quelle che spontaneamente vorranno entrare, eccettuate le penitenti o convertite.

XIX. Chi pretenderá nullitá della professione, non sia ascoltato se non tra cinque anni dal giorno di essa, producendo la causa inanzi al suo superiore e ordinario prima che deponga l’abito; e nessun possa passar a religione piú larga, né sia data licenza di portar l’abito occulto.

XX. Li abbati capi degli ordini visitino li monasteri soggetti, quantonque commendati, e li commendatari siano tenuti eseguir le ordinazioni; e in quelli siano creati li priori o superiori, che hanno il governo spirituale dalli capitoli o visitatori degli ordini.

XXI. Che la sinodo desidererebbe restituir la disciplina in tutti i monasteri, ma, per la durezza e difficoltá del secolo non essendo possibile, per non tralasciar di operar sí che alcuna volta si possa provvedervi, confida che il papa, per quanto vedrá poter comportar il tempo, provvederá che alli commendati sia preposto in governatore persona regolare professa; e quelli che vacheranno all’avvenire non siano conferiti se non a’ regolari; e quelli che hanno in commenda monasteri che sono capi dei ordini, se non gli è successor provveduto regolare fra sei mesi, debbino far la professione o cedere, altrimenti le commende vachino. E nelle provvisioni dei monasteri sia nominatamente espressa la qualitá di ciascuno, altramente la provvisione s’abbia per surrettizia.

XXII. Che a quei decreti s’intendano tutti li regolari [p. 374 modifica] soggetti, non ostante qualonque privilegio, eziandio di fondazione; comandando alli vescovi e abbati di mandar in esecuzione immediate, e pregando e comandando alli principi e magistrati di assisterli, sempre che saranno ricercati.

Continuò immediate la lettura della riforma generale: nella quale, dopo esortati li vescovi alla vita esemplare e alla modestia negli apparati, mensa e vitto frugale, viene proibito:

I. Che delle rendite della Chiesa non possino far parte alli parenti e familiari, eccetto se sono poveri; estendendo quello che dei vescovi è detto a tutti li beneficiati secolari e regolari, e ancora alli cardinali.

II. Che li vescovi nel primo concilio provinciale ricevino i decreti di essa sinodo tridentina, promettino obedienza al papa, anatematizzino le eresie condannate; e l’istesso faccia ciascun vescovo che per l’avvenire sará promosso, nella prima sinodo; e tutti li beneficiati che debbono convenir in sinodo diocesana, in quella faccino il medesimo. E quelli che hanno cura dell’universitá e studi generali, operino che da quelle siano ricevuti li medesimi decreti; e li dottori insegnino conforme a quelli la fede cattolica; e di ciò ne facciano giuramento solenne in principio di ciascun anno; e quelle che sono soggette immediate al pontefice, Sua Santitá averá cura che siano reformate da’ suoi delegati in quella maniera, o come meglio li parerá.

III. Che se ben la spada della scomunica è il nervo della disciplina ecclesiastica, molto salutifero per contener gli uomini in officio, s’ha da usar con sobrietá e circonspezione, avendo imparato per esperienzia esser piú sprezzato che temuto quando si fulmina temerariamente per causa leggiera: però da altri che dal vescovo non possi esser fulminata per cose perse e rubate; il quale non si lasci indur a concederla dall’autoriá di qualsivoglia secolare, eziandio magistrato. E nelle cause giudiciali, dove si può fare l’esecuzione reale o personale, si astenga da censure; e nelle civili, spettanti in qualonque modo al fòro ecclesiastico, possino usar pene pecuniarie, eziandio contro li laici, o proceder per presa de pegni, o vero delle [p. 375 modifica] persone medesime, con esecutori suoi o altri; e non potendosi eseguir realmente o personalmente, ma essendoci contumacia, si possi proceder alla scomunica: e il medesimo nelle cause criminali. Né il magistrato secolare possi proibir all’ecclesiastico di scomunicare o vero revocar la scomunica, sotto pretesto che le cose del decreto non siano state osservate. Il scomunicato, se non si ravvederá, non solo non sia recevuto a participar con li fedeli, ma se persevererá nelle censure, si possi proceder contra lui come sospetto d’eresia.

IV. Dá facoltá alli vescovi nella sinodo diocesana, e alti capi dei ordini nei suoi capitoli generali, che possino ordinar nelle loro chiese quello che sia ad onor di Dio e utilitá di quelle, quando vi sia obbligo di celebrar cosí gran numero di messe per legati testamentari che non si possino satisfare, o vero l’elemosina sia tanto tenue che non si trovi chi voglia ricever il carico, con condizione però che sempre si faccia memoria di quei defonti che hanno lasciati li legati.

V. Che nella collazione o qualonque altra disposizione dei benefici non sia derogato alle qualitá, condizioni e carichi ricercati o vero imposti nella erezione o fondazione, o per qualonque altra constituzione; altrimenti la provvisione sia stimata surrettizia.

VI. Che quando il vescovo procede fuor di visita contra li canonici, il capitolo nel principio di ciascun anno elegga due, col consenso e conseglio de’ quali abbia da proceder in tutti gli atti, e sia uno il voto d’ambidui; e se saranno tutti doi discordi dal vescovo, sia eletto da loro un terzo che determini la controversia; e non accordandosi, sia eletto il terzo dal vescovo piú vicino. Ma nelle cause di concubinato, o piú atroci, possi il solo vescovo ricever l’informazione e proceder alla retenzione, del resto servando quanto è ordinato. Che il vescovo in coro e in capitolo e negli altri atti pubblici abbia la prima sede e il luoco che eleggerá; che il vescovo preseda al capitolo, se non quando si tratta del comodo suo e de’ suoi; né questa autoritá possi esser comunicata al [p. 376 modifica] vicario: e quelli che non sono di capitolo, nelle cause ecclesiastiche siano in tutto soggetti al vescovo; e dove li vescovi hanno maggior giurisdizione della predetta, il decreto non abbia luoco.

VII. Per l’avvenire non sia piú concesso regresso o accesso ad alcun beneficio ecclesiastico, né li giá concessi siano estesi o transferiti: e in questo siano compresi anco li cardinali. Non siano fatti coadiutori con futura successione in qualsivoglia benefici ecclesiastici; e se nelle cattedrali o monasteri sará necessario e utile il farlo, la causa sia prima conosciuta dal pontefice, e vi concorrano le debite qualitá.

VIII. Che tutti li beneficiati esercitino l’ospitalitá quanto l’entrata li concede; a quelli che hanno ospitali in governo, sotto qualonque titolo, comanda che l’esercitino secondo che sono tenuti delle entrate a ciò deputate: e se nel luoco non si trovano persone di quella sorte che l’indistruzione ricerca, le entrate siano convertite in uso pio piú prossimo a quello, come parerá al vescovo con doi del capitolo; e quelli che non satisfaranno al carico dell’ospitalitá, se ben fossero laici, possino esser costretti per censure e altri rimedi al loro debito, e siano tenuti alla restituzione de’ frutti nel fòro della conscienzia: e per l’avvenire simil governi non siano dati ad uno per piú che tre anni.

IX. Che il titolo del iuspatronato si mostri autentico per fondazione o donazione o per presentazioni moltiplicate da tempo immemorabile, o in altra maniera legittima. Ma nelle persone e comunitá, che si sogliono presumer averlo usurpato, la prova sia piú esatta, e l’immemorabile non basti, se non si mostrino autenticamente presentazioni di cinquanta anni almeno, che tutte abbiano avuto effetto. Le altre sorti de patronati s’intendino abrogate, eccetto quelli dell’imperatore, re o vero possessori di regni e altri principi soprani, e delli studi generali. Possi il vescovo non admetter li presentati dai patroni, se non saranno idonei; li patroni non si possino intrometter nei frutti, né il iuspatronato possi esser trasferito in altri contra le ordinazioni canoniche; e le unioni de’ benefici liberi [p. 377 modifica] a quei di iuspatronato, se non hanno sortito effetto, cessino a fatto; e li benefici siano ridotti in libertá; e le fatte da quarantanni in giú, quantonque siano perfezionate, si rivedino dai vescovi, e trovatovi qualche defetto, siano annullate. E parimente siano revisti tutti li patronati da quarantanni ingiú, per aumento di dote o per nova construzione; e se non si troveranno in evidente utilitá del beneficio, siano rivocati, restituito ai patroni quello che da loro è dato.

X. Che nelli concili provinciali o diocesani siano elette quattro persone almeno, con le debite qualitá, a quali siano commesse le cause ecclesiastiche che si averanno a delegare dalli legati, nonci o dalla sede apostolica; e le delegazioni ad altri fatte s’intendino surrettizie.

XI. Che i beni ecclesiastici non possino esser affittati con antecipato pagamento in pregiudicio dei successori; né si possino affittar le giurisdizioni ecclesiastiche, né gli fittuali possino esercitarle; e le locazioni di cose ecclesiastiche, eziandio confirmate dalla sede apostolica, fatte da trent’anni in giú per tempo longo, cioè a ventinove o piú anni, si debbino giudicar dalla sinodo provinciale fatte in danno della Chiesa.

XII. Che li tenuti a pagar decime, per l’avvenire le paghino a chi sono obbligati intieramente; e chi le tiene, debbia esser escomunicato, né possi esser assolto, se non seguita la restituzione. Ed esorta tutti a far parte dei beni donatigli da Dio ai vescovi e parrochi che hanno le chiese povere.

XIII. Dove la quarta dei funerali era solita pagarsi alla chiesa episcopale o parrocchiale da quarant’anni in su, e poi è stata concessa ad altri luochi pii, sia a quelle ritornata.

XIV. Proibisce a tutti i chierici di tener in casa o fuori concubine o altre donne suspette; dal che se ammoniti non s’asteniranno, siano privati della terza parte delle entrate ecclesiastiche; e dopo la seconda ammonizione, privati di tutte e suspesi dall’amministrazione; e perseverando, siano privati d’ogni beneficio e inabili ad averne, sino che non saranno [p. 378 modifica] dispensati; e se dopo averle lasciate ritorneranno, siano anco scomunicati: e la cognizione di queste cause appartenga ai soli vescovi summariamente. Ma li chierici non beneficiati siano da loro puniti di carcere, suspensione e inabilitá; e li vescovi medesimi, se caderanno in simil errore, non emendandosi dopo esser ammoniti dalla sinodo provinciale, siano suspesi; e perseverando, siano denonciati al papa.

XV. Che i figli dei chierici non nati di legittimo matrimonio non possino aver beneficio né ministerio nelle chiese dove li loro padri hanno avuto beneficio alcuno; né possino aver pensioni sopra i benefici che il padre ha o vero ha avuto; e se in qualche tempo padre e figliuolo hanno benefici nella medesima chiesa, il figliuolo sia tenuto resignarlo fra tre mesi; proibendo anco le resignazioni che il padre fará ad un altro, acciocché quello resigni il suo al figliuolo.

XVI. Che li benefici curati non possino esser convertiti in semplici; e nelli giá convertiti, se il vicario perpetuo non ha entrata conveniente, li sia assegnata ad arbitrio del vescovo.

XVII. Contra li vescovi che si portano bassamente con li ministri dei re, con li titulati e baroni, cosí nella chiesa come fuori, e con troppo indignitá non solo li danno luoco, ma ancora li servono in persona, la sinodo, detestando questo e renovando li canoni spettanti al decoro della dignitá episcopale, comanda alli vescovi che se n’astengano, e abbiano risguardo al proprio grado cosí in chiesa come fuori, raccordandosi d’esser pastori; e comanda anco alli principi e a tutti gli altri che li portino onor e riverenza debita a padri.

XVIII. Che li canoni siano osservati da tutti indistintamente, e non siano dispensati se non per causa conosciuta con maturitá, e senza spesa.

XIX. Che l’imperator, re e ogn’altro principe, che concederanno luoco per duello tra cristiani, siano escomunicati e privati del dominio del luoco dove il duello sará commesso, se lo riconoscono dalla Chiesa; e li combattenti e padrini siano scomunicati, confiscati li beni e perpetuamente infami; e morendo nel duello, non siano sepolti in sacro; e quelli che lo [p. 379 modifica] consegneranno o in iure o in fatto, o persuaderanno al duello, e li spettatori, siano scomunicati.

XX. In fine fu letto il tanto esaminato capitulo della libertá ecclesiastica, o vero riforma de’ principi. In quello la sinodo ammonisce i principi secolari, confidando che concederanno la restituzione delle ragioni sue alla Chiesa, e ridurranno i sudditi alla reverenzia verso il clero, e non permetteranno che li officiali e inferiori magistrati violino l’immunitá della Chiesa e persone ecclesiastiche, ma insieme con essi principi saranno obedienti alle constituzioni del sommo pontefice e concili: determinando che tutte le constituzioni dei concili generali e apostoliche a favor delle persone ecclesiastiche e della ecclesiastica libertá siano osservate da tutti; ammonendo l’imperator, re, repubbliche e principi e tutti a venerar le cose che sono di ragione ecclesiastica, e non permetter che dalli signori inferiori o dalli magistrati o ministri suoi siano violate, acciò li chierici possino star alla sua residenzia ed esercitarsi negli uffici senza impedimento, con edificazione del populo.

Dopo questo fu letto un decreto, del quale in nessuna congregazione si era prima parlato, per il quale la sinodo dechiarava che in tutti li decreti di riforma fatti sotto Paulo, Giulio e Pio in quel concilio, con qualsivoglia parole e clausole, s’intenda sempre salva l’autoritá della sede apostolica.

Non potendosi espedire, per esser l’ora tarda, il rimanente in quella sessione, secondo la deliberazione presa nella congregazione generale il rimanente fu differito al giorno seguente. Nel quale, quantonque fosse giá venuta nova che il papa era migliorato e in tutto posto in sicuro della vita, si fece la congregazione inanzi giorno; furono letti li decreti delle indulgenzie, di finir il concilio e di dimandar la conferma; e approvati da tutti.

Dopo il disnar si fece la sessione, nella quale fu letto il decreto delle indulgenzie, che in sostanza contiene: Cristo aver dato autoritá di concederle alla Chiesa, e lei averla usata da antichissimo tempo; e pertanto la sinodo insegna e [p. 380 modifica] comanda che l’uso di quelle sia continuato, come salutifero al populo cristiano e approvato dai concili, e anatematizza chi dirá che siano inutili, o che la Chiesa non abbia potestá di concederle. E per servar l’antica consuetudine e provveder li altri abusi, comanda che siano abolite tutte le questuazioni cattive; e quanto agli altri abusi, comanda ai vescovi che ciascuno raccolga tutti quelli della propria chiesa e li proponga nella sinodo provinciale, per riferirli al papa che vi provegga. Intorno li digiuni e differenzie de’ cibi e osservazione di feste, esorta li vescovi ad osservar li comandamenti della chiesa romana. E intorno l’indice, se bene quello era finito, non potendo la sinodo darne giudicio, ordina che tutto sia portato al papa e rimesso al giudicio suo; l’istesso facendosi del catechismo, messal e breviario. Pubblicò ancora un altro decreto, che per i luochi disegnati agli oratori non s’intendi pregiudicato ad alcuno. In fine pregò li principi ad adoperarsi che li decreti del concilio non siano violati dagli eretici, ma ricevuti e osservati da essi e da tutti: nel che se nascerá difficoltá o bisogno di dechiarazione, il papa, chiamati quelli che giudicherá a proposito dai luochi dove la difficoltá nascesse, o vero congregando concili generali, o con altro modo, provvederá. Furono dopo recitati tutti li decreti fatti sotto Paulo e Giulio in quel concilio, cosí in materia di fede come di riforma. Per ultima cosa il secretario, andato nel mezzo, interrogò se piaceva ai padri che fosse posto fine a quella sinodo, e per nome di lei dalli legati e presidenti dimandata al sommo pontefice Pio IV conferma di tutte le cose decretate sotto Paulo, Giulio e sotto la Santitá sua. E fu resposto non ad uno ad uno per voti, ma da tutti insieme in una voce: Placet. Il Cardinal Morone, come primo presidente, concesse a ciascuno che si era ritrovato in concilio, e a tutti li presenti alla sessione, indulgenzia plenaria, e benedisse il concilio e licenziò tutti che, dopo aver reso grazie a Dio, andassero in pace.

Fu antico costume delle chiese orientali di trattar le cose dei concili in l’adunanza pubblica di tutti; e, venendo occasione, ben spesso occorrevano delle acclamazioni populari e [p. 381 modifica] alcune volte tumultuose, le quali però finivano in concordia: e nel fine li vescovi, trasportati per allegrezza causata dalle concordi deliberazioni, passavano ad acclamazioni di lode delli imperatori, che avevano congregato il concilio e favorito, in commendazione della dottrina dal concilio dechiarata, in preghiere a Dio per la continua divina assistenzia alla santa Chiesa, per la salute degl’imperatori e per la sanitá e prosperitá dei vescovi: le quali non erano meditate, ma secondo che lo spirito eccitava alcun vescovo piú zelante a proromper in qualcheduno di quei concetti opportunamente, cosí il comun concorso gli acclamava. Questo fu anco imitato in Trento, non però dando luoco a spirito presentaneo di alcuno, ma con aver prima meditato quello che doveva essere proposto e resposto, e recitandolo de scripto. Il Cardinal di Lorena si prese cura non solo di esser principale a componer le acclamazioni, ma anco d’intonarle; il che universalmente fu inteso per una leggerezza e vanitá, e poco condecente ad un tal prelato e prencipe far l’ufficio, che piuttosto conveniva alli diaconi del concilio, non che ad un arcivescovo e cardinale tanto principale. In quelle, intonando il cardinale e rispondendo li padri, fu pregato longa vita al papa ed eterna felicilá a Paulo e Giulio; e similmente eterna memoria a Carlo V e alli re protettori del concilio; e longa vita all’imperator Ferdinando e alli re, principi e repubbliche; longa vita e molte grazie alli legati e cardinali; vita e felice ritorno alli vescovi; commendata la fede della santa general tridentina sinodo, come fede di san Pietro, dei Padri e degli ortodossi: in una sola parola detto anatema a tutti gli eretici in generale, senza specificar né antichi né moderni.

Fu comandato sotto pena di scomunica a tutti li padri che sottoscrivessero di mano propria ai decreti. Il giorno seguente, che fu la domenica, fu consumato in questo; e per farlo ordinatamente si fece quasi una congregazione: e le sottoscrizioni furono di legati quattro, cardinali due, patriarchi tre, arcivescovi venticinque, vescovi dugentosessantotto, abbati sette, procuratori de assenti trentanove, generali de ordini [p. 382 modifica] regolari sette. E se bene giá era stato deliberato che gli ambasciatori sottoscrivessero dopo li padri, fu presa contraria risoluzione allora, per piú rispetti. L’uno fu perché il non esservi ambasciator francese, quando fossero vedute le sottoscrizioni degli altri e non quella, sarebbe stato una dechiarazione che li francesi non recevessero il concilio; l’altro, perché il conte di Luna si lasciava intendere di non sottoscriver assolutamente, ma con riserva, per non aver il re acconsentito al fine del concilio. E pubblicarono li legati che, non essendo costume di sottoscrivere li decreti se non da chi ha voce deliberativa, sarebbe stato cosa insolita che ambasciatori sottoscrivessero.