Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo XII

Libro ottavo - Capitolo XII (dicembre 1563-marzo 1565)

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Libro ottavo - Capitolo XI Nota

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CAPITOLO XII

(dicembre 1563-marzo 1565).

[Sodisfazione per la fine del concilio. — Il papa favorevole all’approvazione dei decreti conciliari, mentre in curia prevale l’opposizione. — Consultazioni del papa. Opinioni dell’Amulio e del Boncompagni. — Il papa conferma l’azione conciliare nel concistoro del 26 gennaio e con una bolla. — Giudizi su tale approvazione. — Come venisse accolto il concilio in Ispagna ed in Francia. — Gravi biasimi al Lorena per non aver salvaguardate le prerogative di quel regno. — Critiche francesi ai deliberati conciliari. — Accoglienza ostile in Germania. — Nuove insistenze dell’imperatore e del duca di Baviera per il calice ed il matrimonio dei preti. — La questione del celibato ecclesiastico esaminata da una commissione di cardinali. — Creazione cardinalizia del marzo 1565.]

In Roma, quando successe l’infirmità del pontefice, temendo tutti della vita sua, fu molta confusione nella corte, perché, non avendosi ancora visto morte di pontefice essendo il concilio aperto, si temeva grandemente quello che potesse succedere. Avevano l’esempio del concilio constanziense, il quale nell’elezione aggionse altri prelati alli cardinali, e temevano che qualche cosa simile o peggiore non avvenisse. E se ben l’ambasciator di Spagna affermava l’ambasciator in Trento e li prelati spagnoli aver commissione che l’elezione fosse de cardinali, con tutto ciò, atteso il poco numero di questi, le parole non davano piena confidenzia. Fu grand’allegrezza quando s’intese il papa restorato, parendo d’esser usciti di gran pericolo: la qual s’aumentò sopra modo, quando s’intese il fine del concilio. Il pontefice ordinò per questo una solenne processione per ringraziar Dio di tanto beneficio. In consistoro mostrò il gran contento che n’aveva: disse di volerlo confirmare, e anco aggiongerli altre riforme; di voler mandare tre [p. 384 modifica] legati in Germania, Francia e Spagna per esortar ad eseguir li decreti, per conceder le cose oneste e dar suffragio nelle cose de iure positivo.

Inanzi il Natale arrivarono in Roma li legati Morone e Simonetta, da’ quali il papa volle intendere in molte audienzie minutamente le cose successe, e pigliò in nota li nomi delli prelati che si erano affaticati per il concilio, a fine di farli cardinali. La corte, intendendo la resoluzione del papa alla conferma, mutò l’allegrezza in querimonia, facendo tutti gli ufficiali indoglienza per il danno che averebbono ricevuto negli uffici loro, se quella reforma s’eseguiva: e consideravano di piú che, essendo quei decreti concepiti in termini generali e senza clausule di sottil esplicazione, sempre che difficoltá fosse nata, il mondo, giá assuefatto a latrare contra quella corte, averebbe fatto interpretazione contraria a’ loro interessi, e sarebbe stata abbracciata come cosa speciosa, e coperta con titolo di riforma. Erano date suppliche e memoriali al pontefice di quelli che, avendo comprato gli uffici e prevedendo questo danno, dimandavano restoro: cosa che dalla Santitá sua era molto stimata e riputata degna di buon rimedio, acciocché non fosse causa della desolazione di Roma. Al che avendo diligentemente pensato, deputò cardinali a consultar sopra la confermazione, e a pensar il remedio che si potesse porger alle querimonie della corte. Erano alcuni cardinali che consegnavano a confermar immediate li decreti spettanti alla fede, ma proceder con maturitá intorno agli altri, imperocché alcuni erano degni di molta considerazione per la poca utilitá e gran confusione che porterebbono, altri per la impossibilitá o gran difficoltá sarebbe stato necessario spesso dispensarli. Il che non sarebbe successo senza indecoro e senza dar materia a ragionamenti, essendo anco necessario aver molta considerazione sopra il modo di eseguirgli, in maniera che non portassero danno né pregiudicio ad alcuno, non essendo degna di nome di reforma quella provvisione, quale è con detrimento d’altri. Che differendo s’averebbe conosciuto, intendendo il parer di molti, quello che si poteva far con satisfazione comune, senza [p. 385 modifica] la quale tutte le riformazioni tornavano in disformazioni. Il papa per questo elesse otto cardinali che li rivedessero: li quali, dopo longa discussione, per la maggior parte furono di parere che conveniva moderarli tutti prima che confermarli; e ben considerare che, dovendo patir alcuna opposizione, meglio era farla nel principio, che, dandoli riputazione con la conferma, voler poi moderarli. Esser cosa certa che, a chi ha procurato il concilio, altro scopo non è stato in mira se non di abbassar l’autoritá della sede apostolica; e mentre il concilio è durato, da tutti esser stato parlato, come se quello avesse avuto potestá di dar legge al pontefice; e però doversi mostrar adesso, con l’annullare o moderare alcuno di quei decreti, che il pontefice non ha da ricever, ma da dar le leggi alli concili.

Il pontefice, da sé inclinato alla conferma, e indottovi anco per le persuasioni di Morone e Simonetta, perplesso nondimeno per le querimonie della corte e per l’universale opinione dei cardinali, volendo venir a risoluzione, chiamò, oltra li suddetti, li cardinali della Burdissiera e Amulio e li principali ufficiali di camera, cancellarla e rota; dove, proposta la deliberazione, li quattro cardinali concordi consegnarono che il concilio si confermasse assolutamente. Il Cardinal d’Amulio, nelle memorie del quale ho veduto questo negoziato, disse che Sua Santitá con la pazienza, prudenza e virtú, con immensa spesa sua, fatica e dispendio di tanti prelati aveva veduto il fine d’una grande e difficile impresa, del congregare, indrizzare e serrar il concilio; li restava una maggiore, ma senza difficoltá: ciò era preservar sé e la sede apostolica e tutto l’ordine ecclesiastico da reintrare nella stessa difficoltá, pericoli, disagi e spese: esser quarant’anni che il mondo non parlava che di concilio, né aver potuto li pontefici con ogni opera divertirlo, per la persuasione imbevuta dal mondo del bisogno di quello, e che fosse per apportar frutto. Se subito finito si tratta di emendarlo o moderarlo, o vero non confirmandolo si lascia in sospeso, sará fatta una dechiarazione che non è stato provveduto in Trento a quello che era necessario [p. 386 modifica] e s’aspettava; e subito si metterá a campo un’altra provvisione o per mezzo dei concili nazionali o per un altro generale: ed ecco le medesime angustie, da quali con tanta difficoltá s’è liberata la Chiesa di Dio. Ma approvando li decreti del concilio come una perfetta riforma, e dandoli riputazione ed esecuzione in quello che sará possibile, una gran parte resterá persuasa che niente vi manchi; e non esser cosa piú utile per li tempi correnti che sparger fama e nutrirla che il concilio abbia fatto una santa, necessaria e perfetta riforma, non lasciando sapere che da cardinale alcuno vi sia stato posto dubbio che in quel concilio non s’abbia eseguito quello per che fu convocato. Che cosí facendo, l’umore del mondo a poco a poco si acquieterá, e con le dispense potrá la Santitá sua provvedere alli suoi ministri e servitori senza violazione delli decreti del concilio poiché in quei medesimi è riservata l’autoritá apostolica. Li quali li serviranno per scudo a negare le dimande importune di quelli che non giudicará meritevoli di grazie; e col tempo pian piano le cose, insensibilmente e senza che il mondo se n’accorga, torneranno nell’istesso stato. Che altre volte anco per questa via s’è cantinato, quando la necessitá ha constretto cedere a questi umori, soliti nascere nelli sudditi contra quei che li governano. Che quando altri facesse opposizione a quei decreti, per riputazione di tante sue creature, delli suoi legati e di Sua Santitá medesima conveniva che egli li sostenesse; non che, tacendo tutti, essa medesima debbia giugularli totalmente, poiché ogni minima moderazione, emendazione o vero anco dilazione a confermarli è un colpo mortale a tutti: oltre che il volgo, qual sempre intende le cose in sinistro, altro non saprá dire se non che la corte di Roma e il pontefice non vuole riforma.

Gli ufficiali di corte quasi tutti parlarono in contrario, rappresentando li danni e pregiudici loro, e mostrando come tutto ritornerebbe in lesione della Santitá sua e della sede apostolica, e in diminuzione delle entrate di quella. Solo Ugo Boncompagno vescovo di Bestice, che fu poi cardinale, persona versata molto nelli negozi della corte, disse che non poteva [p. 387 modifica] restar di maravigliarsi di tanto timore che vedeva nascere senza ragione; che per la conferma del concilio non se li dava maggior autoritá di quella che li altri concili generali avevano, che si dava al Decreto e alli decretali, dal gran numero de’ quali, e dall’aperto parlare contra li costumi presenti, innumerabilmente piú pregiudici e lesioni si riceverebbe che da quei pochi decreti tridentini molto reservati nella forma del parlare; che se quelli non sono temuti, di questi non conviene aver tanta paura; che nessuna legge sta nelle parole, ma nell’intelligenza; e non in quella che il volgo, i grammatici danno, ma in quella che l’uso e l’autoritá conferma. Le leggi non hanno altro vigore che quanto li presta chi governa e ha la cura d’eseguirle; quello con la dechiarazione li dá senso o piú ampio o piú ristretto, e anco contrario a quello che le parole suonerebbono; e tanto sarebbe ristringer o moderare al presente li decreti di Trento, quanto confermarli adesso assolutamente e lasciarli ristringere dall’uso, o vero farlo con dechiarazione a tempi opportuni. Concluse che non sapeva veder causa perché si dovesse porre difficoltá alcuna alla conferma; ma bene raccordava che si ovviasse al presente alli inconvenienti che potrebbono nascere per la temeritá delli dottori, che quanto piú ignari del governo e delli bisogni pubblici, tanto piú si arrogano il dar interpretazione alle leggi, che confonde il governo. Vedersi per isperienza che le leggi non fanno alcun male, non causano alcuna lite, se non per li vari sensi datigli; che per la constituzione di Niccolò III sopra la regola di san Francesco, materia da sé piena di ambiguitá, mai però nasce alcun disordine, per la proibizione da lui fatta a’ glosatori e commentatori d’interpretarla. Se sará cosí provveduto alli decreti di Trento, se sará vietato lo scrivere sopra quelli, sará ovviato a gran parte di quello che si teme. Ma se anco la Santitá sua proibirá ogni interpretazione anco alli giudici, e ordinerá che in qualonque dubitazione si ricorri alla sede apostolica per la interpretazione, nessuno potrá valersi del concilio a pregiudicio della corte, e si potrá con l’uso e con le dechiarazioni accomodarlo a quello che sará beneficio della [p. 388 modifica] Chiesa; e potrá la Santitá sua, sí come ha una congregazione che con gran frutto attende alle cose dell’inquisizione, cosí instituirne un’altra sopra di questo particolare de interpretar il concilio, alla quale siano riferiti li dubbi da tutte le parti del mondo. «E cosí facendo (diceva) io preveggo che non solo per li decreti del concilio non sará diminuita l’autoritá della sede apostolica e le ragioni e prerogative della chiesa romana, ma saranno accresciute e ampliate molto, sapendosi valer di questi mezzi».

Furono mossi li astanti da queste ragioni, e il papa sentí la necessitá di venir alla conferma assoluta, senza altra modificazione.

E persuaso che fosse per succedere come il vescovo rappresentava, fu risoluto di non attendere altro in contrario, ma pieno di speranza di raccoglier buoni frutti dalle fatiche fatte per finir il concilio, risolvette di confermarlo e di riservar a sé l’interpretazione, e di instituire la congregazione, conforme al raccordo del vescovo di Bestice. E conferito questo con li cardinali a parte, risolvè di venirne all’effetto. Per il che il dí 26 gennaro Morone e Simonetta in consistoro, narrato il tenore del decreto fatto nell’ultima sessione, che da loro fosse richiesta la conferma, dimandarono che Sua Santitá si degnasse confirmar tutto quello che sotto Paulo, Giulio e la Santitá sua era stato in quel concilio decretato e difinito. Il pontefice, fatto legger prima il sopra detto decreto, mandò attorno li voti de’ cardinali. Furono conformi che il concilio fosse confirmato, eccetto li cardinali San Clemente e Alessandrino, li quali dissero in quel concilio esser stata data troppo autoritá alli vescovi ed esser necessario moderarla, e allora far eccezione di quei capi che l’allargavano troppo, li quali giá erano notati. Il papa concluse in fine esser bene confirmarli tutti senza eccezione; e cosí fece in parole nel consistoro, confirmandoli e comandando che da tutti i fedeli fossero ricevuti e inviolabilmente osservati. E pubblicò quel medesimo giorno una bolla sottoscritta dai cardinali tutti, nella quale, narrate le cause della convocazione e il progresso, con li impedimenti e difficoltá di tempo in tempo attraversati, e la [p. 389 modifica] diligenzia sua in favorir la libertá di quello, concedendoli anco arbitrio libero sopra le cose reservate alla sede apostolica, ringraziò Dio che con intiero consenso se gli fosse imposto fine. Per il che, ricercato della conferma per nome della sinodo, conoscendo li decreti esser tutti cattolici e utili al populo cristiano, li ha confermati in consistoro e li conferma in quella scrittura, comandando a tutti li prelati di farli osservare, ed esortando l’imperator, re, repubbliche e principi ad assistere, per osservanzia di quei decreti, di favore alli prelati; non permettere, ma onninamente proibire alli populi loro il ricever le opinioni contrarie alla dottrina di quel concilio. E per fuggir la confusione, proibí ad ogni condizione di persone, cosí chierici come laici, il farli sopra commentari, glose, annotazioni o scolie, né interpretazione di qualsivoglia sorte; nemmeno far statuto di sorte alcuna, ancora sotto pretesto di maggior corroborazione o esecuzione dei decreti: ma essendovi bisogno d’interpretazione di alcun luoco oscuro o di qualche decisione, andassero alla sede apostolica, perché egli si riservava il dechiarare le difficoltá o controversie, come anco la sinodo aveva giá decretato.

Andò in stampa insieme con li decreti del concilio l’atto consistoriale della conferma e la bolla; le quali cose diedero da parlare, apparendo dal tenor di quelle che li decreti non avessero vigore come statuiti dal concilio, ma solo per la confermazione; onde si diceva che uno aveva veduto la causa e l’altro fatto la sentenza. Né potersi dire che il pontefice avesse prima veduti li decreti che confermatili, poiché dall’atto consistoriale appariva non aver veduto se non il decreto di chieder la conferma; che almeno in Trento s’erano fatti legger li decreti fatti sotto Paulo e Giulio; che piú conveniva che fossero confirmati da chi li aveva uditi, che da chi non aveva inteso. Al che da altri veniva risposto non esservi stato bisogno che il pontefice li vedesse, non essendo stata fatta in Trento cosa se non deliberata prima da lui. Per molti consistori seguenti parlò il pontefice per osservazione dei decreti del concilio; disse che egli stesso voleva osservarli, se ben [p. 390 modifica] non era ubbligato; diede parola di non derogarne mai, se non per evidente e urgente causa, e con consenso delli cardinali. Diede la cura a Morone e Simonetta di star attenti se in consistoro fosse proposto o trattato cosa alcuna contraria, e avvertirnelo; rimedio molto lieve per ovviare le transgressioni, perché delle concessioni che si fanno in Roma, una centesima parte non si spedisce in consistoro. Mandò li vescovi alla residenzia, e ordinò di valersi nel governo della cittá di Roma e dello stato ecclesiastico dell’opera dei protonotari e referendari.

Ma se ben il pontefice per il fine del concilio fu liberato dalla gran molestia che sentiva, restarono però reliquie in tutti li regni, che portavano nove difficoltá. Di Spagna s’ebbe avviso che il re aveva sentito con dispiacere e risentimento il fine del concilio e che aveva deliberato di congregar inanzi a sé li vescovi e agenti del clero di Spagna, per trovar modo come si doveva eseguire. E non fu l’avviso falso, perché non solamente tutto quello che si fece in Spagna nel recever ed esequire li decreti del concilio in quell’anno, parte la primavera e parte l’autunno, fu per ordine e deliberazione presa nel regio consiglio; ma alle sinodi che si fecero mandò anco il re li suoi presidenti, facendo proponer quello che a lui piacque e che compliva per le cose sue; con molto disgusto del pontefice, al quale dispiaceva che il re si assumesse tanto sopra le cose ecclesiastiche; del che però non fece alcuna dimostrazione con li ministri di quello, per il disegno ch’aveva di valersi di ciò in altra opportunitá da lui disegnata, della quale al suo luoco si dirá.

In Francia, avendo il presidente Ferrier, mentre stette in Venezia, fatto osservazioni sopra li decreti delle due ultime sessioni celebrate dopo il partir suo, e mandatele alla corte, il Cardinal di Lorena al suo arrivo ebbe molti assalti e reprensioni, come quello che aveva consentito a cose pregiudiciali al regno. Dicevano che con le parole del primo capo di riforma della penultima sessione, dicendosi che il papa ha la cura della Chiesa universale (in latino: sollicitudinem universæ Ecclesiæa ), aveva ceduto il ponto che egli e tutti li vescovi [p. 391 modifica] francesi avevano tanto tempo combattuto e superato, acciò non fosse pregiudicato all’opinione di Francia della superioritá del concilio al papa. Che egli averebbe potuto con una minima parola rimediar a questo, con far dir come san Paulo disse: «sollecitudine di tutte le chiese», che nessun averebbe negato quel modo di parlare che san Paulo usò: oltra che s’era fatto pregiudicio alla medesima opinione della superioritá del concilio con il vigesimoprimo capo dell’ultima sessione, salvando in tutti li decreti l’autoritá della sede apostolica, e con l’ultimo decreto di dimandar la conferma al papa. Se gli opponeva anco che, avendo contrastato il re e tutta la chiesa gallicana acciò quello fosse indizione d’un novo concilio e non continuazione, nondimeno s’era dechiarata continuazione e tutt’un concilio con quelli di Paulo e Giulio, nel suddetto capo vigesimoprimo e nel decreto di releggere le cose statuite sotto quei pontefici: con che si era ceduto vilmente a tutto quello che dal re era stato sostenuto due anni. Di piú dicevano che l’aver approvato le cose fatte sotto Giulio era con disonore e pregiudicio della protestazione fatta in quel tempo dal re Enrico II. Ma sopra tutto reprendevano che, essendosi fatta sotto Paulo e Giulio sempre onorata menzione speciale del re Francesco I e del re Enrico II insieme con Carlo V, il Cardinal non avesse operato che delli medesimi si facesse memoria nelle acclamazioni, quando si fece dell’istesso Carlo; e nominando l’imperator vivente, secondo quegli esempi, non avesse fatto nominar il re di Francia. Le altre cose il cardinale scusava con dire di non aver potuto, con sei prelati che erano in compagnia sua solamente, impedir il consenso di piú di duecento; ma di quest’ultima opposizione non si poteva scusare, se ben diceva che era per conservar la pace tra li due regni, essendoli replicato che poteva ben lasciar il carico di far l’intonazione ad altri, e non esser egli l’autore di quel pregiudicio. E cosí si vede che spesse volte gli uomini vani, dove credono acquistar riputazione a minuto, la perdono in grosso.

Ma li consiglieri di parlamento ritrovarono ben molte altre cose, che opponer alli capi di riforma in quelle due sessioni [p. 392 modifica] pubblicati, dove l’autoritá ecclesiastica dicevano esser stata allargata fuor dei termini, con intacco e diminuzione della temporale, con dar ai vescovi potestá di proceder a pene pecuniarie e a prese di corpo contra i laici. Perché da Cristo alli ministri suoi nessuna autoritá era stata data, se non pura e mera spirituale: che dopo, essendo il clero fatto membro e parte della polizia, li principi concessero per grazia alli vescovi di punir con pene temporali li chierici inferiori, acciò fosse osservata tra loro la disciplina; ma di poter usar tal sorte di pene contra laici non l’avevano né per legge divina né umana, anzi per sola usurpazione. E che nel capo del duello si pretende di proceder contra imperator, re e altri soprani che lo concedono nelle terre loro (e questo sotto pena di scomunica), tenendo essi che in alcuni casi il permetter duello non sia male, sí come anco il permetter il meritricio e altri delitti che, se ben mali, per pubblica utilitá, a fine di evitarne de maggiori, non è mal permetterli; e questa potestá, la qual è naturale e data da Dio alli principi, non può esser per alcuna potestá umana levata o ristretta. Lo scomunicar anco re e principi supremi lo stimavano intollerabile, avendo essi per massima costante in Francia che il re non possi esser scomunicato, né li ufficiali regi per quel che tocca all’esecuzione del loro carico. Aggiongevano appresso che il privar li principi de stati e gli altri signori de feudi, e alli privati confiscar li beni, erano tutte usurpazioni dell’autoritá temporale, non estendendosi l’autoritá data da Cristo alla Chiesa a cose di questa natura.

In quello che alli iuspatronati appartiene, dicevano gran torto esser stato fatto alli secolari in difficoltarli le prove; e tutto quel capo esser fondato sopra una falsa massima, che tutti li benefici siano liberi, se non si prova il patronato. Perché è certo in contrario che le chiese non hanno beni temporali se non dati da secolari, li quali non si debbe presupponer che l’abbiano voluto conceder sí che potesse esser maneggiato e dissipato ad arbitrio degli ecclesiastici; onde dal suo principio ogni beneficio era patronato, e si doverebbe presupponer [p. 393 modifica] tale, eccetto dove si potesse mostrar donazione assoluta con cessione totale della patronia; e sí come la comunitá o vero il principe succedono a chi non ha altro erede, cosí tutti li benefici, che non sono de iure patronatus d’alcuno, doverebbono esser sotto la patronia pubblica. Alcuni anco di essi si ridevano di quella forma di parlare che li benefici patronati fossero in servitú e gli altri liberi, quasi che non sia chiara servitú l’esser sotto la disposizione della corte romana (la qual li maneggia contra l’instituzione e fondazione), e non sotto la patronia de’ secolari che li conservano. Oltre la censura d’alcuni decreti per la suddetta causa, aggiongevano che altri erano contra le consuetudini e immunitá della chiesa gallicana. La reservazione delle cause criminali gravi contra li vescovi alla cognizione del solo pontefice dicevano levar la facoltá alli concili provinciali e nazionali, che sempre in ogni caso le avevano giudicate, e con gravar essi vescovi tirandoli a litigar fuori del regno, contra non solo il costume di Francia, ma anco li antichi canoni dei concili, che hanno voluto sempre esser giudicate e terminate le cause nelle proprie regioni. Aggiongevano esser contra la giustizia e l’uso di Francia che li benefici potessero esser gravati di pensioni o reservazioni de frutti, come obliquamente era stato determinato. Parimente non esser tollerabile che le cause di prima instanzia dal papa potessero esser levate fuori del regno, perché leva un antichissimo uso confirmato con molte constituzioni regie; né potersi giustificar per la eccezione urgente e ragionevol causa, avendo mostrato l’esperienza di tutti i tempi che con quel pretesto si levano le cause tutte; e chi vuol disputare se la causa sia urgente o ragionevole, entra in doppia spesa e difficoltá, convenendoli litigar in Roma non solo la causa principale, ma anco quell’articolo. Non approvavano in modo alcuno che fosse concesso alli mendicanti il posseder beni stabili; e dicevano che, essendo stati ricevuti in Francia con quella instituzione, non era giusto che fossero mantenuti se non in quel medesimo stato; che questo è un perpetuo artificio della corte romana di cavar de mano li beni ai secolari [p. 394 modifica] e tirarli nel clero, e poi anco a Roma, facendo prima che col pretesto di voto di povertá li monaci acquistino credito, come che non mirino a nissuna cosa temporale, ma tutto facciano per caritá a servizio del populo; doppoi, acquistato il credito, la corte li dispensa dal voto; onde facilmente arricchiscono; e fatti ben opulenti li monasteri, si mandano in commenda, e finalmente tutto cola nella corte. A questo era aggiorna l’esortazione che nel decimosecondo capo è fatta a tutti li fedeli di voler largamente sovvenire alli vescovi e parrochi dei propri beni: buona esortazione, quando servissero al populo in quello che doverebbono, e ne avessero bisogno. Cosí esser l’esortazione di san Paulo, che chi è instrutto nelle cose della fede, faccia parte dei beni suoi a chi l’instruisce. Ma quando chi porta il nome di pastore attende ad ogn’altra cosa che ad instruire il populo, l’esortazione non esser opportuna. E tanto piú, quanto che per li tempi passati li beni ecclesiastici erano per alimento dei poveri e per riscuoter schiavi, per il che non solo si vendevano li beni stabili, ma li ornamenti anco della chiesa e li vasi sacri: ma in quei ultimi tempi aversi proibito il poterlo piú fare senza il papa; il che ha arricchito il clero in immenso. Giá nella legge mosaica Iddio alli leviti, che erano la decimaterza parte del populo, aver concesso la decima, con proibizione però di poter acquistar altro di piú. Ma il clero, che non è la cinquantesima parte, aver ormai acquistato non una decima, ma una quarta parte, e tuttavia andar acquistando, con usare anco per ciò molti artifici. Giá Moisé, avendo invitato il populo ad offerir per la fabbrica del tabernaculo, quando fu offerto tanto che bastava, aver da parte di Dio proibito che non si offerisse piú: ma qui non trovarsi termine, se non quando averanno acquistato tutto, se gli uomini continueranno nel letargo. Esser vero che vi sono delli preti e religiosi poveri; ma questo avvenire perché ve ne sono di eccessivamente ricchi: un compartimento uguale li farebbe abbondantemente ricchi tutti. E pur finalmente, lasciate tutte queste cosí evidenti considerazioni, quando il concilio esortasse il populo a sovvenir li vescovi e parrochi poveri [p. 395 modifica] nelle loro necessitá, averebbe del tollerabile; ma il dire di sovvenirli acciò possino sostener la dignitá, che non vuol dir altro che il fasto e il lusso, non esser altro che un aver perso a fatto la vergogna. Vero è che in cambio s’è fatto un decreto nel decimottavo capo a favor del populo, che le dispense siano date gratuitamente; ma poiché, essendo comandato da Cristo, non se n’era potuto veder l’osservazione, non vi era speranza che questo decreto dovesse far maggior frutto.

Le qual cose essendo opposte al Cardinal di Lorena, imputandoli che le avesse autorizzate con la sua presenza, contra l’espresso comandamento fattoli dal re per lettere delli 28 agosto, delle quali di sopra si è parlato, il Cardinal si defendeva con una sola parola, dicendo che nella congregazione delli 10 novembre, leggendosi li decreti per pubblicare nella sessione degli 11, erano state reservate le ragioni e autoritá del re di Francia e li privilegi della chiesa gallicana. Al che replicava monsignor di Pibrac che da lui e dal collega era stata usata ogni diligenzia per aver copia di quel decreto, né mai l’avevano potuto avere; e che tanto era nei negozi umani non apparire, quanto non essere; oltra che quello non servirebbe niente alle cose pubblicate nell’ultima sessione. Ma quello che si diceva nelli consegli del re e del parlamento in materia del concilio, si può dir che niente fosse rispetto a quello che con libertá francese li vescovi e teologi, e anco li servidori loro, narravano a ciascuno con ogni occasione, con parole derisorie raccontando le discordie e contenzioni fra i padri, le pratiche e interessi con che le cose della reformazione furono trattate; e piú parlavano li piú familiari del Cardinal di Lorena. E passò per maniera di proverbio in Francia che il concilio moderno era di maggior autoritá che il celebrato dagli apostoli, essendo bastato a quello per fondamento dei decreti che cosí fosse parso a loro, senza che vi avesse parte lo Spirito Santo.

Ma in Germania li decreti di riforma non venivano in considerazione alcuna, né appresso protestanti né appresso cattolici. Dalli protestanti la materia di fede sola era esaminata. Dicevano che l’aver detto giá una sola parola [p. 396 modifica] incidentemente parlando della messa, che ella giovava ai morti (la qual può anco ricevere vari sensi), e nel decreto del purgatorio portarla come una difinizione di articolo formato, non era cosa solita usarsi nei concili, e massime in questo, dove le materie erano sminuccate e fatti articoli di fede d’ogni questione che si può promover in qualsivoglia materia. Ma il comandar ai vescovi di far insegnar la dottrina sana del purgatorio, senza dechiarare qual sia quella, mostrar bene che li padri avevano gran fretta di partir da Trento. E aver mostrato maggior fretta nella materia dei santi, avendo condannato undici articoli tutt’in un fiato e in un periodo, senza dechiarare che sorte di dannazione, o come di eresia, o per qual altra qualitá. E dopo un longo discorso delle immagini, aver anatematizzato chi parla in contrario di quei decreti, senza lasciarsi intender quali comprenda sotto quell’anatema: o li immediate precedenti, che delle immagini parlano, o pur gli altri soprascritti. Ma delle indulgenzie piú de tutte le altre cose era ragionato: che quelle diedero occasione alla presente divisione tra cristiani; che per quelle principalmente è stato congregato il concilio; che in quella materia non v’è parte alcuna che non sia controversa e incerta, anco appresso li scolastici: e tuttavia la sinodo abbia passato senza dirne parola, e senza dechiarar alcuna delle cose dubbie e controverse. E per quel che tocca al rimedio degli abusi, aver parlato in termini ambigui, che non lasciano intendere quello che sia né approvato né reprovato, mentre dice: «desiderare una moderazione, secondo la vecchia consuetudine approvata nella Chiesa». Imperocché è cosa certa e che non si può nascondere che nella chiesa orientale di qualonque nazione cristiana, né per li tempi passati né per li posteriori vi fu alcun uso d’indulgenzie di sorte veruna. E nella occidentale, se per vecchia consuetudine si ha da intender quella che si osservò inanzi Urbano II sino al 1095, non si saprá dire né portar fede alcuna d’indulgenzie usate; e se da quel tempo sino all’anno 1300, se ne vederá l’uso molto parco, e solamente per la liberazione delle pene imposte dal confessore. Dopo il qual tempo si vede dal [p. 397 modifica] concilio viennense gli abusi che s’introducevano, li quali sino a Leone X crescettero in immenso; onde, desiderando la sinodo veder restituita la vecchia consuetudine approvata nella Chiesa, era necessario dechiarar in qual Chiesa e in qual tempo. Ma quelle parole, «che con la troppa facilitá nella concessione delle indulgenzie è snervata la disciplina ecclesiastica», dicevano esser una espressa confessione che non pertengono alla conscienzia, né liberano da cosa alcuna appresso Dio, ma toccano il solo esterno, che è la disciplina ecclesiastica. Della differenzia de’ cibi e delli digiuni dicevano che il commendarli era cosa buona, ma non era deciso quello di che il mondo tanto s’era lamentato, cioè che si pretendesse ubbligazione in conscienzia. I principi però di Germania protestanti di questo concilio non tennero conto alcuno: solo alcuni ministri della confessione augustana, pochi anco in numero, mandarono in pubblico una protestazione, della quale fu fatta poca stima.

Li cattolici ai dogmi del purgatorio e delle indulgenzie non pensavano: solo erano intenti ad impetrare la comunione del calice, il matrimonio de’ preti e relassazione nella moltiplicitá dei precetti de iure positivo intorno a’ digiuni e feste, e altre tal cose. Ai quali per dar sodisfazione, l’imperatore e il duca di Baviera fecero instanzia appresso il pontefice. Scrisse l’imperator lettere alla Santitá sua sotto il 14 febbraro, con dire che durante il concilio s’era affaticato per ottenere la concessione del calice, non per interessi privati né per scropoli di conscienzia che egli avesse, ma perché credette e tuttavia credeva che fosse necessaria per ridur alla Chiesa li sviati. Che tollerò gl’impedimenti allora frapposti per trattarne con li principali prelati e principi dell’Imperio; con quali avendo conferito se fosse ispediente far altra instanzia per la medesima richiesta, essi lodarono che ne trattasse di novo con Sua Santitá. Per il che, raccordandosi quello che li cardinali Morone e Lorena gli avevano fatto dire, e li era confermato dal vescovo di Liesina, noncio per nome di Sua Santitá, non voleva differir piú a dimandarli la grazia, senza replicar piú le gravissime cause che lo costringevano: instando che vogli [p. 398 modifica] aiutar la nazione germanica, alla quale tutti li cattolici prudenti giudicano che la concessione sará di gran beneficio. Aggiungendo che, per conservar le reliquie della religione nell’Imperio e per estirpar l’eresie, apporterá gran momento il concedere che quei sacerdoti, che per maritarsi si sono separati, possino esser reconciliati, retenute le mogli; e che all’avvenire, dove non vi sono preti a sufficienzia, siano admessi al sacerdozio maritati di buona vita e fama; di che lo pregava per nome proprio e del duca di Baviera suo genero, accertandolo che farebbe cosa degna della pietá sua, e a lui gratissima.

Le lettere del duca di Baviera contenevano che, avendo piú volte mandato alla Santitá sua esponendo il miserabil stato della Germania nelle cose della religione, sperava di non aver a desiderar longamente la medicina; la qual non vedendo porta sino allora, egli, insieme con la Maestá cesarea e li elettori ecclesiastici, la pregava di conceder all’arcivescovo di Salzburg di poter dispensar li preti cattolici a ministrar il calice alli confessi e contriti e che credono gli altri articoli della religione; la quale concessione satisfarebbe alli sudditi suoi abitanti nello stato, e anco a quelli che escono fuori del suo dominio per cercar chi glielo ministri. Che egli si contenterá sempre di una specie, né mai sforzerá all’uso del calice quelli che si contenteranno, come lui, della sola specie del pane; per li quali non dimanda niente, ma ben li pare che non sia inconveniente al vicario di Cristo aver misericordia anco degli altri. Pregò ancora Sua Santitá che almeno per qualche tempo concedesse che si potessero reconciliar alla Chiesa li sacerdoti maritati, ritenendo le loro mogli, e ordinar anco delli maritati.

A queste lettere era aggionta una remostranza o considerazione, composta dalli teologi cattolici di Germania, nella quale si diceva esser cosa chiara che la Scrittura del novo e vecchio Testamento permette le mogli ai sacerdoti, perché gli apostoli, eccettuati forse pochi, furono maritati; né si trova che Cristo, dopo la vocazione, li abbia fatti separar dalla moglie. Che nella Chiesa primitiva, cosí orientale come [p. 399 modifica] occidentale, li matrimoni de’ sacerdoti furono liberi e leciti sino a papa Calisto; che le leggi civili non condannano il matrimonio de’ chierici; esser anco certo che il celibato nel clero è migliore e piú desiderabile, ma, per la fragilitá della natura e per la difficoltá del servar la continenzia, pochi si trovano che non sentino li stimoli carnali. Però narra Eusebio che Dionisio di Corinto ammoní Pinito vescovo che tenisse conto della debolezza della maggior parte e non ponesse il peso del celibato sopra li fratelli. E Pafnuzio nel concilio niceno, dicendo che l’uso della propria moglie era castitá, persuase il concilio a non impor legge di celibato. E la sesta sinodo costantinopolitana non proibí l’uso delle mogli, se non nel tempo che avevano ad offerire sacrificio. Che se mai vi fu causa di permettere a’ chierici il matrimonio, era in quel secolo, che di cinquanta sacerdoti cattolici, appena se ne trova uno che non sia notorio fornicario; che non tanto li sacerdoti desiderano il matrimonio, ma li secolari ancora, per non veder quella bruttezza di vita; e li patroni delle chiese non vogliono dar li benefici se non a’ maritati. Che vi è gran mancamento di ministri per la sola proibizione del matrimonio; che la Chiesa altre volte per questa stessa causa ha relasciato la severitá dei canoni; che il pontefice confirmò un vescovo in Saragosa con moglie e figliuoli e un diacono bigamo, e commise il sacramento della confirmazione a semplici preti in mancamento di vescovo. Per il che a molti cattolici, e giá e allora, pareva meglio dispensar la legge della continenzia, che col retenerla aprir la fenestra ad un immondissimo celibato, lasciando in libertá il matrimonio, massime che il Cardinal Panormitano tiene che il celibato non sia de sustanzia dell’ordine né de iure divino, e che sarebbe per salute delle anime concedere il matrimonio. Ed esservene esempio della Chiesa vecchia nel concilio ancirano, e di Adam ed Eupsichio cesariense, preti; esser cosa certa che il papa può dispensare quanto ai sacerdoti secolari, il che alcuni anco estendono alli regolari. Che par grand’assurditá non admetter chierici ammogliati e tollerar li fornicari; e il voler rimover ambidui esser [p. 400 modifica] un voler restar senza ministri; e volendo astringerli al voto di castitá, non bisognerebbe ordinar se non vecchi. Non esser buona ragione ritener con li denti il celibato per conservar i beni ecclesiastici, non essendo giusto per beni temporali far tanta iattura delle anime; oltre che se vi potrebbe provveder per altra maniera. Che se questo si facesse, sarebbe espulso dalla Chiesa il concubinato e levato il scandolo che offende molti.

Attese queste remostranze, il pontefice era di parere di congregar in Roma uomini pii e letterati di tutte le nazioni per trattar questo ponto con maturitá; e giá ne aveva parlato con li ambasciatori appresso sé residenti. Ma dal Cardinal Simonetta fu dissuaso, il quale raccordò che quella sarebbe una specie di concilio; e se di Spagna, Francia e Germania e d’altrove fossero venuti, averebbono portato intelligenzie e istruzioni de prencipi, e per rispetti di quelli si sarebbono governati e averebbono parlato; e quando la Santitá sua avesse voluto disfarsi di loro e licenziarli, non averebbe potuto farlo a suo beneplacito: che se non avesse seguito il parer loro, sarebbe stato con disgusto dei principi: raccordassesi le molestie sustenute per causa del concilio e non si mettesse in simil pericoli. Approvò il papa questo conseglio per sincero e utile, e posto da canto il pensiero di ridur per questo persone d’altrove, deputò sopra ciò diciannove cardinali, a’ quali ordinò che diligentemente esaminassero la scrittura venuta di Germania.

11 12 marzo fece il pontefice promozione di diciannove cardinali, per fine principale di remeritar quelli che in concilio s’erano adoperati virtuosamente, e massime in servizio della sede apostolica. Nella quale fu risoluto di non comprender alcuno di quelli che tennero la residenzia o l’instituzione dei vescovi esser de iure divino, con tutto che del rimanente avessero le qualitá che, secondo il costume, lo meritavano; e non si guardò di scoprir questa sua mente con ogni sorte di persona in qualonque occasione. Creò Marc’Antonio Colonna arcivescovo di Taranto, Alvise Pisani vescovo di Padoa, [p. 401 modifica] Marc’Antonio Bobba vescovo d’Aosta, Ugo Buoncompagno vescovo di Bestice, Alessandro Sforza vescovo di Parma, Simon Pasqua vescovo di Sarzana, Carlo Visconte vescovo di Vintimiglia, Francesco Abbondio [Castiglione] vescovo di Bobbio, Guido Ferrier vescovo di Vercelli, Giovanni Francesco Commendone vescovo del Zante, Gabriel Paleotto auditor di rota: che tutti s’erano affaticati nel concilio in servizio fidele di Sua Santitá. A questi aggionse Zaccaria Delfino vescovo di Liesena, che, noncio all’imperatore, non si affaticò manco per metter fine al concilio, di quello che gli altri avevano fatto in Trento.