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454 | ATTO SECONDO |
Ottavio. Niente, amico, niente, cognato mio. Vi compatisco. So che mi amate, e che per zelo vi riscaldate. Per l’avvenire sarà finita; ma convien rimediare ai disordini, ne’ quali sono caduto.
Florindo. Quali sono i disordini che vi dan peso?
Ottavio. In confidenza. Non ho denari, e sino che non mi giungono delle rimesse di casa mia, non so come fare a sussistere.
Florindo. Non saprei... Se la mia scarsa tavola non vi dispiace, siete padrone di servirvene finche volete.
Ottavio. Voi siete ospite del signor Celio.
Florindo. Il signor Celio mi favorisce il quartiere. La tavola la faccio io.
Ottavio. Non è la tavola che mi dia pena. Le mie angustie sono maggiori. Ho de’ debiti, e ho da pensare a pagarli.
Florindo. Debiti di giuoco?
Ottavio. Debiti che mi conviene pagare.
Florindo. Caro amico, se aveste badato alle mie parole...
Ottavio. Ora non è più tempo di suggerimenti o di correzioni. Ho bisogno d’aiuto; e voi, se mi siete amico, riparate la mia riputazione, soccorretemi nelle mie angustie.
Florindo. I debiti vostri a quanto ascenderanno?
Ottavio. A trecento zecchini.
Florindo. La somma non è indifferente. Mi dispiace non potervi servire.
Ottavio. Non mi darete ad intendere di non potere; dite piuttosto, che non volete. Diffidate forse di me?
Florindo. No, ma sono anch’io lontano di casa mia. Questa somma non è in mio potere.
Ottavio. Mi servirebbono anche dugento.
Florindo. Non li ho, vi dico...
Ottavio. Anche cento, per ora.
Florindo. Sì, anche cinquanta sarebbero il caso vostro, per rigiocare colla speranza di vincere.
Ottavio. Il vostro zelo, compatitemi, sente assaissimo della pedanteria.
Florindo. E il vostro animo ha un po’ troppo della doppiezza.