Ippolito/Terzo episodio

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Euripide - Ippolito (428 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Terzo episodio
Secondo stasimo Terzo stasimo


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Giunge correndo un’ancella.

ancella

Ahimè, ahimè!
Quanti siete qui presso, aiuto! Appesa
s’è la regina, di Tesèo la sposa.

corifea

È spenta! Ahimè, ahimè, piú la regina
non vive, è spenta, giú dal laccio penzola!

ancella

Non v’affrettate? Un affilato ferro
chi reca, e dalla gola il nodo tronca?

primo semicoro

Che fare, amiche? Entriamo, e dalla stretta
sciogliam dei lacci la signora nostra?

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secondo semicoro

E che? Non ha giovani ancelle? Scevro
non è da rischi l’eccessivo zelo.

ancella

Stendete, indi levate il corpo misero,
dalla casa del re tristo custode.

corifea

Spenta, a quanto odo, è già la donna misera:
già la stendono, a guisa d’un cadavere.
Entra improvviso, correndo agitatissimo, Teseo.

teseo

Donne, sapete qual grido sia questo
ch’entro la reggia suona? Un alto strepito
dei famigli mi giunse. E me, che giungo
dal consulto del Dio, degno non reputa
la casa mia che gli usci mi si schiudano,
che lietamente mi si accolga. Forse
qualche calamità nuova, percosse
di Pittèo la vecchiaia? Avanti molto
egli è già nella vita; eppur dogliosa
la sua partenza mi sarebbe assai.

corifea

Non colpí vecchi la sciagura: giovani,
morendo, il cuor ti crucceranno, o re.

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teseo

Ahimè! dei figli alcun mi fu rapito?

corifea

No: la lor madre morte ebbe crudissima.

teseo

Che dici? Spenta è la mia sposa? E come?

corifea

A un laccio appeso la sua gola strinse.

teseo

Vinta dal duolo? O per quale sciagura?

corifea

Sol questo io so: che or or giunsi alla reggia
per piangere, Tesèo, le tue sciagure.

teseo

Ahi! Di foglie intrecciate a che la fronte
ho dunque cinta, se a vedere giungo

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un tanto orror? Si levino le spranghe,
delle porte le imposte, o servi, s’aprano,
ch’io la mia sposa scorga, orrida vista,
che, la morte a sé dando, uccise me.
Si apre nuovamente la porta della reggia, e famigli portano la salma di Fedra.

Strofe I
Ahi, ahi, misera, o tua calamità!
Compiuta hai, perpetrata una tale opera
onde la casa tua sconvolta andrà.
Ahimè, ahimè, con empio
con vïolento scempio,
per opra dell’ardita
mano tua muori. Oh misera,
chi dunque a te, chi
spense a te la vita?

teseo

Strofe II
Oh miei travagli! Patii, cittadini,
la mia piú cruda sciagura. Oh fortuna!

Come piombi su me, su la mia stirpe!
Macchia inattesa onde mi brutta un Dèmone!

È la mia vita distrutta: possibile
non è ch’io viva. M’avvolge un tal pelago

di guai, ch’esser non può ch’io non v’anneghi,
che da tante sciagure in salvo emerga.

Quali parole trovare che dicano,
misera donna, la trista tua sorte?

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Dalle mani sfuggita, a mo’ d’alígero
mi sei, con un balzo agile, nell’Ade.

Ahimè, spasimi, ahimè, spasimi orribili!
Per voler degli Dei,

dai tempi antichi sopra me piombarono,
pei misfatti di alcun degli avi miei.

corifea

Non su te solo, o re, piombò tal sorte:
la sposa egregia molti altri perderono.

teseo

Antistrofe II
Sotterra voglio, nel buio discendere,
spento abitare vo’ lí nelle tènebre,

or che la compagnia tua dolce perdo.
A me ben piú che a te desti la morte.

Da chi saprò? Sul tuo cuore, infelice,
donde proruppe il funereo destino?

Chi mi sa dir che avvenne? O invano serra
tal folla di ministri il mio palagio?

Oh me tapino! Che strazio ho veduto
della mia casa! Ridirlo non so,

tollerarlo non so: perduto io sono.
Vuota è la casa, sono orfani i figli.

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Ahimè, tu m’hai lasciato, o dilettissima,
o l’ottima fra quante

donne del sol contempla il raggio fulgido
o della notte il folgorío stellante.

coro

Antistrofe I
Misero, quali sciagure piombarono
su la tua casa? .   .   .   .   .   .   
.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   
.   .   .   a me s’inondano di lagrime,
per questa tua sciagura,
le pàlpebre ed un brivido,
pel futuro destin già m’impaura.

teseo
Si accorge che Fedra stringe nella morta mano una lettera.

Che è mai ciò? Qual nuovo caso annuncia
questa lettera appesa alla man cara?
Forse dei figli miei, forse del talamo
l’infelice mi scrisse, e alcuna istanza
a me rivolse? O misera, fa’ cuore.
In questa casa piú non entrerà
donna nel letto di Tesèo. — Le impronte
mi lusingano l’occhio, onde l’anello
della defunta è nel castone impresso.
Ma via, ch’io sciolga questi lacci, e veda
che cosa a me vuol dire questa lettera.

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coro

Ahi, ahi, novello male ai prischi un Dèmone
aggiunge. Or che cosí gli eventi volsero,
la vita sopportar piú non saprei.
Ahimè, ahimè, precipita,
spersa è la casa dei signori miei.
Se lecito è pur, Dèmone,
la mia preghiera ascolta: non abbattere
questa casa; ch’io giungere
vedo, quasi indovina,
e non so donde, auspíci di rovina.

teseo
Aperta la lettera, la legge, erompe in un urlo d’orrore.

Ahimè, che male ai mal s’aggiunge, tale
da non patir, da non ridir! Me misero!

corifea

Che c’è? Se degna me ne credi, dimmelo.

teseo

Grida, grida la lettera
orrori intollerabili.
Dove fuggire il peso dell’obbrobrio?
Morto sono io, la vita m’abbandona.
Deh, qual caso funesto,
in queste cifre, o me misero, suona!

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corifea

Ahimè, preludio di sventura è questo!

teseo

Della bocca nei claustri
trattener non conviene
questo mal rovinoso, esizïale?
O Atene, o Atene!
Si volge ai coreuti.

Far vïolenza al mio talamo Ippòlito
osò, spregiò l’occhio di Giove augusto!
O padre mio Posídone, che compiere
tre dei miei voti promettesti un giorno,
con l’uno d’essi ora il mio figlio uccidi:
se la promessa tua fu pur verace,
fa’ ch’oltre questo giorno ei piú non viva.

corifea

Questo voto depreca, io te ne supplico:
ché poi vedrai come t’inganni: credimi.

teseo

Non può essere! E poi, lo bandirò
da questa terra: o l’una sorte, o l’altra
colpir lo deve: o lui spento Posídone
alle porte d’Averno invïerà,

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i miei voti compiendo, o, errando profugo,
lungi da questo suol, su terra estranea
terminare dovrà grama la vita.

corifea

Vedi, opportuno ei stesso giunge, Ippòlito.
Dall’ira trista, o re, desisti, e assumi
consiglio tal che alla tua casa giovi.

ippolito

T’udii gridare, e accorsi in fretta, o padre.
Ignoro il caso onde tu gemi, e apprenderlo
da te stesso vorrei. Ma che è ciò?
Della tua sposa il corpo estinto vedo,
o padre mio? Gran meraviglia è questa.
Or ora la lasciai, non da gran tempo,
che questa luce contemplava. Or come
morí? Padre, da te saper lo bramo.
Taci? Nei mali, a che giova il silenzio?
Di curïosità, pure nei lutti
l’anima pecca, e udir tutto desidera.
Giusto non è che i tuoi malanni, o padre,
a chi t’è amico, e piú che amico, celi.

teseo

Deh, quanto, invano, uomini, errate! A che
esser di mille e mille arti maestri,
a che mai tante indagini e scoperte,
se non sapete e non cercate il modo
che senno acquisti chi di senno è privo?

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ippolito

Saggio sarebbe assai l’uom che costringere
a far senno potesse i dissennati.
Ma perché, padre, in tempo inopportuno
tu sottilizzi, io temo ch’oltre il segno
la tua parola pel dolor trascorra.

teseo

Ahimè, dovrebbe degli amici esistere
chiara una prova, un indice sicuro
dei sentimenti, chi verace, e chi
sia falso amico: due voci dovrebbe
avere ciascun uomo, e l’una giusta,
come pur fosse, sí che la mendace
da quella onesta smascherata fosse,
e niuno piú ne ricevesse inganno.

ippolito

Forse qualcuno degli amici m’ha
calunnïato presso te, sí ch’io,
senza nessuna colpa aver, ne soffro.
Stupito io sono: i tuoi discorsi, ch’errano
lungi dalla ragion, mi sbigottiscono.

teseo

O cuor dell’uomo, dove arriverai?
Dove trovare dell’audacia il termine,

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della temerità? Se temulenti
piú, da una stirpe all’altra, essi divengono,
e del progenitore ognun dei posteri
sarà piú tristo, a questa terra aggiungerne
dovranno un’altra i Numi, ove s’accolgano
tutti i ribaldi e i disonesti. L’occhio
volgete su costui, che dal mio sangue
nacque, e il mio letto svergognò, convinto
fu chiaramente dalla morta ch’è
tristo fra i tristi. Poiché sei macchiato
d’un tal misfatto, il padre tuo negli occhi
guarda. Tu sei colui che, per eccellere
sugli altri uomini, insiem vivi coi Numi?
Tu l’uomo saggio, e d’ogni vizio immune?
Tal fede ai vanti tuoi non presterò,
ch’io di senno esca, e ai Numi attribuisca
tanta stoltezza. Ed or, millanta e ciurma,
col tuo nutrirti solo d’erbe, segui
i precetti d’Orfeo1, celebra i riti,
dei molti libri suoi venera il fumo:
ch’ora in fallo sei còlto. Io tutti mettere
vo’ su l’avviso che i tuoi pari fuggano,
che vanno a caccia con parole sante,
e macchinano infamie. Or questa è morta.
Ma perciò speri d’esser salvo? Tanto
di piú, convinto sei, tristo fra i tristi.
Come l’accusa fuggirai? Che giuri
mai, che discorsi, piú di questa lettera
potrebbero valer? Dirai che Fedra
t’odïava? Dirai che dei legittimi
figli il bastardo è l’inimico? Oh, stolto
mercato della vita avrebbe fatto,
se quanto aveva di piú caro, avesse

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distrutto, in odio a te. Follia non è
degli uomini retaggio; e delle donne
esser dovrebbe? Io giovani conosco
che, se l’ardente anima loro Cípride
scuote, non son piú saldi delle femmine;
ma l’esser maschi è un utile pretesto.
Ma perché di parole io qui contendo
con te, quando la salma è a noi dinanzi,
teste d’ogni altro piú verace? In bando
or va’, prima che sia, da questa terra,
ed in Atene non venir mai piú,
dai Numi estrutta, o della terra dove
regnano l’armi mie presso i confini.
Ché s’io, da te patito un tale scorno,
mi rassegnassi, dir potrebbe Sínide2
l’Istmio, ch’io non l’uccisi, e il vanto usurpo;
e le rupi Scironie3, al mar finítime,
che pei malvagi non sono io terribile.

coro

Non so qual uomo io dir potrei felice:
ché le prische fortune a terra cadono.

ippolito

Tremendi, o padre, l’émpito e la furia
son del tuo cuore; eppur, la causa ch’offre
di bei discorsi il destro, ove ne svolga
gl’intrichi, spesso non è bella. Inabile
io son dinanzi a una gran folla: meglio
parlo ai giovani miei pari; ed a pochi;

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ed anche questo ha il suo valor: ché quanti
hanno fra i saggi minor pregio, eccellono
a parlar fra le turbe. Eppure, è forza,
quando sopravvenuta è la sciagura,
ch’io la mia lingua sciolga. E il mio discorso
comincerà dal punto ove, assalendomi,
distruggermi credesti, e ch’io risponderti
piú non potessi. Questa luce vedi,
e questa terra: or, quivi uomo non è
piú assennato di me. Ché, prima i Numi
so venerare, e con amici pratico
che non cercano il male, e non dimandano
disonesti favori, e non li accordano:
ne avrebbero vergogna. E non costumo
deridere gli amici, e son lo stesso
dietro le spalle, e innanzi a loro. E puro
son d’una pecca onde tu pensi avermi
convinto reo: del genïale talamo,
insino a questo dí, puro è il mio corpo;
né l’atto so qual sia, tranne perché
ne udii parlare, oppur pinto lo vidi,
né d’indagarlo brama ho, poiché vergine
l’anima serbo. Ma convinto forse
tu della mia virtú non sei. Bisogna
cercare allora la ragion per cui
sarei stato corrotto. Era costei
di quante donne son, forse piú bella?
O sposare sperai l’ereditiera,
ed essere signor della tua casa?
Stolto sarei davvero, e non padrone
del senno mio. Piacer forse potrebbe
agli assennati esser sovrani? Può

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l’assoluto poter piacere a un uomo
solo quando sconvolto egli abbia il senno.
Esser primo io vorrei nei ludi ellènici,
e secondo in città vivere, avendo
sempre i migliori per amici. Compiere
si può ciò che si brama; e dal pericolo
lungi restare, è gioia preferibile
all’essere sovrano. Un punto solo
debbo toccare, e tutto il resto ho detto.
Se un teste avessi al par di me verace,
se costei fosse viva, e innanzi a lei
difendermi potessi, i rei dall’opere
loro tu scopriresti. Ora, per Giove
custode ai giuri, e per il suol ch’io premo,
ti giuro che non ho toccata mai
la sposa tua, né l’ho desiderata,
né pur l’idea n’ho concepita. E possa
senza onore morire e senza nome,
senza patria né casa, esule errando
per la terra, e né pelago né terra
al morto corpo mio ricetto diano,
se un tristo io sono. Se costei troncò
la propria vita per terror, lo ignoro:
ché favellar piú oltre non m’è lecito.
Non avendo saggezza, ella fu saggia:
io che l’avevo, tristo uso ne feci.

corifea

Fu la discolpa sufficiente: il giuro
pei Numi offristi: è sicurtà non piccola.

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teseo

Incantatore, ciurmator non è
costui, che oltraggio fece al padre, e spera
molcirmi con le sue sdolcinature?

ippolito

E questo, o padre, mi stupisce assai:
se tu fossi mio figlio, ed io tuo padre,
e toccar la mia sposa avessi ardito,
t’infliggerei la morte, e non l’esilio.

teseo

Il giusto or dici tu; ma della morte
da te prestabilila or non morrai.
Una rapida morte, è per un empio
troppo mite castigo. Esule errando
dal suol paterno, tra gli affanni e i crucci
vivrai: degli empî la mercede è questa.

ippolito

Oh, che vuoi fare? Attendere non vuoi
che il tempo sveli il vero, e mi mandi esule?

teseo

Oltre il mare, d’Atlante oltre i confini,
ti potessi mandar, come io t’esecro.

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ippolito

Senza giuri, né prove, né responsi
d’indovini ascoltar, senza giudizio,
dalla patria mi scacci?

teseo

                                             È questa lettera
sicura accusatrice, e non ammette
ambigui sensi. E lascia che sul capo
gli augelli a lor piacere a noi svolazzino.

ippolito

O Numi, il labbro mio ché non disserro,
io, che perduto son per voi che venero? —
Ah, non sia, no: ché non potrei convincere
quelli ch’io devo, è invan sarei spergiuro.

teseo

Ah, questa tua santocchieria mi dà
la morte. Uscir vuoi dalla patria? Sbrígati.

ippolito

Dove mi volgerò, verso quale ospite,
se per simile taccia esule vado?

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teseo

Verso colui che i seduttori gode
ospiti avere, e al vizio suo compagni.

ippolito

Mi giunge sino al cuor, mi sforza al pianto,
che tu mi creda, ch’io sembri un malvagio.

teseo

Pianger dovevi, prevedere, quando
di tuo padre oltraggiar la sposa ardisti.

ippolito

O casa, deh, se tu parlar potessi,
e teste essere a me, se un tristo io sono!

teseo

Ricorri a testi muti; e intanto, chiaro
quanto malvagio sei mostrano i fatti.

ippolito

Deh, se potessi di me stesso mettermi
a fronte a fronte, e piangere i miei mali!

[p. 271 modifica]


teseo

Piú te stesso a curare avvezzo sei,
che ad esser giusto, a rispettar tuo padre.

ippolito

O madre, o mia nascita amara! A niuno
auguro degli amici esser bastardo.

teseo

Volete, o servi, trascinarlo? È un pezzo
ch’io dico di scacciarlo: or non m’udite?

ippolito

Pianger dovrà chi pur mi tocchi: tu
stesso, se vuoi, da questa terra scacciami.

teseo

Se tu non m’obbedisci, io lo farò:
ché pianger non mi fa l’esilio tuo.

ippolito

È deciso, mi pare. O me tapino,
che tutto il vero so, né modo so
com’io favelli. O figlia di Latona,

[p. 272 modifica]

dilettissima a me su tutti i Dèmoni,
o di vita e di cacce a me compagna,
esule io vo’ dalla famosa Atene.
O tocca, o terra d’Erettèo, salvete.
Di Trezène pianure, oh come lieta
fra voi la vita i giovani trascorrono!
Addio: l’ultima volta or vi contemplo,
or vi favello. — Orsú, di questa terra
giovani, a me compagni d’armi, datemi
l’addio, fuor dalla patria accompagnatemi.
Uom piú saggio di me mai non vedrete,
anche se il padre mio crederlo nega.
Parte.


Note

  1. [p. 302 modifica]I precetti d’Orfeo, che raccomandavano, per seguire castità, l’astinenza dai cibi animali.
  2. [p. 302 modifica]Sinide, famoso ladrone che infestava l’istmo di Corinto e che fu vinto e ucciso da Teseo.
  3. [p. 302 modifica]Le rupi Scironie sono le montagne della Megaride, cosí chiamate da Scirone, crudele ladrone, pur esso vinto e ucciso da Teseo.