In morte di Lorenzo Mascheroni (1831)/Note

Note ed illustrazioni

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NOTE ED ILLUSTRAZIONI1


Canto Primo


Pagina 19


Colei che gl’intelletti apre e sublima, ec.
Colei che li misura, ec.

Urania (in greco la celeste) la musa che presiedeva alla matematica ed all’astronomia.


Pag. 20


D’un’altra Lesbia . . . .

* Invito a Lesbia Cidonia. Questo elegantissimo poemetto, di cui abbiamo più edizioni, non è che la descrizione de’ musei di Pavia. Sono le Grazie medesime che parlano profonda filosofia.


Ivi


Vien quegli occhi a mirar, ec.

* È noto che il gran Galileo dopo le sue scoperte astronomiche divenne cieco * ― Fu egli il primo a scoprire i satelliti di Giove.


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Pag. 21


. . . . la giapezia prole.

Prometeo ed Epimeteo figliuoli di Japeto furono i creatori degli esseri animati. Avendo Epimeteo conceduti tutti i doni di forza e di difesa agli animali e dimenticatosi intieramente dell’uomo, Prometeo, onde supplire, involò a Pallade ed a Vulcano le arti ed il fuoco animatore dell’intelletto, e gliene fe’ dono. ― Platone in Protagora; Eschilo nel Prometeo.


Ivi


Rendimi dunque l’immortal scintilla, ec.

Il poeta segue la dottrina di Platone, favorevole alla poesia, il quale pensava che le anime fossero state distribuite da Dio nei pianeti, donde, per opera di divinità subalterne, scendano ad informare i corpi de’ mortali: e quelle anime che avranno vissuto in terra la vita de’ giusti, ritorneranno dopo la morte a rivivere nell’astro primitivo, laddove le altre passeranno ad animare il corpo de’ bruti, finchè siansi intieramente purgate. — Platone, lib. vii della Repubblica.


Ivi


Colui che strinse ne’ suoi specchi arditi, ec.

È fama che Archimede, prima ancora di Buffon, abbia conosciuto l’uso degli specchj ustorj, di cui si servì per incendiare le navi di Marcello, che assediava Siracusa.


Ivi


Primo quadrò la curva, ec.

* Archimede fu il primo che trovò la quadratura della [p. 97 modifica]parabola, e i rapporti della sfera col cilindro. Della quale ultima scoperta egli stesso compiacquesi tanto che la volle incisa sul suo sepolcro; lo che servi d’indizio a Cicerone per iscoprirlo, siccome egli stesso racconta nelle Tuscolane l. 5, § 23.


Ivi


Seco è il Calabro antico . . . .

* Filolao nativo della Magna Grecia e discepolo di Pitagora. Fu il primo ad insegnare il sistema ora detto Copernicano.


Ivi


. . . . . . . e del mio figlio
La sognata caduta ancor deride.

Fetonte fulminato.


Pag. 22


Qui Cassin . . . . . .

* Cassini chiamato l’oracolo del Sole, diede una teoria completa sul movimento delle macchie solari, e parlò più sensatamente d’ogni altro della paralasse del sole, elemento principale di tutta l’astronomia.


Ivi


Qui Bianchin, qui Riccioli . . . .

Monsignor Bianchini vescovo di Verona e il P. Riccioli gesuita, celebri astronomi, i quali applicarono le osservazioni degli astri alla storia umana, il primo colla sua erudita istoria provata dai monumenti e l’altro colla sua cronologia riformata, tenuta in grande estimazione.


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Ivi


Orian degli astri indagator sovrano.

* La teoria del nuovo pianeta Urano, stampata in Milano del 1789, fu conosciuta a Parigi dai più distinti astronomi e geometri. Ma perchè il modesto Oriani non la presentò all’accademia delle scienze, l’astronomo Delhambre profittò senza scrupolo delle scoperte altrui, e le sue tavole pubblicate due anni dopo ottennero un premio ad altri dovuto.


Pag. 23


. . . . Borda . . . . . .

* Bartolomeo Borda celebre matematico francese, intimamente legato d’amicizia col nostro Mascheroni, il quale su la di lui morte compose un’elegia latina degna del secolo d’Augusto.


Ivi


L’arco che l’ombra fa cader più corta.

Il Meridiano.


Pag. 25


Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo, ec.

Mascheroni, il quale era stato membro del corpo legislativo della repubblica cisalpina, dacchè gli austro-russi invasero l’Italia, si rifuggiò cogli altri patrioti in Francia.


Pag. 26


. . . . . . . . rochi
Su la tribuna i gorgozzuli . . .

Allude alle aringhe che si tenevano in pubblico da quegl’invasati che si chiamavano repubblicani.


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Pag. 26


Tal s’allaccia in senato la zimarra,
Che d’elleboro ha d’uopo e d’esorcismo;

Cioè, il quale è o pazzo o indemoniato. Era comune proverbio tra i greci quando volevano significare che taluno era pazzo, che aveva d’uopo di elleboro: oppure, che bisognava mandarlo per l’elleboro ad Anticira.


Ivi


Tal vi trama, che tutto è parossismo
Di delfica manìa, ec.

La grotta nel tempio di Delfo, presso alla quale era il tripode da cui la Pizia pronunciava gli oracoli, mandava certe esalazioni, che avevano la proprietà di mettere in furore; per cui la Pizia, quando salivane, pareva quasi che presa fosse da epilessia. Nè primi tempi gli oracoli erano in versi.

Allude al suo rivale, il celebre improvvisatore Gianni. Le inimicizie di questi due poeti essendo note ad ognuno, non riuscirà discaro ai nostri lettori se ci dilunghiamo alcun poco su quel soggetto, tanto più che servirà a dar risalto ad alcuni tratti della presente Cantica.

Francesco Gianni nacque in Roma verso il 1760. Dotato dalla natura di una prepotente inclinazione per la poesia, ma povero e costretto per vivere all’arte del sartore, teneva sul banco il Tasso e l’Ariosto, che leggeva con avidità nei momenti d’ozio. Spinto non di meno dal medesimo suo genio, gittò via l’ago e le cesoje, e si diede alla professione dell’improvvisatore. I suoi primi esperimenti gli fece in Roma, dov’era accolto e cercato in tutte le belle brigate, nelle quali incominciò a fare amicizia col Monti. Verso il 1795 si recò a Genova dov’ebbe applausi [p. 100 modifica]straordinarj: e fu in quella città dove si viddero accoppiati due de’ più strani fenomeni, il Gianni per la sua facilità inarrivabile per la poesia estemporanea, e l’avvocato Ardizzoni per l’incredibile sua memoria nel ritenere e recitare subito dopo, e senza perder sillaba i canti improvvisati dal poeta: ed è alla tenace sua ritentiva che noi dobbiamo la pubblicazione delle poesie del Gianni, in un tempo in cui non si era per anco introdotta in Italia la stenografia. Quando l’anno dopo fu instituita da Bonaparte la repubblica Cisalpina, il Gianni venne a Milano, fece lega coi principali demagoghi, e fu naturalizzato e introdotto nel consiglio legislativo, dove servì di appoggio al Monti, in allora profugo dagli stati romani per motivi di opinione, ad ottenere il posto di segretario centrale presso al ministro degli affari esteri. Ma inimicatisi ben presto, il Gianni si fece uno de’ promotori perchè la Bassvilliana fosse abbrucciata sulla piazza del Duomo, e perchè il suo autore fosse deposto dal suo ufficio in virtù di una legge intollerante ed assurda che si era fatta passare allora, la quale dichiarava incapace ai pubblici ufficj chiunque avesse scritto in pro della monarchia. Sgraziatamente al Monti era stato affidato un impiego che non era pel suo dosso. Il governo lo aveva incaricato unitamente all’avvocato Oliva di Cremona dell’ordinamento economico amministrativo dell’Emilia, nella qual nuova carriera ei dimostrò che un eccellente poeta essere poteva benissimo un cattivo amministratore. Nè qui si sa se meriti più rimprovero il Monti per avere accettato un incarico così lontano da’ suoi studj, o quello strano governo che sapeva scegliere così male i suoi funzionarj. Certo si è ch’egli si acquistò biasmo grandissimo e porse argomento a’ suoi nemici onde perseguitarlo: nè il Gianni si stette allora colle mani alla cintola, e dicesi che non poco si compiacesse dei danni che avvennero al suo avversario. Nel 1799 quando gli austro-russi invasero [p. 101 modifica]l’Italia e ne cacciarono i francesi coi loro frenetici repubblicani, il Gianni con molti altri così detti giacobini, fu condotto prigione a Cattaro nella Dalmazia. Liberatone l’anno appresso dopo la battaglia di Marengo, egli si recò a Parigi, dove ottenne da Napoleone un’annua pensione di 6000 franchi, continuatagli dal governo francese sino alla sua morte ivi accaduta nel 1823. Negli ultimi anni della sua vita si era tutto dedicato alla religione, solito effetto in presso che tutti coloro che hanno avuta una gioventù tempestosa, e che hanno rifiutato alcuni principj e seguitone altri, senza aver avuto altro criterio nella scelta che le passioni.

Il Monti nella sua lettera al Bettinelli, e il Gianni in un suo opuscolo contro il Monti, esposero a lungo i motivi delle loro gare, in cui ciascuno vuole all’altro imputare il torto, ma tacquero ambidue il motivo principale e vero, cioè la rivalità di professione. Ambidue erano grandi poeti e ambedue avidi di primeggiare. Ma il Gianni era il lavoro grezzo della natura, era un esperimento di questa divina artefice di quanto può l’uomo col semplice soccorso di lei nell’arte maravigliosa del verso. Digiuno di ogni sapere filosofico, senza alcuna lettura, salvochè di poeti, si presentava il Gianni spontaneo, non abbonito, a slanci, coll’idee in balia dell’immaginazione, le somme bellezze infarraginate coi sommi difetti, e in breve dominato dalla foga medesima delle naturali sue ispirazioni. Il Monti ne ha dato un giudizio che stimiamo imparzialissimo. “Interrogato un giorno, ei dice nella succitata lettera, sopra di lui alla presenza di ventinove membri dell’Istituto Italiano, e di molte eccelse persone, candidamente e con intima persuasione risposi: la natura dal canto suo ha fatto di tutto per farne un grande poeta. Se qui feci punto, il mio silenzio fu prova della mia moderazione, e anco in questo momento io rendo al Gianni quello che è suo perchè non ho tarli nel cuore che mi [p. 102 modifica]impediscano di esser giusto. Ma il solo fondamento della natura senza il concorso dell’arte non farà mai un sommo poeta. Aggiungo però che se il Gianni, rinunziando alla ciurmeria dell’improvvisare, siccome io stesso le mille volte lo consigliava, si fosse dato, allo studio dell’idioma latino, primo elemento del linguaggio poetico, onde formarsi uno stile casto e severo; se mandando al diavolo quello strano suo Young, in cui erasi innamorato perdutamente, si fosse accostato alquanto alle scienze, a quelle particolarmente che hanno immediati contatti coll’eloquenza, e senza le quali i voli della fantasia non riescono che delirj; il Gianni, confortato di buona filosofia, e di stile non convulso, non matto, avrebbe potuto cogliere senza contrasto uno de’ più scelti allori del Parnaso italiano„. A cui noi aggiugneremo ch’era forse impossibile al Gianni il far tutto questo, perchè la natura ha voluto fare di lui un portentoso poeta estemporaneo e non più; e ne sia una prova che i suoi più bei pezzi sono quelli appunto che gli scaturirono spontaneamente in quelli accessi di delfica manìa che gli erano tanto frequenti: laddove le sue poesie scritte a testa posata sono appena tollerabili.

Il Monti al contrario (che pure aveva improvvisato nei primi anni della sua carriera poetica e se n’era lodevolmente distolto per darsi ad un poetare più maturato e terso) porge la sua musa di una natura ben diversa. Quantunque sembri egli abbandonarsi intieramente ai liberi voli della sua fantasia, pure vi regna sempre una grand’arte; arte tanto più difficile e profonda in quanto che non si lascia scorgere. In mezzo ad una maravigliosa abbondanza di pensieri e d’immagini, che sembrano quasi imbarazzare il poeta nella scelta e arrestarlo a caso sovra una qualch’una, l’estetica del gusto sa discernervi da per tutto l’ordine e l’armonia. Tutto è a suo posto, tutto è meditato, nulla vi è di ozioso, eppur sembra [p. 103 modifica]che tutto scaturisca spontaneo dalla semplice natura. Ed è da questa simmetrica, ma naturale disposizione de’ poetici oggetti, che si genera nell’animo de’ lettori quel magico disordine di piaceri e di sensazioni. In somma la poesia del Monti è, come quella di Dante, la figlia di un estro immaginoso, sbrigliato e tutto fuoco; ma tiranneggiato negl’impetuosi suoi slanci dalla riflessione e dall’arte.

Era dunque naturale che questi due poeti, chiamati dalle circostanze più di una volta a contatto, dovessero essere rivali. Gianni era lo stupore degl’ignoranti, dei mediocri e degl’intendenti; ma gl’intendenti solo potevano conoscere ed apprezzare la superiorità del Monti: pure quella legge eterna che costringe tutti gli uomini a gustare i piaceri del bello e del sublime, anche senza conoscerlo, renderà una muta giustizia al Monti colle replicate edizioni de’ suoi poemi. Era il primo il poeta dell’istante, l’altro apparteneva all’immortalità. L’uno e l’altro non era senza orgoglio, e forniti ambidue di una buona dose di amor proprio, che nei poeti specialmente abbonda, e dal quale ne derivava una segreta vicendevole invidia. Monti si credeva nel caso di poter dare dei precetti a Gianni, e Gianni, gonfio di lodi e di adulazioni, si arrogava l’assoluto principato di Pindo. Ambo avevano i loro partigiani, ma più il Gianni che il Monti, perchè per quello erano anco gl’idioti: ambo avevano i loro detrattori, ma più il Monti che il Gianni, e questo era in regola, perchè dove il merito è più solido, ivi l’invidia si mostra anco più efficace. Questi furono i veri elementi delle eterne loro inimicizie, sospese solo da brevi intervalli di tregua, che sembrava trovata da loro a bello studio per pigliar nuova lena, e per cui si disonoravano l’uno e l’altro, e giustificarono presso gli stranieri l’accusa che la nostra bella patria sia il nido di continue e puerili animosità letterarie.


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Pag. 27


Vile! e tal altro del rubar maestro, ec.

Giuseppe Lattanzio, uomo d’ingegno mediocre nativo di Nemi nella campagna di Roma, dov’è il lago Nemorino, per cui più sotto il poeta lo chiamerà galeotto di Nemi cioè barcajuolo. Perseguitato per opinioni politiche, si riparò a Milano, centro della Cisalpina; dove si diede a tradurre e scarabocchiar romanzi. Fu oratore pubblico, poeta e giornalista. Scrisse in opposizione alla Mascheroniana un assai cattivo poema in terza rima intitolato l’Inferno, che non fu terminato, dove tra gli altri caccia tra i dannati il celebre generale Lahoz, e tartassa il Monti e più altri. Ma il Monti lo ripagò ad usura, perseguitandolo acerbamente con rabbia proprio letteraria, onde il povero Lattanzio n’ebbe a soffrire non poco. Avendo egli lasciato travedere nel suo Corriere delle dame, che Napoleone si farebbe re d’Italia, fu dal governo inviato alla Senavra, grande ospitale dei pazzi suburbano, dove, trattenutovi per qualche mese, fu per diventar pazzo davvero: perciò il poeta dirà più innanzi che la fune e la Senavra impetra. Una persona che ha avuto qualche parte in quell’affare ci assicura che il Lattanzio fosse di accordo col governo nell’enunciare quella sua notizia, la quale doveva servire siccome di scandaglio per conoscere la disposizione degli animi. Egli morì in Roma nel 1822.


Ivi


Genuzj essendo, Saturnini . . .

Genuzio e Saturnino, due de’ più sediziosi e de’ più sanguinarj tribuni di Roma. Quest’ultimo, nemico implacabile del senato, fece uccidere nel modo il più barbaro il patrizio Gratidiano, e mantenevasi più migliaja di sicarj disposti ai feroci suoi ordini, cui chiamava il suo antisenato.


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Ivi


E le vendette vincerian di Tebe.

Allude ai tragici casi della famiglia di Edipo..


Pag. 28


Vidi in cocchio Adelasio . . .

Adelasio di Bergamo fu membro del direttorio cisalpino e ardente propugnatore delle nuove idee repubblicane. Trovò non di meno grazia appo gl’imperiali per aver loro svelato i depositi del denaro e degli archivj della repubblica. Egli era di un carattere debole, ed un bizzarro miscuglio d’idee liberali e cappuccinesche. Finì in fatti col farsi frate nel convento di S. Giustino in Padova, dove morì poco dopo..


Ivi


Paradisi e Fontana . . .

Conte Giovanni Paradisi di Reggio. Fu membro del direttorio della Cisalpina e in conseguenza tradotto a Cattaro dagli austriaci nel 1799. Fu in seguito ai Comizj di Lione; e nella formazione del regno d’Italia, creato, per le profonde sue cognizioni di matematica, direttore delle acque e strade, decorato di molti ordini, di cariche illustri e in ultimo della presidenza del senato: era anco membro dell’Istituto Italiano e morì in patria nel 1822.

Il padre Gregorio Fontana delle Scuole pie, celebre filosofo e matematico, era nativo di Nogarola nel Tirolo italiano. Fu pubblico professore a Sinigaglia, a Bologna, a Milano, finalmente a Pavia, dove fu anco nominato direttore della Biblioteca. Napoleone, che amava gli uomini dotti e i matematici in ispecie, lo distinse molto e lo fece nominare [p. 106 modifica]membro del Consiglio Legislativo della Cisalpina, per cui fu egli pure tratto a Cattaro. Siccome egli aveva anticipatamente pubblicato qualche cosa contro la rivoluzione di Francia, perciò l’opera sua fu abbruciata insieme colla Bassvilliana, e il partito fanatico tentò, ma inutilmente, di cacciarlo dal suo posto. Durante la repubblica italiana diventò membro del collegio elettorale dei dotti. Morì in Milano il 24 agosto 1803.


Ivi


Cui non duol di Caprera e di Moscati?

Conte Carlo Caprara di Bologna il quale fu pure condotto a Cattaro per essere stato del direttorio Cisalpino. Fu in seguito grande scudiere del vice re d’Italia.

Pietro Moscati milanese, celebre medico e fisico, fu del congresso cisalpino, quindi presidente del direttorio e in seguito relegato a Cattaro, donde fu chiamato quasi subito a Vienna ad assistere l’Arciduca Carlo, che trovavasi ammalato. Ritornato in Italia fu spedito ai Comizj di Lione, e ottenne da Napoleone dignità ed onori e la carica di direttore generale della pubblica istruzione..


Ivi


Containi! Lamberti! . . .

Conte Costabili-Containi di Ferrara membro del direttorio Cisalpino, in seguito deputato ai Comizj di Lione e per ultimo consigliere di Stato e intendente dei beni della corona del regno d’Italia, anch’egli deportato a Cattaro.

Luigi Lamberti di Reggio in Lombardia, dotto ellenista e letterato. Fu prima segretario del legato pontificio a Bologna; trasferitosi in seguito a Roma, strinse amicizia col celebre Ennio Quirino Visconti e col Monti. [p. 107 modifica]Venuto a Milano durante la Cisalpina fu membro del corpo legislativo ed uno de’ più validi oppugnatori della strana legge proposta in favore della poligamia. Trasportato a Cattaro cogli altri colleghi, si occupò in ricerche scentifiche. Di ritorno in Italia fu nominato dell’Istituto italiano. Tra le altre sue opere, pubblicò alcune dottissime illustrazioni filologiche sul testo di Omero delle quali si valse assaissimo il Monti per la sua traduzione dell’Iliade. Morì in Milano verso la fine del 1813.

Tutti costoro, tranne l’Adelasio furono grandi amici del poeta: e l’abate Beccattini, cattivo scrittore di quei tempi, fu ’l miserabile che gli denunciò insieme ad altri molti al commissario imperiale Cocastelli.

V. Apostoli, lettere Sirmiensi.




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Canto Secondo


Pagina 31


Sai che col senno e col valor la briglia ec.

Qui l’autore accenna la spedizione in Egitto fatta da Napoleone affine di avere, colonizzando quel ricco paese, il vero punto d’appoggio onde rovesciare il dominio politico e mercantile degl’inglesi nell’India. Ad intelligenza di questo squarcio ritrarremo in breve i fatti istorici a cui si allude. Non appena Bonaparte aveva posto piede nell’Egitto che gl’inglesi strinsero lega colla Porta ottomana, la quale adunò bentosto due poderosi eserciti, di cui l’uno comandato da Gezzar, pascià della Siria, doveva da questa provincia entrare nell’Egitto, e l’altro sotto gli ordini di Mustafà pascià doveva sbarcare ad Abukir spalleggiato dall’armala inglese capitanata da Sidney Smith. Napoleone avvertitone, con quella celerità di concepimento che fu in lui prodigiosa, uscì dal Cairo con dieci mila uomini, giunse in pochi giorni ad El-Arisce’, piccola fortezza all’ingresso dell’Egitto dalla parte della Siria, la quale era caduta in potere dell’antiguardo di Gezzar pascià, e la costrinse ad arrendersi. Di qui, attraversando un deserto di 150 miglia, dove egli e i suoi soldati furono soggetti ad ogni sorte di patimenti, penetrò nelle fertili e ricche pianure di Gaza, memorabili nella storia delle crociate, e dove dopo tanti secoli non si era mai veduta orma di esercito europeo. Gaza capitolò al primo presentarsi dell’esercito vincitore: pochi giorni dopo [p. 109 modifica]marciò contro Jaffa, che fu presa d’assalto, e la guarnigione turca passata a fil di spada. Intraprese in seguito il celebre assedio di Ascalona o S. Giovanni d’Acri, dove Gezzar pascià aveva raccolto il meglio delle sue forze ed era soccorso dagl’inglesi. I francesi con una costanza ed una audacia incredibili erano montati più d’una volta all’assalto, una parte della città era già presa, e lo stesso Gezzar s’era imbarcato per salvarsi, quando improvvisi rinforzi giunsero a rinfrescare l’abbattuto coraggio dei turchi. Napoleone continuando l’assedio per qualche settimana avrebbe potuto egualmente pigliare la città; ma avvisato che l’altro esercito stava già per isbarcare ad Abukir, credette più vantaggioso di andarlo ad incontrare prima che si potesse congiungere coi mammalucchi. Durante l’assedio di S. Giovanni, Kleber, il quale con una divisione di quattro mila uomini era stato spedito contro ad un esercito di turchi, avvenne che trovassesi investito presso al monte Tabor da venti mila di costoro comandati da Damas pascià. Napoleone volò in suo soccorso, e lungo la via battè numerosi corpi di ottomani a Nazaret, a Saffet, a Canaan e nei contorni del Giordano, e finalmente nei piani di Esdrelona alle falde del Taborre sconfisse l’esercito di Damas pascià, il quale oltre a cinque mila uomini, perdette tutto il suo ricco bagaglio militare. Malgrado la ritirata dei francesi da S. Giovanni d’Acri, le perdite del pascià della Siria erano sì gravi, che non ebbe il coraggio d’inseguirli. Intanto Mustafà pascià e Sidney Smith erano sbarcati ad Abukir, in quella stessa rada dove un anno prima la squadra navale francese comandata dall’ammiraglio Brueys era stata annichilata da Nelson. Napoleone giunse in tempo onde cancellare quella macchia. L’esercito di Mustafà fu tagliato a pezzi, egli stesso ferito dovette arrendersi con tutto il suo stato maggiore, Sidney Smith potè appena salvarsi sopra una scialuppa, e più di quindici mila turchi si annegarono in mare, volendo [p. 110 modifica]nella confusione salvarsi sopra le navi. Qualche settimana dopo, avvertito Napoleone dei disordini che regnavano in Francia, abbandonò segretamente l’Egitto, apparve inaspettato a Parigi, dove rovesciò il ridicolo governo degli avvocati e si fece proclare primo console. Napoleone era acquistata in Egitto una così fatta stima, che gli arabi gli davano il titolo fastoso di Sultan Kèbir, ch’egli poi per bizzarria interpretava padre del fuoco. Gli arabi sogliono dare ai loro principi il titolo di sultan (signore, padrone) e l’addiettivo kèbir significa grande, ond’essi lo chiamavano superlativamente il sultano grande.


Pagina 31


. . . . . . . . e l’onda che sul dorso
Sofferse asciutto il piè di Barïona:

Il lago di Genezaret nella Galilea, sul quale Pietro detto Simone Barjona volle camminare onde andare incontro a Gesù Cristo..


Pag. 32


. . . . . . . . che al doloroso
Di Cesare rival fu sì mal fido.

Pompeo, il quale sbarcando in Egitto vi fu fatto assassinare da Tolommeo..


Ivi


Narrò l’infamia di Scherer conquiso.

Scherer, generale in capo dei francesi in Italia, intanto che Bonaparte era in Egitto, fu confitto dagli austro-russi presso Verona, onde ritiratosi cogli avanzi del suo esercito sopra l’Adda, cedette, per ordine del Direttorio il comando a Moreau. ― V. Botta


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Pagina 33


Fu di Camillo all’ire generose,
E di lui che crollò de’ trenta il regno.

Camillo quando vendicò Roma dai Galli, e Trasibulo che cacciò i trenta tiranni da Atene.


Ivi


. . . . . di là dove alla diurna,
Lampa il corpo perd’ombra . . . . . . . . .

L’Egitto, paese situato sotto il tropico del Cancro, dove i corpi nei giorni solstiziali presentano poca o niuna ombra. Era celebre a Siene un pozzo, dove il sole, precisamente perpendicolare ad esso nel suo passaggio del Cancro rifletteva per entro le acque la sua immagine.


Pag. 34


. . . . . . . . Massena, ec.

Dopo la rottura del trattato di Campo-Formio, cioè mentre Napoleone era in Egitto, i confederati avevano convenuto a questo modo; che gl’inglesi sbarcherebbono un esercito in Olanda, gl’imperiali ed i russi discenderebbono in Italia ed attaccherebbono la Svizzera, alleata colla Francia. Gl’inglesi infatti, sotto gli ordini del duca di Yorck e secondati dai partigiani del principe di Orange, essendo sbarcati in Olanda, riuscirono ad impadronirsi della flotta batava che ancorava nel Texel: ma battuti in seguito a Bergen dall’esercito del generale Brune, e avviluppati nelle paludi del Zyp, il duca di Yorck per salvarsi fu costretto ad una capitolazione non troppo onorevole per le armi britanniche, e che lo obbligava a sgomberare con tutte le sue truppe l’Olanda. Gli austro-russi [p. 112 modifica]furono ben più fortunati in Italia, dove gli errori del Direttorio e dei generali francesi fecero perdere in pochi mesi i frutti delle vittorie di Bonaparte. Nondimeno Massena, che occupava la Svizzera, riuscì con piccolo esercito a battere gli austriaci nei Grigioni: e in seguito i generali russi Korsakoff e Suaroff, essendosi presa a loro carico tutta la guerra elvetica, furono sì fattamente rotti da Massena presso a Zurigo, che furono costretti a cercare una fuga per la via dei monti, e a trovare coi pochi avanzi del distrutto esercito il gelato loro clima.


Pagina 35


Cinque tiranni . . . . . . . . . .

I membri del Direttorio esecutivo erano cinque: e sedevano allora Barras, l’abate Sieyes, Moulins; Royer-Ducos e Gohier; l’uno più dell’altro incapaci di governare una nazione com’era allora la Francia..


Ivi


Fine agli odj promise: ec.

La prima bisogna di Napoleone appena salito al consolato fu quella di conciliare o d’ingannare i partiti, ch’erano al sommo della discordia; d’indurre colla dolcezza i capi della Vandea a deporre le armi; di riformare l’amministrazione interna ch’era nel peggiore disordine, e infine di riordinare gli eserciti, i quali erano ridotti a tanto, che più non ne meritavano il nome; e se Napoleone fu grande in molte cose, in questa, parte ha superato sè stesso, dacchè la Francia, la quale a que’ tempi era stimata preda sicura degli alleati, in pochi mesi si trovò in grado di far tremare l’Europa.


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Pagina 35


. . . . . . . . nuovo Fabio, ec.

Moreau, preposto, da Bonaparte al comando dell’esercito del Reno, entrò nella Germania, battè in più riprese il maresciallo Kray e costrinse a Parusdorf gl’imperiali, ad un armistizio.


Pag. 36


Apriti, o alpe . . . . . . . .

La memorabile discesa del S. Bernardo.


Pag. 37


Dodici rocche aprir le ferree porte.

In conseguenza di un armistizio conchiuso subito dopo la battaglia di Marengo, gli austriaci dovettero consegnare a Napoleone tutte le fortezze dell’alta Italia in numero di dodici. — V. Botta


Pag. 38


V’eran leggi; il gran patto era solenne;

La costituzione della repubblica Cisalpina fa malmenata e contorta per ogni verso dal Direttorio francese, il quale trattava l’Italia più da paese di conquista che da confederata repubblica.


Pag. 39


. . . . . . . . Libetra,

Fontana dedicata alle Muse, dette perciò Libetridi. È una staffilata al Gianni ed al Lattanzio.


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Pagina 39


E quel sottile ravegnan patrizio

Il conte Guiccioli di Ravenna, membro del corpo legislativo, il quale aveva accusato, il Monti e l’Oliva intorno alla loro amministrazione in qualità di commissarj ordinatori dell’Emilia. Il Monti per ricambio rivelò al Direttorio cisalpino i mali acquisti del Guiccioli; la qual cosa non fece altro che inasprire viemmaggiormente la rabbia de’ suoi nemici, ond’ebbe a perdere la carica ed a soffrire non pochi disgusti. Brunello di Maganza, uomo pieno di frodi e d’inganni il quale figura molto nel poema dell’Ariosto.



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Canto Terzo


Pagina 47


. . . . . . . . . e libertate
In Erinni cangiò . . . . . . . .

* Ecco la libertà che ho tanto vilipesa nella Bassvilliana. La convenzione nazionale era in quei miseri tempi una congrega non d’uomini, ma di furie, e la Francia tutta un inferno. Spento Robespierre, spenti quei codardi che spinsero al patibolo i più generosi, la Francia mutò fisonomia e la cantica fu interrotta. Ed ora che il mondo sembra finalmente tornato alla saggezza, ora che la Francia, altamente detesta ciò ch’io prima ho esecrato, vi sarà chi pur tragga da quel poema il pretesto, di calunniare la fermezza de’ miei principj? Oh imbecilli! Chi siete voi che tacciate di schiavo il libero autore dell’Aristodemo? Lo conoscete voi bene? Sapete voi che al pari della tirannide che porta corona, egli abborre quella che porta berretto? Ho sospirato, e sospiro ardentemente l’indipendenza dell’Italia, ho rispettato in tutti i miei versi religiosamente il suo nome, ho consacrato alla sua gloria le mie vigilie, ed ora le consacro coraggiosamente me stesso, gridando in nome di tutti la verità. Cicerone e [p. 116 modifica]Lucano, Dante e Machiavello si sono abbassati all’adulazione necessaria a’ lor tempi. Ell’era più necessaria a quelli ne’ quali io scriveva: ma ne’ secoli corrotti la virtù è sostenuta dai vizj, e il delitto apre la strada alle magnanime imprese. O tu che accusi la mia debolezza, che pur non fu dannosa ad alcuno, perchè poi non imiti il mio coraggio che può riuscire a vantaggio comune? Sei dunque tu il vile non io. Or va, miserabile; e in vece di predicar la libertà di Catone coll’anima di Tersite va a banchettare alle cene di Ecate per non morir di fame sul trivio.


Pagina 48


. . . . . . . . un Robespiero?

Massimiliano Robespierre era un avvocatuzzo ignorante, senza spirito e che sarebbe vissuto per sempre nell’oscurità, ove il caso che a que’ tempi tutto poteva, non lo avesse esaltato con quella stessa facilità con che dappoi lo ha abbattuto.


Pag. 50


Taccio il nembo di duol che denso imbruna
Tutto d’Olanda il ciel, ec.

L’Olanda e la Svizzera come già fu detto, erano state esse pure invase nel 1799 dai confederati contro la Francia.


Pag. 54


Dalla parte ove rota il suo viaggio
La terra, e obliqui al sole invia gli sguardi,

La terra inclinata ai poli di ventitre gradi e mezzo sull’eclittica, nella sua rotazione guarda appunto obbliquamente il sole.


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Pagina 55


. . . . . . . . . . e tutta svolse
Del piacer la sottile anatomia.

Allude all’ingegnoso trattato del Verri: Sull’indole del piacere e del dolore.


Pag. 56


Di colei che fa il tutto, e cela il come;

Intende la natura.



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Canto Quarto


Pagina 62


Che far poteva autorità? Deporse,
Gridò fiero Parini.

Narrasi a questo proposito un molto curioso aneddoto. Il consiglio legislativo della Cisalpina, di cui Parini era membro, teneva la sua adunanza nello stesso luogo dove siedeva l’antica Cameretta e dov’eravi un gran crocifisso, che un giorno alcuno di quegli esaltati repubblicani fece levar via. Giunto Parini e non vedendo più il crocifisso, chiese fieramente ai colleghi; Dov’è il cittadino Cristo? Al che eglino, ridendo e motteggiando, risposero averlo fatto riporre altrove perchè non aveva più nulla a fare colla nuova repubblica. Ma l’austero poeta soggiunse: ebbene, quando non c’entra più il cittadino Cristo, non c’entro più nemmen’io. E si dimise immediatamente dal suo ufficio.


Pagina 64


V’ha chi, ventoso raschiator di cetra, ec.

L’accocca di nuovo al Gianni cui dice: segnato da Dio perchè era gobbo. Vetra, piazza in Milano dove si faceva giustizia de’ malfattori.


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Pagina 65


Altri è schiuma di prete, ec.

Fu in que’ tempi di depravata libertà in cui si videro preti e frati apostatare tra le oscene danze intorno all’albero della libertà; o predicare intolleranti e feroci principj d’irreligione e di scostumatezza.


Pag. 66


. . . . . . . . ove superbe
Strinser catene al re de’ franchi i polsi.

Nelle campagne di Pavia accadde la famosa battaglia in cui Francesco I, re di Francia, fu fatto prigioniero dall’esercito di Carlo V.


Pag. 67


Vidi ’l campo ove Scipio giovinetto, ec.

Accenna la battaglia del Ticino, trionfata da Annibale, in cui restò ucciso Paolo Emilio, del quale Scipione affricano era figliuolo adottivo.


Ivi


Che vita infonde pe’ contatti estremi
Di due metalli . . . . .

La teoria del magnetismo animale e dell’elettricità del Galvani, perfezionata dal Volta colla sua prodigiosa invenzione della pila, a cui applicata una rana scorticata e senza capo, fa a un di presso gli stessi salti come se fosse viva.


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Pagina 68


Di tebani concenti e venosini

Dicesi che Amfione edificasse le mura di Tebe col suono della sua cetra. Allude fors’anco a Pindaro, ei pure tebano. Orazio al quale il Parini, più che ad ogni altro, somiglia nelle sue odi, era di Venosa.


Ivi


Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso
Sculto un sasso funebre . . . . .

Da’ cultori di tanto poeta singolare gratitudine merita l’avvocato Rocco Marliani, che a Erba, nello splendido ed elegante edifizio della sua villa Amalia, consacrò un monumento allo spirito dell’amico suo. La tomba è protetta da una macchia di lauri, e il sole cadente manda cogli ultimi suoi raggi sovr’essa la lung’ombra di un antico cipresso. Esce da un organo sotterraneo un suono melanconico, inaspettato dal passaggiere. Nel monumento v’è ’l busto in marmo del poeta, e nella lapide leggonsi scolpiti que’ suoi versi:

Qui ferma il passo, e attonito
Udrai del tuo Cantore
Le commosse reliquie
Sotto la terra argute sibilar.

E chi da quella collina volge l’occhio al lago di Pusiano, vede la terra (di Bosisio) ove nacque il Parini, e il vago Eupili (il lago anzidetto) ch’egli cantò, e dov’ei cercava conforto alle sue membra afflitte dalla infermità, e riposo all’animo suo, stanco della fortuna e del mondo.

Prefazione dell’Editore dei Sepolcri di Ugo Foscolo, ec. Brescia, 1808.


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Pagina 72


Quindi al fiume, ove tardi diffinite
Fur l’italiche sorti.

All’Adige dove Scherer fu vinto dagli austriaci.


Pag. 73


Che non Ascra, non Chio, ec. . . .

Ascra, villaggio della Beozia sacro alle Muse e patria di Esiodo. Chio una tra le sette contendenti per la patria di Omero.



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Canto Quinto


Pagina 75


Oh d’ogni vizio fetida sentina
Dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa
Ariosto, Orl. Fur., Canto XVII, 76.


Pagina 77


Fra i boati di barbaro latino
Son tre secoli omai ch’io mi dormia
Nel tempio sacro al divo di Cassino.

L’Ariosto, morto in Ferrara il 6 giugno del 1533, era stato sepolto senza alcun onore nella chiesa de’ Benedettini. (È noto che S. Benedetto fu il primo istitutore della vita monastica in occidente e fondatore del monastero di Monte Cassino). Quarant’anni dopo, Agostino Mosti, gentiluomo ferrarese, ornò la tomba di quell’illustre con iscrizioni e bassi rilievi: ma nel 1612 un pronipote del poeta gli fece erigere un magnifico sarcofago, ove con sacra cerimonia ne fece deporre le ossa. Un terzo trasporto più [p. 123 modifica]solenne fu fatto non solo delle sue ceneri, ma pur anco di tutto il gran deposito, dalla lontana chiesa di S. Benedetto sino al palazzo delle scuole, detto volgarmente lo Studio pubblico e vicinissimo all’antica paterna casa dell’Ariosto, dove in faccia alla seconda sala della Biblioteca fu onorevolmente collocato. In questa circostanza i mortali avanzi del poeta, trovati sepolti in terra sotto al monumento e in luogo assai umido, furono riposti, con medaglia di metallo, entro cassa di cipresso e chiusi in alto dietro la grande iscrizione in pietra nera. Questa cerimonia, solennizzata per due giorni di festa e da prose e rime stampate, ebbe luogo dopo la seconda venuta de’ francesi in Italia nel 1801, e nel giorno anniversario della morte dell’Ariosto. Il Monti, per una licenza convenevole alla poesia, fa un anacronismo indietreggiando questo avvenimento di qualche anno.


Pagina 82


. . . . . . . . la Carisenda:

E questa una torre in Bologna, detta anche la torre mozza, la quale è inclinata in guisa che sembra voglia cadere.


Pag. 83


Ed il felsineo vidi Anacreonte
Cacciato di suo seggio . . . . . . . .

Il conte Lodovico Savioli senatore bolognese e autore delle eleganti canzonette intitolate AMORI. Malcontento delle riforme che il cardinale Buoncompagni voleva introdurre in Bologna, si unì agli oppositori, onde fu nel numero de’ senatori disgraziati dal papa. Al contrario, favoreggiatore delle nuove opinioni repubblicane, fu dalla [p. 124 modifica]repubblica Cispadana spedito deputato a Parigi, e nel 1803 dalla repubblica italiana ai Comizj di Lione. Nominato da Napoleone membro del Corpo legislativo, abbandonò bentosto questa carica per quella di professore di diplomazia a Bologna, dove morì nel 1804.


Pagina 83


. . . . . . . Palcani:

Luigi Palcani di Bologna fu professore di eloquenza nella patria università e morì in Milano nel 1803, di ritorno dai Comizj di Lione, dov’era stato spedito dalla repubblica italiana. Egli, uomo saggio, erudito e profondo, e più dedito ai pacifici studj che agl’intrighi dell’ambizione, prese poca parte alle vicende de’ suoi tempi. Ci rimangono di lui alcune prose dove si vede come sapess’egli costringere molta dottrina in poco volume.


Ivi


. . . . . . . . . Canterzani

Canterzani esimio professore di Matematica nell’università di Bologna sua patria. Avendo egli pure favoreggiato le nuove opinioni repubblicane, fu nel 1799 privato della carica e molestato da non pochi disgusti.


Pag. 84


O virtù, come crudo è il tuo destino ec.

Il Monti per le cabale de’ suoi nemici, tra i quali il Gianni, privato d’ogni carica ed in istrettissime angustie, intendeva recarsi a Roma, dove gli era stato promesso un nuovo collocamento; ma accortisi i suoi avversarj, brigarono tanto che, ov’egli non fosse stato trattenuto tuttavia in Milano dalle istanze del Paradisi e del [p. 125 modifica]Containi, avrebbe intrapreso un viaggio indarno e fors’anco alla sua peggiore. Le seguenti parole sue serviranno a schiarimento de’ suoi versi. “Questa inaudita persecuzione, questo inumano disegno di non lasciarmi angolo della terra che mi accogliesse, mi prostrò, lo confesso, tutte le forze, e colla spada del dolore nell’anima stetti per profferire la bestemmia di Bruto. La soffocò una consolante sentenza di Socrate: gli Dei hanno mandata la virtù sulla terra, accompagnata dalla sventura. Questa considerazione ravvivò il mio coraggio abbattuto„. — Lettera al Bettinelli.

Bruto, essendo presso ad uccidersi, esclamò, secondo che narra Plutarco: O virtù, che se’ tu mai se non che un nome vano sulla terra, dacchè la fortuna di continuo ti soverchia. Anche Luciano pinge, in un suo dialogo, la virtù avvilita e calpestata dalla fortuna, nuda e lacera, che aspetta giustizia alla porta della casa di Giove.


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Stanca del rubro fiumicel la riva
Che Cesare saltò, rotto il decreto.

Il Rubicone era la linea di confine del governo delle Gallie affidato a Giulio Cesare dal senato.


Ivi


Spero io ben che’l mio Melzi, a cui rivola
Della patria il sospiro . . . .

Francesco Melzi di Eril, in appresso duca di Lodi, fu uno de’ più saggi e più illuminati cittadini di Milano. Riparatosi a Parigi per l’invasione degli austro-russi, fu dopo la battaglia di Marengo nominato da Bonaparte a vice-presidente della repubblica italiana, che governò per quattro anni con molto senno e prudenza.


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Pagina 87


Sovra’l libero mar le rugiadose
Figlie di Dori uscir . . . .

Allude al trattato d’Amiens tra la Francia e l’Inghilterra, per cui restava libero il commercio marittimo; ma che non durò che un momento perchè quest’ultima negò di rendere Malta, siccom’era convenuto. Così l’egoistico possesso di quell’isola per gl’inglesi costò all’Europa lo sterminio di più milioni d’uomini e un mare di pianto.



FINE


Note

  1. Note dell’Autore sono quelle segnate coll’*