Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo X
Questo testo è completo. |
◄ | Libro ottavo - Capitolo IX | Libro ottavo - Capitolo XI | ► |
CAPITOLO X
(12-30 novembre 1563).
[II re di Francia approva la protesta ed il ritiro dei suoi ambasciatori dal concilio. Sua azione in difesa della regina di Navarra e dei vescovi calvinisti.— Accordi a Trento per ultimare il concilio in una sessione. Difficoltá suscitate dal conte di Luna. — Riunione presso il Morone. Disputa sull’estensione da darsi all’anatema agli eretici. — Nuove discussioni in congregazione. — Il capitolo dell’esenzione dei capitoli cattedrali dai vescovi suscita ostilitá negli spagnoli. — Richiesta dei veneziani sui giuspatronati. — Disputa se chiedere, e come, la conferma del papa all’operato del concilio. — Vano tentativo del Lorena di fare ritornar gli ambasciatori francesi. — In congregazione si esamina la dottrina del purgatorio, dell’invocazione dei santi e venerazione delle immagini, degli ordini religiosi, delle indulgenze, dei libri liturgici ecc. — Estremo tentativo del conte di Luna e del Vargas per ritardare la fine del concilio.]
In questi tempi, oltre l’avviso della sessione tenuta, erano arrivate in Francia tre nove, ricevute con disgusto. Prima, la risposta del papa sopra li centomila scudi d’entrata; poi, quella della protesta fatta in concilio e alterazione ricevuta per quella a Trento e a Roma; e finalmente la sentenzia contra li vescovi, con la citazione della regina di Navarra. Sopra le qual cose fecero li francesi gran refíesso; e risolverono di non parlar piú col pontefice per aver grazia di quell’alienazione, ma mandar in esecuzione l’editto regio verificato dal parlamento, senza altro consenso del papa. Il che essendo eseguito con grandissima celeritá, cosí perché gli uomini non si risolvono facilmente a spender il danaro con prestezza, come per uffici che gli ecclesiastici facevano (mettendo in considerazione che li contratti nei tempi seguenti non sarebbono stimati validi, mancando la conferma del papa), pochi compratori si trovarono. Il che però non cesse né a beneficio del re né a favor del clero, ma solo seguí che la vendita fu fatta a prezzo basso, né si cavò piú di doi milioni e mezzo di franchi; somma molto piccola all’importanza delle cose alienate, poiché la vendita fu a dodici per cento, che sarebbe anco stato a prezio vile quando si fosse venduta a ventiquattro. Ed è cosa degna che ne sia fatta memoria qui, che fra li beni alienati uno fu la giurisdizione che l’arcivescovo di Lione aveva sin allora tenuto sopra quella cittá, la qual fu venduta all’incanto e applicata al re per trentamila lire di franchi; se ben, per l’indoglienze che il vescovo fece, li fu poi aggionto per supplemento del prezio un’entrata di quattrocento scudi.
Intorno alla protestazione fatta in concilio scrisse il re agli ambasciatori suoi con lettere delli 9 novembre che, avendo veduto quello che il Cardinal di Lorena gli aveva scritto contra la loro protesta, e la relazione del vescovo d’Orliens di tutte le cose fatte in Trento, aggradiva la protesta e la retirata loro a Venezia; comandava che Ferrier non si partisse di lá sino a novo ordine suo, il qual sarebbe quando avesse avviso che li articoli fossero riformati in maniera che non fossero poste in controversia le sue ragioni regie e della chiesa gallicana. E al Cardinal di Lorena scrisse che egli col suo conseglio avevano conosciuto li suoi ambasciatori aver fatto la protestazione con grande e giusta occasione; perché sí come egli voleva perseverar nell’unione e obedienzia della Chiesa, cosí voleva insieme inviolabilmente conservar le ragioni della sua corona, senza permettere che fossero revocate in dubbio né in disputa, né sottomettersi a mostrarle. Che non si pensasse di sodisfarlo con dire in fine: «salve e reservate le ragioni», volendo sotto questo color obbligarlo a farne constare, perché a questo si opponerá. Che quando esso cardinale averá veduto gli articoli come furono proposti, giudicherá che li ambasciatori non potevano altramente fare che formar l’opposizione; che averebbe ben desiderato che gli ambasciatori gliel’avessero mostrata prima, ma esser iscusabili per l’occasione repentinamente nata, e per le circostanzie che la produssero, e per li suspetti che constringevano a dubitare di qualche artificio per precipitar la decisione. E se il papa non aveva intenzione che fossero toccate e messe in disputa le ragioni dell’imperatore e re, come il Cardinal li fa intendere, conviene che la Sua Santitá drizzi il suo dispiacere contra li legati, che hanno proposto gli articoli con nominar re, imperatore e repubbliche, e non contra gli ambasciatori. Che stima la protesta dover esser giustificata appresso tutta la cristianitá, quando gli articoli saranno veduti. Che avendo li legati proposti quegli articoli contra l’intenzione di Sua Santitá, non è da remettersi piú alla loro discrezione, né far tornar gli ambasciatori, sin che non s’abbia intiera sicurezza che di quelli non s’abbia a parlar piú: che allora egli comanderá agli ambasciatori di ritornar al concilio.
Sopra la citazione e sentenzia diede ordine il re a Enrico Clutin monsignor d’Oissel di parlar al pontefice e dirli che la Maestá sua aveva inteso con gran dispiacer quello che non credette per la fama sparsa, ma solo dopo, per aver visto copia delli monitori affissi in Roma: che si avesse proceduto contra una regina in quella maniera. Che egli era obbligato a defenderla, prima, perché la causa e il pericolo di quella era comune a tutti li re, perciò tenuti ad aiutarla come in causa appartenente a tutti; ma tanto piú per esser vedova; e l’obbligo di esso re di Francia esser maggiore per il stretto parentato che ha con lei per ambedue le linee e per la agnazione col marito, il quale poco tempo inanzi era morto in guerra contra li protestanti, e lasciati li figliuoli pupilli. Per il che non poteva abbandonar la causa di quella, seguendo li esempi delli suoi maggiori, e massime che non debbe comportar che nessuno faccia guerra sotto pretesto di religione ai suoi vicini; aggiongendo che non era cosa pia metter in pericolo di crudelissima guerra per questa causa li regni di Spagna e di Francia, congionti nuovamente in amicizia. Aggionse ancora che, avendo quella regina molti feudi in Francia, per le ragioni e privilegi di quel regno non poteva esser costretta a comparir, né in persona né per procurator, fuori: soggionse molti esempi di principi e pontefici che hanno proceduto con la debita e legittima moderazione. Toccò la forma della citazione per editto come cosa inaudita all’antichitá e inventata da Bonifacio VIII, e, come troppo dura e ingiusta, moderata da Clemente V nel concilio viennense; soggiongendo anco che in ogni evento non possono tali citazioni aver luoco, se non contra gli abitanti dove non è sicuro accesso; e abitando la regina in Francia, era grand’ingiuria fatta a lui e al regno l’usar un tal modo: sí come anco con gran sua ingiuria essere che siano esposti in preda e concessi agli occupatori li feudi che ella teniva in Francia, il diritto de’ quali appartiene a lui; con maraviglia d’ognuno che la Santitá sua, la qual favorì cosí affettuosamente la causa d’Antonio re quando viveva appresso il re di Spagna, ora vogli opprimer la prole e la vedova di quello. Ma sopra tutto si lamentò il re che, avendosi partito dalla chiesa romana da quaranta anni sino allora tanti re, principi e cittá, non si sia proceduto cosí con alcun altro; il che ben mostra che non sia stato fatto per la salute dell’anima della regina, ma per altri fini. Si raccordasse il pontefice che gli era concesso potestá per salute delle anime, e non per privar li principi delli stati, né per ordinare altra cosa nelle possessioni terrene; la qual cosa, tentata da loro altre volte in Germania, è successa con gran danno della quiete pubblica. Pregò il pontefice che revocasse gli atti intentati contra la regina, passando alle proteste che altrimenti si valerá delli remedi usati dalli suoi maggiori. Si dolse ancora della causa dei vescovi, e comandò all’ambasciatore che, esplicati li esempi vecchi e narrate le libertá e immunitá della chiesa gallicana e l’autoritá delli re nelle cause ecclesiastiche, pregasse il pontefice di non voler al presente far tante novitá. Monsignor d’Oissel fece l’ufficio con veemenzia, e dopo molte trattazioni col pontefice ottenne che non si parlò piú né della regina di Navarra né delli vescovi.
Ma in Trento, finita la sessione, e ben concertate le cose tra li legati e Lorena, comunicato anco il negozio con li principali e capi dei pontifici, che erano Otranto, Taranto e Parma, e con li ambasciatori cesarei, Lorena incominciò a sparger semi del disegno preso che con una sessione ancora il concilio si finisse. Diceva che egli non poteva esser in Trento per Natale; che era costretto, e lui e tutti li vescovi francesi, a partire inanzi quel tempo; che desiderava ben veder il concilio finito, e li sarebbe dispiaciuto lasciar cosí onorata adunanza; ma non poteva far altro, avendo avuto comandamento di cosí fare. Li ambasciatori cesarei ancora pubblicarono per tutto il concilio che l’imperator sollecitava l’espedizione, e che il re de’ romani scriveva che si finisse per sant’Andrea, o vero al piú longo onninamente nel principio del mese seguente. E veramente quel re, non per far piacer al pontefice, ma perché cosí sentiva, sollecitava l’espedizione, perché dovendosi far una dieta, non voleva che vi fossero ambasciatori del padre al concilio; e diceva che quando quello fosse chiuso, le cose della religione in Germania sarebbono andate assai meglio.
Le qual cose essendo intese dalla maggior parte dei padri con molto piacere, il 15 di novembre il Cardinal Morone fece una congregazione in casa sua. Chiamati li legati e li due cardinali e venticinque vescovi, scelti i piú principali delle nazioni, propose che, essendo stato congregato il concilio per i bisogni di Germania e Francia, e facendo allora instanzia l’imperatore e il re de’ romani e il Cardinal di Lorena e tutti li principi che vi si ponesse fine, dicessero il parer loro circa il finirlo e circa il modo. Il Cardinal di Lorena disse che il finirlo era necessario, per non tener piú suspesa la cristianitá e chiarir li cattolici di quello che dovevano credere, e per levar l’Interim di Germania, il quale essendo stabilito a dover durare sino alla fine del concilio, non si può in altra maniera levare; e il continuarlo piú longamente esser con detrimento della chiesa cattolica; che bisognava anco finire il concilio per ovviare che in Francia non se ne faccia un nazionale. Quanto al modo, disse che si potrebbe finir con una sessione, trattando in quella il rimanente della riforma e dando ispedizione al catechismo e all’indice de’ libri proibiti, che giá erano in ordine, e rimettendo al papa le altre cose che rimanessero, senza disputar gli articoli delle indulgenzie e immagini: non si facessero anatemi contra particolari eretici, ma si passasse con termini generali. Del finir il concilio in qualche modo tutti assentirono, salvo che l’arcivescovo di Granata, il qual disse che si rimetteva all’ambasciator del suo re. Fu proposto da alcuno che non si poteva darli fine assoluto, poiché restavano tante materie da trattare, ma che si potesse farlo con intimarne un altro dopo dieci anni, il che averebbe ser;ito per impedire che le provincie non facessero concili nazionali, e per rimetter a quel tempo la determinazione delle cose che restassero, e anche l’anatematizzare. Il vescovo di Brescia propose che si trovasse un modo medio tra il metterli compito fine e la suspensione, perché il finirlo sarebbe stato desperare li eretici, e il suspenderlo non satisfare li cattolici. Ma questi pareri non ebbero seguito, aderendo gli altri a quello che il cardinale detto aveva.
Del modo, l’arcivescovo d’Otranto disse che l’anatematizzar gli eretici era cosa necessaria e usata da tutti li concili; anzi che in quello sta l’opera che dalle sinodi si ricerca, perché molti non sono capaci d’intendere la veritá o falsitá delle opinioni col proprio giudicio, quali solamente le seguono o le aborriscono per il credito o discredito degli autori. Che il concilio calcedonense, pieno d’uomini dotti, per chiarirsi se Teodoreto vescovo di Ciro, che era dottissimo, era cattolico o no, volendo egli render conto della fede, non volse ascoltar altro, ma solamente ricercò che dicesse chiaramente anatema a Nestorio: che se in quel concilio non anatematizzassero Lutero e Zuinglio e altri capi giá morti, e de’ viventi quelli che seguono la loro dottrina, si potrebbe dire il concilio aver operato in vano. Replicò il cardinale che altri tempi ricercano altri consegli: allora le differenzie della religione erano tra i vescovi e i preti; li populi venivan per accessorio, e li grandi o non se ne intromettevano, o, quando pur aderivano a qualche eresia, non se ne facevano capi. Adesso esser tutto in contrario: li ministri e predicanti de eretici non potersi dir capi di setta, ma piú tosto li principi, agli interessi dei quali li predicatori e maestri loro s’accomodano. Chi vorrá nominar li veri capi de eretici, converrá nominar la regina d’Inghilterra, la regina di Navarra, il principe di Condé, l’elettor palatino di Reno, l’elettor di Sassonia e molti altri duchi e principi di Germania. Questo sará causa di farli unir insieme e risentirsi; il che non potrá esser senza qualche scandolo; e chi proponesse anco la dannazione dei soli Lutero e Zuinglio li irriterebbe talmente che nascerebbe qualche gran confusione. Però, accomodandosi non a quello che si vorrebbe, ma a quello che si può, esser miglior risoluzione quella che uscirá manco fuori dell’universale.
Morone mandò a chiamare gli ambasciatori ecclesiastici; a’ quali comunicata la proposta e il parere delli congregati, essi ancora assentirono al fine e al modo, secondo il voto di Lorena. Fu col parere di tutti mandato a comunicare la resoluzione agli ambasciatori secolari, da’ quali tutti fu assentito, eccetto che dallo spagnolo, il qual rispose di non avere l’espressa volontá del re, ma ben ricercare che s’interponi tempo tanto che possi averla. Questo non ostante, li legati, risoluti di metter in esecuzione la deliberazione fatta, diedero fuora il capo dei principi, tralasciati li anatemi e tutti gli articoli particolari, rinnovando solo li vecchi canoni della libertá e giurisdizione ecclesiastica, e parlando dei principi con molta reverenzia, con solo esortarli a far opera che i loro ministri non le violassero. Quell’istesso giorno fu fatta congregazione la sera per dar principio a parlar della riforma, e preso ordine che si farebbono due congregazioni al giorno, sin tanto che li voti fossero detti.
Nelle congregazioni li voti si dicevano con grandissima brevitá e resoluzione, salvo che da una poca parte delli spagnoli, li quali desideravano metter impedimento, dove gli altri tutti si sforzavano con la brevitá di promuovere l’espedizione. La maggior difficoltá fu sopra il capo sesto della soggezione delli capitoli ai vescovi, per il grande interesse non solamente delli medesimi vescovi, ma anco del re in diminuir l’autoritá capitolare, acciò non potessero metter difficoltá alli sussidi che in Spagna vengono spesso imposti; e dall’altro canto per i favori che dalli legati erano prestati alli capitoli, per li quali, e per le ragioni che si adducevano, molti delli italiani, che prima parevano a favore delli vescovi, si erano mutati a favore delli capitoli. Mandò per questo il conte di Luna un corriero in diligenzia a Roma, per avviso del quale l’ambasciator Vargas fece ufficio col pontefice per la causa dei vescovi. E rimettendosi il papa, secondo il suo costume, al concilio, si dolse l’ambasciatore che li prelati italiani erano stati praticati a mutar voto in quella materia; a che il papa prontamente disse esser mutati, perché sono liberi; ma che l’agente dei capitoli non si era partito dal concilio con libertá, essendo stato scacciato: e si dolse con quell’occasione che il conte di Luna facesse uffici in Trento, acciò non si mettesse fine al concilio. Scrisse con tutto ciò il pontefice secondo la richiesta dell’ambasciatore, ma però con termini che non disfavorivano le pretensioni dei capitoli. E fu finalmente formato il decreto, con qualche aumento dell’autoritá episcopale in Spagna, se bene non quanto desideravano.
Li ambasciatori veneti fecero instanzia che nel capitolo dei iuspatronati, essendo eccettuati quelli dell’imperatore e re, fossero anco eccettuati quelli della repubblica loro. Avevano desiderio li legati di compiacerli, ma fu difficile trovar modo, perché l’eccettuare tutte le repubbliche era una troppo grand’ampiezza, e il nominarla specificatamente pareva materia di gelosia. Trovarono temperamento di comprenderla nel numero dei re, con dechiarare che fra quelli sono compresi li possessori de regni, se bene non hanno il nome.
Nella congregazione delli 20 fu proposto di dimandare la conferma al papa di tutti i decreti del concilio, tanto fatti sotto Paulo e Giulio, quanto sotto la Santitá sua. L’arcivescovo di Granata promosse difficoltá, con dire che nella decimasesta sessione, la qual fu l’ultima sotto Giulio, quando il concilio fu suspeso, fu insieme ordinato che fossero osservati tutti li decreti sino allora statuiti dalla sinodo, senza aver detto che vi fosse alcun bisogno di conferma; onde il dimandar di quelli conferma dal sommo pontefice non esser altro che condannar quei padri, quali allora giudicarono che senza conferma alcuna potessero esser messi in esecuzione: soggiongendo che da lui non era detto perché non approvasse il richieder la conferma, ma acciocché, considerata l’opposizione, si trovasse modo di usar parole non pregiudicanti. L’arcivescovo d’Otranto rispose che il decreto nominato da Granata non solo non favoriva l’opposizione che egli ne cavava, che anzi la risolveva, mostrando chiaramente che non aveva le ordinazioni fatte per obbligatorie, poiché non comandava, ma semplicemente esortava che fossero ricevute e osservate: di che non si doveva allegar altra causa che il mancamento della conferma. Si quietò il Granata; e fu deliberato di dimandar la conferma, come era proposto di consenso comune. Ma nel modo fu qualche differenzia. Ad una gran parte non piaceva che il concilio dimandasse la conferma e senza aspettar risposta si dissolvesse, allegando che non sarebbe con dignitá né della sede apostolica né del concilio, e che parerebbe un accordo fatto tra questo e quella; perché altrimenti, quando alcuna cosa non fosse confermata, convenirebbe pur che la provvisione fosse fatta dal medesimo concilio. A’ quali (che molti erano) per sodisfare, il Cardinal Morone averebbe voluto che nella sessione delli 9, la quale per la moltiplicitá delle materie stimavano che dovesse durar tre giorni, nel primo giorno si spedisse corrier per dimandar la conferma, al ritorno del quale si facesse un’altra sessione senza altra azione che di licenziar la sinodo. Ma questo parere aveva anco assai contrarietá, perché, se si voleva che il papa immediate, senza veder ed esaminar li decreti, venisse alla conferma, tornava la difficoltá medesima; se con esaminargli, si ricercava tempo di mesi. Finalmente il Cardinal di Lorena considerò alli padri che queste difficoltá erano per allongar il concilio; che egli e li francesi erano costretti ritornarsene o finito o non finito il concilio, ché cosí avevano ordine dal re: e partiti tutti essi, il concilio non si potrebbe chiamar generale, mancando una nazione; onde resterebbe diminuito di dignitá e d’onore, e potrebbe eccitar concili nazionali e altre difficoltá. Questa mezza protesta, aggiorni li uffici delli cesarei per l’espedizione, fu causa che, dopo aver posto questo in deliberazione piú volte, si risolvè di dimandar la conferma e licenziar la sinodo nella medesima sessione.
Il Cardinal di Lorena scrisse a Venezia in diligenzia all’ambasciator Ferrier che, essendo accomodato il capo dei principi, dovesse tornar a Trento. Il qual rispose di non poterlo fare, se non aveva particolar commissione di Francia, poiché per le lettere dei 9 il re aveva scritto a lui e anco ad esso cardinale che, quando il decreto fosse stato acconcio ed egli avvisato, averebbe rimandato l’ambasciatore; per il che a lui era necessario aspettar ordine di Sua Maestá. Ma tuttavia scrisse al re che non aveva stimato bene per il suo servizio il tornarci, perché le ragioni regie e libertá della chiesa gallicana erano violate ancora in altri decreti pubblicati in quella sessione.
Ridotta la reforma a buon termine, fu data cura al Cardinal varmiense con otto prelati di formar il decreto di purgatorio, e invocazione, venerazione, reliquie e immagini de’ santi; e quantonque avessero tutti questi fine di non metter a campo cose di difficoltá, non erano concordi. Volevano alcuni di essi far menzione del luoco e del fuoco, come nel concilio fiorentino. Altri dicevano che, non essendo questo senza difficoltá, né essendo cosa riuscibile il trovar parole da esprimerlo che diano sodisfazione a tutti, meglio era non dir altro se non che le buone opere de’ fedeli giovano alli morti per remissione delle pene. L’arcivescovo di Lanciano raccordò che, trattandosi della messa, si era fatta menzione che quel sacrificio è offerito per i defonti in Cristo non intieramente purgati, per le qual parole la dottrina del purgatorio era assai difinita; onde non occorreva altro fare se non ordinare ai vescovi che la facessero predicare e levassero gli abusi, avendo anco cura che non si manchi dei suffragi debiti per i defonti. E in questa sentenzia fu formato il decreto.
Nella materia dei santi furono facilmente concordi nel condannar particolarmente e specificatamente tutte le opinioni contrarie agli usi della chiesa romana. Delle immagini vi fu un poco di differenza, perché l’arcivescovo non voleva che altro onor li fosse debito, se non per relazione alla cosa significata; ma il general Lainez, che era un altro delli formatori, aggiongeva che oltra quell’onore, quando sono dedicate e poste in luoco d’adorazione, gli conviene un’altra venerazione propria a loro, oltra l’adorazione che si presta al santo venerato in quelle, chiamando questa adorazione relativa, e quella obiettiva. Provava il suo parere, perché li vasi e vesti sacrate sono degne di una reverenzia pur propria a loro per ragione della consecrazione, se ben non rappresentano santo alcuno; e cosí all’immagine dedicata, oltra la ragione della rappresentazione, è debita un’adorazione per ragion della dedicazione. Il Cardinal varmiense per sodisfazione d’ambi li pareri concluse che quel dell’arcivescovo si dovesse esprimere come facile e chiaro, senza però metter parole che potessero pregiudicar all’altro.
Furono ancora deputati, per riveder la reforma de’ frati e monache, alquanti prelati oltra quelli che l’avevano composta, e insieme a loro aggionti li generali. Nella qual congregazione altro non fu mutato, se non che, essendo generalmente concesso nel terzo a tutti li monasteri de’ regolari mendicanti di posseder beni immobili, se ben l’instituzione loro è contraria, fra’ Francisco Zamora, general dei minori osservanti, fece instanzia che l’ordine suo fosse eccettuato, allegando che intendeva di vivere secondo la regola di san Francesco, dalla quale non era giusto esentar quelli che non lo dimandavano. E gli fu dato sodisfazione eccettuando il suo ordine: e li cappuccini ancora, facendone instanzia fra’ Tomaso da Cittá di Castello, loro generale. Anco il general Lainez fece instanzia che fosse eccettuata la compagnia di Gesú, dicendo che, quantonque li collegi, essendo deputati per trattenimento delli scolari non ancora fatti religiosi, possino goder beni stabili, però le case professe, nelle quali essenzialmente la societá consiste, non possono viver se non di mendicitá e senza possessione di qualsivoglia stabile. Fu facilmente compiaciuto; ma il giorno seguente ritornò e ricercò che fosse levata quell’eccezione, dicendo che la societá sua era per conservarsi perpetuamente nella pura mendicitá in le case professe, ma non si curava di averne quest’onor appresso il mondo; bastargli il merito appresso Dio, il qual sará tanto maggiore, quanto, potendosi valer dell’abilitá fatta dal concilio, non se ne valeranno mai. Questa deliberazione fu presa per comun resoluzione di tutti quattro li gesuiti che erano in concilio, proposta dal padre Torres, il qual disse che, cosí facendo, sarebbono stati in libertá di valersi o non valersi della concessione del concilio, secondo l’opportunitá.
Nel decimoquinto capo era statuito che la professione non si facesse inanzi diciotto anni finiti, e il noviziato durasse almeno due anni, in qualonque etá il novizio fosse entrato. A che tutti li generali si opposero, dicendo che non era giusto impedir l’ingresso della religione a nessuno capace di conoscer quello che li voti regolari importino; che questa capacitá era stata dalla Chiesa giudicata nel decimosesto anno in tempo che il mondo non era tanto svegliato; che ora piú tosto conveniva abbassar, che inalzar l’etá: la qual ragione adoperavano anco contra il biennio del noviziato. In fine, poiché s’attendeva a dar sodisfazione a tutti, deliberarono di sodisfar anco li generali e non innovar niente in questa parte.
Oltre li ventidue capi, un altro vi era, nel quale si concedeva alli provinciali, generali e capi degli ordini di poter scacciar fuori dell’ordine e privar dell’abito li incorriggibili; contra il quale Giovanni Antonio Fachinetto, vescovo di Nicastro, si oppose acremente, con dire che la professione e l’atto di admetter a quella sono un contratto scambievole e come un matrimonio, per quale il monasterio è ubbligato al professo e il professo al monasterio; e sí come questo non poteva partire, cosí quello non poteva scacciarlo; e che con quel decreto s’averebbe fatto sí che tutte le cittá sarebbono piene di frati espulsi, con scandolo grave del secolo. In contrario l’arcivescovo di Rossano diceva non esser la relazione che è tra il marito e moglie, ma quella che tra padre e figlio; e al figlio non esser mai lecito rifutar il padre, ma il padre poter enancipar il figlio, massime disubidiente; ed esser minor male veder nelle cittá frati espulsi, che nelli monasteri incorriggibili. Li generali non erano tutti d’un parere: li perpetui sentivano l’espulsione, li temporali volevano che fosse proibita. Ma, secondo il costume della moltitudine quando delibera, inclinò la maggior parte a lasciar le cose nello stato che erano, e non decretare né per Luna né per l’altra parte. Ma in quella consulta fu spesse volte e da molti replicato che il populo riceveva gran scandolo, vedendo uno portar l’abito da religioso piú anni, e poi farsi secolare. Questo mise a campo la professione tacita, e fece entrar in trattazione se si doveva dechiararla valida, sí come sino a quell’ora era stata, o pur dechiarare che nessuna professione astringa, se non l’espressa. Ebbe anco questo le sue difficoltá, per temperamento delle quali fu trovato questa risoluzione: che il prelato religioso, finito l’anno della probazione, fosse tenuto o licenziar il novizio o admetterlo alla professione. E questo fu aggionto nel capo sesto come in luoco conveniente.
Il general Lainez commendò sommamente il decreto come necessario, ma ricercò che la sua societá ne fosse eccettuata, allegando esser diversa la condizione di quella dagli altri ordini regolari. In quelli per antichissima consuetudine e approbazione della sede apostolica aver luogo la professione tacita, che nella sua societá è proibita; cessar la causa dello scandolo, che può aver il popolo dagli altri vedendoli in abito secolare dopo aver portato il religioso longamente, per non esser l’abito dei gesuiti distinto dal secolare; aver ancor la societá sua confirmazione dalla sede apostolica che il superiore possi admetter alla professione dopo longo tempo, cosa che nessun regolare ha mai avuto. Tutti inclinarono a favorirlo con far l’eccezione; nel destender la quale il padre contese che le regole del parlar latino volevano che si esprimesse per plurale, dicendo che «per queste cose la sinodo non intende alterar l’instituto dei gesuiti, ecc.». E non fu considerato che quel modo di parlare poteva riferirsi cosí a questo solo admetter o licenziare li novizi in capo d’anno, come anco a tutto il contenuto nel capo decimosesto, e anco si potesse riferire a tutte le cose contenute nelli sedici capi. Ma il padre si seppe valer della poca avvertenza degli altri, gettando un fondamento, sopra quale li gesuiti seguenti potessero fabbricare la singolaritá che si vede nella societá loro.
La congregazione delli 22 versò sopra le indulgenze. La difficoltá e longhezza della materia induceva la maggior parte in parere che non se ne parlasse, ché giá era persuasa a tutti l’opinione che bisognasse evitar le difficoltá. Erano nondimeno alcuni che volevano trattarne, dicendo che il far altramenti sarebbe dar occasione agli eretici di dire che si era fuggito di trattarne per non aver ragione di sostentarle. Ad altri pareva che bastasse trattar dell’uso solamente di esse, levando gli abusi che la corruzione dei tempi ha introdotto. Diceva l’ambasciator di Portogallo dispiacergli che non si facesse provvisione alle crociate, ma voler tacer, acciocché da alcuno non fosse presa occasione con quello di allongar il concilio. Li medesimi ambasciatori dell’imperatore, se ben tutti uniti a sollecitar l’espedizione per la commissione avuta da’ loro signori, non erano concordi in questo. Praga voleva che si tralasciasse il parlar de’ dogmi; Cinquechiese diceva che, non trattandosene e non provvedendo agli abusi delle reliquie e delle immagini e del purgatorio, restava la sinodo in vergogna.
Il vescovo di Modena considerò alli padri che quando s’avesse voluto trattar dell’indulgenzia al modo che della giustificazione s’era fatto, considerando tutte le cause e risolvendo tutte le questioni, era cosa molto longa e difficile e che averebbe portato gran tempo, non essendo possibile metter quella materia in chiaro, se non risolvendo prima se sono assoluzioni, o pur compensazioni e suffragi; e se rimettono le pene imposte dal confessor solamente, o pur tutte le debite; parimente se il tesoro che si mette per fondamento loro consta dei soli meriti di Cristo, o pur vi è bisogno di quei dei santi ancora; se si possono dare senza che chi le riceve presti opera alcuna; se si estendono alli morti ancora; e altre cose di non minor difficoltá. Ma per determinare che la Chiesa ha potestá di concederle, e che in tutti li tempi le ha concesse, e che sono molto utili al populo fedele se degnamente le riceve, non vi era bisogno di tanta disputa. L’autoritá di concederle aversi nella divina Scrittura; il continuato uso per tradizione apostolica e per autoritá del li concili, e la chiarezza di tutta la materia per la concorde dottrina de’ teologi scolastici: che sopra questo si poteva formar un decreto, che sarebbe senza difficoltá. Il parere ebbe assai séguito, e fu deputato lui con altri vescovi frati per formar il decreto secondo quel senso, aggiontovi la provvisione agli abusi.
Nelle seguenti congregazioni si trattò dell’indice de’ libri, del catechismo, breviario, missale e agende; e furono lette le cose deliberate nelle congregazioni particolari dei prelati, deputati a quelle materie sino dal principio della sinodo. E sarebbono eccitati dispareri, parendo ad alcuni che contra ragione fossero censurati certi autori e libri, ad altri parendo che fossero tralasciati di quelli che maggiormente meritavano censura. E del catechismo non vi fu minor difficoltá, parendo ad alcuni che l’opera preparata non fosse una catechesi da metter per comune a tutta la Chiesa, nella quale la maggior parte è de semplici; e altri desiderandovi dentro maggior cose. Delli libri rituali ancora non vi fu minor difficoltá, essendo molti che desideravano una uniformitá in tutta la Chiesa, e altri che defendevano li riti delle proprie loro: e veduto che queste erano materie da non finir di decider in un anno, fu proposto dalli legati che il tutto fosse rimesso al pontefice. Alcuni pochi prelati non consentirono; e nominatamente il vescovo di Lerida fece una longa orazione a dimostrare che se nessuna cosa era propria d’un concilio, era questa del catechismo, essendo un libro che debbe tenir il primo luoco dopo il Simbolo nella Chiesa; e delli libri rituali, che debbono tenir il secondo: nell’emendar li quali esservi bisogno d’un’esquisita cognizione dell’antichitá e dei costumi di tutte le regioni, la qual non si troverá nella corte romana; dove, quantonque siano uomini di eccellente ingegno e varia erudizione, non però attendono a quella sorte di lettere che è necessaria per far cosa che meriti esser commendata; ma questo esser piú proprio d’un concilio. Ma la risoluzione di finire e il desiderio di partire di Trento li fece prestar poca audienza dall’universale.
Il dí 25 del mese il conte di Luna si presentò alli legati con l’instanzia in scrittura. Si dolse che si tralasciassero le materie piú principali, per quali il concilio era congregato; che quelle poche che si trattavano si precipitassero; che si volesse finir il concilio senza scienzia del suo re; concludendo che si ascoltassero li pareri de’ teologi sopra le materie de’ dogmi, e che del fine del concilio si aspettasse risposta di Spagna. Risposero li legati le cose esser tanto inanzi che non vi era tempo di aspettare, né sarebbe stato possibile ritener tanti vescovi che giá erano in ordine per partire. Replicò il conte che se il concilio si finirá senza participazione del suo re, farebbe, oltra quella instanzia, quello di piú che fosse conveniente. Sopra di questo li legati spedirono in diligenzia al pontefice, e il conte ne scrisse all’ambasciator Vargas, acciò si adoperasse col papa. Ma egli ebbe per superfluo farne alcuna instanzia, cosí perché all’arrivo del corriero il papa era caduto in gravissima indisposizione, come perché, avendo fatta la medesima instanza qualche giorni inanzi, il papa per conclusione li rispose che si rimetteva al concilio, al quale non voleva levar la libertá tanto ricercata anco dal suo re. Certa cosa è che, dicendo quell’ambasciatore che bisognava tenir aperto il concilio perché tutto ’l mondo lo ricercava, rispose il pontefice chi era questo mondo che lo voleva. Soggionse l’ambasciatore: «Spagna lo vuole, tutto il mondo lo vuole». E il papa replicò: «Scrivete in Spagna che comprino un Tolomeo e studino, ché troveranno Spagna non esser tutto il mondo». Fecero li legati molti uffici col conte di Luna, e si adoperarono anco efficacemente con lui il Cardinal di Lorena e gli ambasciatori cesarei; né potendolo indurre, essi facevano instanza in contrario di lui, li cesarei per nome dell’imperatore e del re de’ romani e di tutta la Germania, Lorena per nome del re e regno di Francia. Li legati, risoluti di venir al fine del concilio, seguendo l’ordine del pontefice di farlo eziandio repugnando l’ambasciator spagnolo, attendevano sollecitamente all’espedizione delle materie.