Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Giardino in casa di Demetrio con boschetto intrecciato d’alberi.

Ircana sola.

Vado, non so in qual parte. M’aggiro, e non so dove.

Per me tutti gli alberghi, tutte le vie son nuove.
Questo giardino i’ credo, che a Demetrio appartenga.
Vo’ respirar quest’aure sola, pria ch’altri venga.
Sfogar vorrei col pianto il mio dolore estremo;
Ma piangere non so; quando mi dolgo, io fremo.
Suol essere comune al sesso nostro il pianto;
Son lacrime di donna sfogo, sollievo, incanto.
Ma a me, perisca il mondo tra fiamme e tra faville,
Non mi vedran di pianto bagnar le mie pupille.

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Chi pianto non avrebbe, quando lo sventurato

Tamas testé partissi, da me a torto scacciato?
Così l’impegno mio, così volea l’amore:
E se non piangon gli occhi, piange di dentro il cuore.
Qual fine avran gli amori, qual fine avran gli sdegni;
Chi scioglierà di Tamas i violenti impegni?
Quanto durerà il fasto d’una rival Persiana?
Quando sarà felice la sventurata Ircana?
Segua qualunque evento di me, non mi confondo;
Favola sia il mio nome sul teatro del mondo.
Chi mi desia fortuna, chi a me brama ruine,
Faccia i suoi sforzi; e attenda delle avventure il fine.

SCENA II.

Zulmira e la suddetta.

Zulmira. Solo fra queste piante, solo passeggia Ircano?

Perchè attender ti festi da me sinora in vano?
Ircana. Perdonate, signora, se il primo dì in cui servo,
Meno le leggi vostre di quel ch’io debba, osservo.
In avvenir vedrete, che obbediente i’ sono.
Posso sperar da voi perdon?
Zulmira.   Sì, ti perdono.
Ma in avvenir non essere nell’obbedir sì tardo.
Vo’, per esser servita, vo’ che ti basti un guardo.
Non l’averai sdegnoso, non l’averai crudele,
Se mi sarai tu grato, se mi sarai fedele.
Varie donne vedesti in un albergo istesso;
Ma son io che ha l’impero dal1 sposo a me concesso.
Non ti curar di quelli che di poter son vuoti.
Torbida è la cognata, garrule le nipoti.
Volgiti a me soltanto, io quella son cui lice
Aver la sorte in mano per renderti felice.

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Ircana. Vostro favor mi cale, la pietà vostra invoco.

Tutto farò per voi.
Zulmira.   Quel che ti chiedo, è poco.
Ircana. V’ho a servire alla mensa?
Zulmira.   No, dispensarti io voglio.
Ircana. Alle stanze?
Zulmira.   Alle stanze.
Ircana.   (Vuol essere un imbroglio).

SCENA III.

Kiskia, Marliotta, Creona in lontano fra gli alberi del Boschetto che si nascondono e osservano i due suddetti.

Zulmira. Dura è la servitude in ogni stato, il veggio;

Ma lo servir di schiavo senza mercede è peggio.
Non soffro della sorte tale costume indegno;
Prenditi questa gemma, di mia pietade in segno.
Ircana. Ah non vorrei che un giorno...
Zulmira.   Taci, gradisci e prendi.
Ircana. Dispensate, signora...
Zulmira.   Vo’ che ’l ricevi. Intendi?
Ircana. Obbedirò. (prende l’anello
Zulmira.   Sì poco gradisci i doni miei?
Ircana. So che ne sono indegno.
Zulmira.   Degnissimo tu sei.
La servitù che soffri, nell’alma non ti aggrava;
Io più di te languisco, io più di te son schiava.
Dell’onestà le leggi serbo costante in seno.
So porre alle passioni colla ragione il freno.
Ma senza oltraggio rendere al nodo ch’io rispetto,
Per te non so nell’alma dissimular l’affetto.
Ircana. (Par che di queste donne amor si prenda gioco.
Ma potrà un tal inganno, credo, durar per poco), da sè
Zulmira. Taci? Mi guardi appena?
Ircana.   Posso giurar, ch’io v’amo;

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Ma nel desio che v’arde, men debole vi bramo.

Se lo sperar più oltre la sorte a noi contrasta,
Bastavi ch’io vi serva?
Zulmira.   Non so che dir. Mi basta.
(Kiskia, Marliotta, Creona escono dal Boschetto, e s'avanzano verso Ircana e Zulmira: le Figliuole dinanzi, la Madre dietro di loro, si fanno vedere, mostrando però di andare pe’ fatti loro.
Creona. Eccola collo schiavo. (camminando
Marliotta.   Tutti li vuol per lei. (camminando
Zulmira. Dove si va, cognata?
Kiskia.   lo vo pe’ fatti miei.
(camminando
Creona. Amante d’uno schiavo I (come sopra
Marliotta.   S’avrebbe a vergognare.
(come sopra
Kiskia. Tacete; in dì di festa non si ha da mormorare.
(parte colle Figliuole

SCENA IV.

Zulmira, Ircana.

Zulmira. Perfida! l’intendesti?

Ircana.   Non vorrei che il suo sdegno
Per voi, per me destasse qualche funesto impegno.
Zulmira. Non temer; mio consorte ama la propria pace;
Sa che non fui, nè sono d’una viltà capace.
Parmi che t’ami anch’egli, e teco, oltre l’usato,
Veggolo, nell’amarti, quant’io forse impegnato.
Non si sdegnò veggendomi teco pietosa, umana;
Questa condiscendenza mi sembrò quasi strana.
E la pietà che teco vidi nel di lui core,
Valse ad assicurarmi, che sei degno d’amore.
Però creder non voglio, che abbia di me lo sposo
Per tua cagion fissato non essere geloso;

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Ma in grazia di vederlo pieno per te d’amore,

Posso nel di lui ciglio sperar meno rigore.
E posso, se gli narro l’ardir di quelle ingrate,
Sperar da lui vederle ben ben mortificate.
Ircana. Io nella sua pietade so che non spero in vano.
La sua pietà è fondata, però, sopra un arcano.
Sa che insultar il talamo di lui non son capace;
Ma se vi scorge amante, non soffrirallo in pace.
Poiché, se non condanna in voi l’affetto mio,
Può condannar le fiamme d’un credulo desio.
Verrà il dì, che potrete stringermi al sen pudica,
Ma sappialo Demetrio, ma pria Demetrio il dica.
Zulmira a’ detti miei stupisce, e si confonde:
Vi sarà noto un giorno l’arcano che si asconde.
Per or basta così. Amatemi, ch’io vi amo;
Ma bramate da me quel che da voi sol bramo, parte

SCENA V.

Zulmira e Zaguro.

Zulmira. Qual di me più confusa donna restò giammai?

Al favellar d’Ircano arsi a un tempo, e gelai;
Verrà il dì, che potrollo stringer pudica al seno!
Ah se dura l’arcano, se non si svela, io peno.
Potrebbe un mio congiunto, potrebbe un suo germano
Nascondere Demetrio sotto il nome d’Ircano.
Ma perchè a me celarlo? M’entra in cuor sospettoso
Qualche larva peggiore.
Zaguro.   Zulmira, ov’è lo sposo?
Zulmira. Teste uscì dal suo tetto: ancor non fe’ ritorno.
Zaguro. Bell’acquisto ch’ei fece sullo spuntar del giorno!
Zulmira. Dello schiavo t’intendi?
Zaguro.   Schiavo! (Ha forse alla moglie
Il sesso di colei mentito in quelle spoglie?) da sè

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Zulmira. Di chi parli, Zaguro?

Zaguro.   Di colei che era teco.
Zulmira. Donna colei?
Zaguro.   Sì, donna.
Zulmira.   Colei ch’era qui meco?
Zaguro. Ho a replicarlo ancora?
Zulmira.   Non è lo schiavo Ircano?
Zaguro. Volgi Ircano in Ircana.
Zulmira.   Indegna! Ecco l’arcano.
Zaguro. Ben me n’avvidi, allora che la comprò, che amore
Avea con quei begli occhi punto a Demetrio il core.
In faccia tua l’amante portò la sua diletta.
(Nel cuor della sua sposa principio una vendetta). da sèi
Zulmira. Non m’ingannar, Zaguro. Ma no; conosco il vero.
Intendo i falsi detti, rilevo ogni mistero.
Ecco perchè l’audace soffrialo a me dappresso,
Perchè noto a lui solo era dell’empia il sesso.
Ed io, stolta che fui, per donna arsi d’amore?
Dalla vergogna mia s’accresce il mio livore.
Non soffrirolla in pace al menzognero unita;
Minaccierò l’ingrato, discaccierò l’ardita.
Dov’è, dove si cela questo marito indegno?
Dove andò la ribalda? Li troverà il mio sdegno.
Soffrir ch’io m’ingannassi? Soffrir d’innamorarmi?
Perfida, o vo’ morire, o di te vendicarmi. parte

SCENA VI.

Zaguro solo.

Non basta la vendetta, che ho in Ispaan tentata,

Altra in Julfa ne trovo nella moglie irritata.
Di Tamas i congiunti, di cui seppi la storia.
Spenta di questa schiava vorranno ogni memoria;
E se Demetrio ardisce celarla nel suo tetto,

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Saprà donna gelosa svelarla a suo dispetto.

Imparerà Demetrio far stima d’un amico.
So vendicare i torti, quando di farlo io dico. parte

SCENA VII.

Demetrio, Carìco, mercanti Armeni.

Demetrio. Che mai narri. Carico?

Carìco.   Guardati di celarla,
Perchè di te, Demetrio, in Ispaan si parla.
Zaguro ha pubblicato la compra di tal schiava,
Ch’ella in Julfa sen resti un Finanzier s’aggrava.
Vuol che lungi sen vada oltre il confin Persiano.
Demetrio. Cercano l’infelice i suoi nemici in vano.
Il perfido Zaguro so che l’avrà tradita;
Ma qui sarà difesa a costo di mia vita.
Questa colonia Armena, che il buon Sofi già trasse
Dal margo dell’Eufrate, dai lidi dell’Arasse;
Questa nazion, che nacque a mercatare avvezza,
Che forma2 con il traffico di Persia la ricchezza;
Che seco ha trasportato di Julfa il nome Armeno
D’Ispaan ne’ sobborghi, che conserva nel seno
Di trenta mila Armeni l’antico onor primiero,
Soffre dal Re di Persia un dolcissimo impero.
Nè soffrirà, che sia sol per l’altrui malizia
Oppressa l’innocenza, tradita la giustizia;
Nè per il van desio d’un Finanzier sdegnato,
Vorrà perder di vista la gelosia di stato.
Ircana è schiava mia, raccolta è nel mio tetto;
Vi resterà, lo giuro, di Zaguro a dispetto.
E se Zaguro ardisce d’opporsi al favor mio,
So maneggiar la spada, so cimentarmi anch’io;
E sangue ho nelle vene di quei che hanno la guerra
Ed il terror portato al confin della terra.

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Carìco. Deh non turbare, amico, con tal consiglio audace,

Quella che noi godiamo, tranquillissima pace.
Non rinnoviamo adesso le memorie passate...
Demetrio. Questi son miei terreni. Ai terren vostri andate.
Ciascun pensi a se stesso.
Carìco.   Andiamo. Ah voglia il Cielo,
Non torni in comun danno di Demetrio lo zelo.
Abbiam finito, amico, d’usar guerriero sdegno,
Or che distrusse il fato de’ nostri padri il regno.
Siam sudditi, siam servi, e rammentar dobbiamo,
Non quel che fummo un dì, ma sol quel che ora siamo.
(parte coi compagni

SCENA VIII.

Demetrio solo.

È ver, perdemmo il regno, ed ogni altro splendore,

Ma non l’antico nome, non la fama, il valore.
L’oltraggio della sorte, il mio destin sopporto;
Ma non soffrirò mai da chi m’insulta un torto.
Merta Ircana pietade, e seco usar la voglio;
Serba in questo il mio cuore giustizia, e non orgoglio.

SCENA IX.

Kiskia, Marliotta, Creona e detto.

Kiskia. Pur ritornaste alfine. Mai più, come in tal giorno,

Bramai di mio germano sollecito il ritorno.
Demetrio. Da qual ragion spronata a desiarmi siete?
Marliotta. Gran cose, signor zio.
Creona.   Gran cose sentirete.
Marliotta. La zia...
Kiskia.   La vostra sposa...
Creona.   Quel grazioso umoretto...

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Demetrio. Olà, della mia sposa parlisi con rispetto.

Kiskia. Veduta fu poc’anzi collo schiavo novello
A far la vezzosetta.
Marliotta.   E gli donò un anello.
Creona. In vece di cacciarlo a governar gli armenti,
Stava la signorina a fargli i complimenti.
Demetrio. (Ah Zulmira! Zulmira!) da sè
Kiskia.   La vidi in questo loco.
Marliotta. Collo schiavo alle strette.
Creona.   E non ci stette poco.
Kiskia. Ci va dell’onor vostro.
Marliotta.   Punitela da bravo.
Creona. Per me, prima di tutto, bastonerei lo schiavo.
Kiskia. Lo schiavo no, meschino.
Marliotta.   Lo schiavo no, signore.
Demetrio. No lo schiavo? Conosco il zelo dell’onore.
Kiskia. Ella è la seduttrice.
Marliotta.   Ella dicea così...
Demetrio. Rispettate mia moglie. Toglietevi di qui.
Creona. S’egli non fosse stato...
Kiskia.   Ma Zulmira con arte...
Demetrio. Garrule, a chi favello? Si parte, o non si parte?
Creona. Per me, me n’anderò; di ciò non me n’aggravo.
Se non importa a voi, s’accomodi lo schiavo, parte
Marliotta. Signor zio, riparate. L’onor va in precipizio, parte
Demetrio. Donne senza ragione!
Kiskia.   Uomo senza giudizio! parte

SCENA X.

Demetrio, poi Zulmira.

Demetrio. Non è in periglio, è vero, di Demetrio l’onore;

Ma reo ne’ suoi desiri è di Zulmira il cuore.
Io però vo’ punirla; voglio sgridarla io solo;

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Che altra lingua lo faccia, non voglio in questo suolo.

Quelli che uniti vivono sotto un medesmo tetto3,
Del padrone alla sposa non perdano 4 il rispetto.
Zulmira. Eccolo il tuo consorte, eccolo il saggio, il bravo
Capo di sua famiglia, che comperò uno schiavo.
Amar schiavo comprato lodasi il buon padrone,
Ircano è schiavo tale, che può destar passione.
Barbaro, donna occulta alla consorte in faccia
Guidasi con inganno, e si vorrà ch’io taccia?
No, che tacer non voglio: scoperto ho il vostro zelo;
Copre un amor indegno della pietade il velo.
Nè giova dir: m’è ignoto che donna fosse; ingrato!
Tutto Zaguro istesso mi ha l’arcano svelato.
Compra faceste a gara della impudica indegna:
Ecco quel che alla moglie saggio marito insegna.
Sposa men di me saggia aver meritereste,
Che voglie avesse in seno men discrete ed oneste:
Ma son chi sono alfine, di me non v’è periglio;
Ma la perfida tresca seguir non vi consiglio.
Vada costei lontana, cagion d’una giust’ira;
Amate una consorte, che sol per voi sospira:
Una consorte alfine, che barbaro oltraggiate,
E che, vel dico in faccia, d’aver non meritate.
Demetrio. Arde la sposa mia di sdegno, e so perchè.
Vi sfogaste, Zulmira. Tocca parlare a me.
Donna condurvi occulta è un attentato ardito.
Colpa è ingannar la moglie di barbaro marito.
Ma se la moglie audace crede allo schiavo, e l’ama,
Rispondimi, Zulmira, di’: qual colpa si chiama?
Non mi nascondo, è vero, donna comprai mentita
Sotto spoglie virili; fu la mia colpa ardita.
E tu, che lo credesti uomo non apparente,
E per uomo l’amasti, sei tu donna innocente?

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Sì, che a pietà mi mosse donna che il fato insulta.

La verità è una sola, nè sarà sempre occulta.
Vedrai del zelo mio, vedrai le mire un dì;
Tu non puoi di te stessa meco vantar così.
Perfido a me dicesti? Perfida a te ridico;
Con più rossore il vedo, con più ragione il dico.
Vattene da me lungi, all’error tuo ripara;
E da colei che insulti, ad esser saggia impara, parte

SCENA XI.

Zulmira sola.

Come! Così vilmente m’arresto e mi confondo?

Vengo per isgridarlo, mi sgrida, e non rispondo?
M’han le donne tradita; son rea, ma non di tale
Colpa, che offender giunga l’onor mio coniugale.
Ma se tacer mi vide, il mio delitto ei crede.
Tornerò dallo sposo, mi getterò al suo piede.
Ma come andar poss’io con il rossore in faccia?...
Meglio è per or, ch’io soffra; meglio è per or, ch’io taccia.
Donna tacer sgridata dall’irato consorte
È tal dolor, che passa il dolor della morte. parte

SCENA XII.

Bosco corto.

Tamas e Bulganzar.

Tamas. Lasciami per pietà, lasciami in pace almeno.

Finché respiri il core fra le angustie del seno.
Bulganzar. No, non vi lascio certo. So il bel vostro costume:
Mi sovvien, che voleste precipitar nel fiume;
E non vorrei, vedendovi sì forte appassionato,
Trovarvi al mio ritorno a un albero impiccato.

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Tamas. Come tornar poss’io, come al paterno tetto

Con questo duolo intorno, con questo affanno in petto?
In faccia presentarmi a Fatima potrei
Dopo la fè promessa, dopo i deliri miei?
Del padre, che furente sarà pel figlio ingrato,
Come soffrir la vista, come il rigore usato?
No, non fia ver ch’io vada.
Bulganzar.   Oh guardate chi è qui.
Tamas. Stelle! Chi viene? Ircana?
Bulganzar.   L’amico vostro Ali.
Tamas. L’amico? oh mia vergogna! Oimè! dove m’ascondo?
Bulganzar. Vergognarvi di lui?
Tamas.   Vorrei fuggir dal mondo.

SCENA XIII.

Alì e detti.

Alì. Tamas.

Tamas.   Oh cara voce, tu accresci il mio rossore.
Alì. Quel che a voi mi conduce, è amicizia, è amore.
Tamas. Questo e quella non merto.
Alì.   Ma io vi compatisco.
Tamas. Ite, o contro me stesso crudelmente infierisco.
Bulganzar. Consolatelo voi, ch’io farlo non potrei.
Vado, se m’è permesso, a far i fatti miei.
(Aver che far co’ pazzi son sempre impegni brutti;
Ma il pazzo innamorato è il peggiore di tutti).
(da sè, e parte

SCENA XIV.

Tamas e Al).

Alì. lnutil, mi lusingo, non sia la mia venuta.

Dite: trovaste Ircana?
Tamas.   La trovai, l’ho veduta.

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Alì. V' ama ancora?

Tamas.   Sì, amico.
Alì.   L’amate voi?
Tamas.   L’adoro.
Alì. Che pensate di fare?
Tamas.   Senza il mio bene io moro.
Alì. E la sposa?
Tamas.   La sposa... oimè, chi la conforta?
Alì. Tamas, la sposa vostra; quell’infelice...
Tamas.   È morta?
Alì. No. La vorreste estinta?
Tamas.   Nol merta, sventurata.
Che fu di lei?
Alì.   Pensate qual l’avete lasciata.
Tamas. Crudelissimo amico, voi mi svegliate in core
Il più fatal rimorso, il più funesto orrore...
Alì. Fatima è saggia alfine; vede ogni forza vana
Per distaccarvi il core dalla rivale Ircana.
Più allo sposo non pensa; Tamas veder dispera;
Questo novello oltraggio par che la renda altera.
Quel che le punge il core è l’onta vergognosa
Di ritornar qual venne, senza il nome di sposa.
E il padre vostro istesso le dà il fiero consiglio
Di voler, vivo o morto, di Machmut il figlio.
Tamas. Morto m’avran; ragione hanno sulla mia vita,
Un genitore offeso, una sposa tradita.
Alì. Ma se il destino offrisse a Fatima infelice
Uno sposo novello?
Tamas.   Ah, ch’io sarei felice.
Ma son vane lusinghe del tuo amor, del tuo zelo.
Tanta felicitade non mi promette il Cielo.
Tamas, chi sa; t’accheta, non disperar.
Tamas.   Ma il padre
Di Fatima furente?
Alì.   Alle guerriere squadre,

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Allor che tu porgesti a Fatima la mano,

Si rese immantinente il vigoroso Osmano.
Nulla sa di tua fuga. Lungi è da noi gran tratto.
Pria che torni, v’è tempo; tentisi ad ogni patto.
Tamas. Tentisi. Ah se disciolto foss’io senza un delitto...
Alì. Vado, amico, e m’attendi. Non vo’ vederti affitto.
Poni con alma lieta nella mia man tua sorte.
A riveder ritorno della città le porte.
Spera, pria che si spenga di questo giorno il sole;
Chi sa ch’io non ritorni, e il tuo dolor console?
Sì; rissoluto i’ parto, o di recarti aita,
O di venir io teco a terminar mia vita. parte

SCENA XV.

Tamas solo.

Fido Alì, caro amico, tu parti, e mi consoli.

Tu dal mio sen la morte pietosamente involi.
Vivrò finché ritorni, vivrò finché mi avanza
Questa nel tuo bel cuore dolcissima speranza.
Questa novella speme inaspettata e strana,
Ah la secondi il Cielo, ah la sapesse Ircana!
Cerchisi il mio tesoro; a parte sia colei
Del giubilo del cuore, qual fu de’ dolor miei, parte


Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Così la rist. torinese e le edd. Savioli e Zatta. Nelle edd. Pitteri e Pasquali: da.
  2. Nella ristampa torinese e nell’ed. Zatta: formò.
  3. Nella ristampa torinese e nell’ed. Zatta: Quei che vivono uniti sotto uno stesso tetto ecc.
  4. Edd. Pitteri e Pasquali: perdino.