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366 | ATTO TERZO |
Zaguro. Di colei che era teco.
Zulmira. Donna colei?
Zaguro. Sì, donna.
Zulmira. Colei ch’era qui meco?
Zaguro. Ho a replicarlo ancora?
Zulmira. Non è lo schiavo Ircano?
Zaguro. Volgi Ircano in Ircana.
Zulmira. Indegna! Ecco l’arcano.
Zaguro. Ben me n’avvidi, allora che la comprò, che amore
Avea con quei begli occhi punto a Demetrio il core.
In faccia tua l’amante portò la sua diletta.
(Nel cuor della sua sposa principio una vendetta). da sèi
Zulmira. Non m’ingannar, Zaguro. Ma no; conosco il vero.
Intendo i falsi detti, rilevo ogni mistero.
Ecco perchè l’audace soffrialo a me dappresso,
Perchè noto a lui solo era dell’empia il sesso.
Ed io, stolta che fui, per donna arsi d’amore?
Dalla vergogna mia s’accresce il mio livore.
Non soffrirolla in pace al menzognero unita;
Minaccierò l’ingrato, discaccierò l’ardita.
Dov’è, dove si cela questo marito indegno?
Dove andò la ribalda? Li troverà il mio sdegno.
Soffrir ch’io m’ingannassi? Soffrir d’innamorarmi?
Perfida, o vo’ morire, o di te vendicarmi. parte
SCENA VI.
Zaguro solo.
Altra in Julfa ne trovo nella moglie irritata.
Di Tamas i congiunti, di cui seppi la storia.
Spenta di questa schiava vorranno ogni memoria;
E se Demetrio ardisce celarla nel suo tetto,