Il vecchio bizzarro/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Casino di giuoco con tavolini e sedie.
Martino che taglia alla bassetta ad un tavolino, Ottavio e Florindo che puntano.
Ottavio. Va il due a quattro ducati.
Martino. Va. Do xe andà.
Florindo. Signor Ottavio, oggi avete la fortuna contraria. Vi consiglio non riscaldarvi.
Ottavio. Lasciatemi fare. Non mi parlate sul giuoco.
Martino. Do ha perso. Voggio quattro ducati. (mescola le carte)
Ottavio. Già lo sapeva. Sia maledetto chi mi parla sul giuoco.
Florindo. Se parlo, lo faccio per vostro bene. Se non aveste ad essere mio cognato, non parlerei.
Ottavio. Se maritandomi credessi di dover ritornare ad essere figlio di famiglia, vorrei lacerare il contratto.
Florindo. Ed io, se credessi di rovinar mia sorella con un giocatore ostinato, vorrei domani partir di Venezia, e ricondurla a Livorno.
Ottavio. Conducetela dove volete. Due al resto di venti ducati.
Florindo. Non avete parlato ad un sordo.
Martino. Do al resto de vinti ducati. La diga, paron, che monede zoghemio?
Ottavio. Sono un uomo d’onore. Son conosciuto. Se vincerete, vi pagherò.
Florindo. (Se torna da me per aver denari, non gliene do più certamente). (da sè)
Martino. Do. Voggio vinti ducati. (mescola le carte)
Ottavio. Per pietà, Florindo, andate via.
Florindo. Questo è casino pubblico. Voi non avete autorità da scacciarmi.
Ottavio. Non vi discaccio. Vi prego non mi dar soggezione.
Florindo. Vergognatevi. (s’alza, e parte)
Ottavio. Al due alla pace.
Martino. Do a far pace. (taglia)
SCENA II.
Pantalone e detti.
Pantalone. Schiavo, patroni.
Martino. Schiavo, sior Pantalon.
Pantalone. Compare Martin, sioria vostra. Come vala?
Martino. La sticchemo1.
Ottavio. Si giuoca, o non si giuoca? (a Martino)
Martino. Do alla pace. Son con ela; no la se scalda, patron.
Pantalone. Va un ponto.
Martino. Va quel che volè.
Pantalone. Se contentela? (ad Ottavio)
Ottavio. Sì, ho piacere che mi accompagniate il punto.
Pantalone. Otto a un ducato. (mette il ducato)
Martino. Otto, ponto stravagante: va l’otto.
Pantalone. E se me lo dè, vederè cossa fazzo.
Martino. Lo metteu al più?
Pantalone. Tirè de longo.
Martino. Otto, avè vadagnà. Va altro?
Pantalone. Lassè veder mo.
Martino. Tolè el ducato.
Pantalone. Ghe l’ho cavada. Lo metto in berta2, e no zogo altro.
Martino. Compatirne, compare, no la xe da par vostro.
Pantalone. Ste otto lire le vago a goder all’ostaria. Semo quattro amici, ve faremo un brindese.
Martino. Eh via, mette la vostra segonda.
Pantalone. I me aspetta. No zogo altro.
Ottavio. Badate a me, signore, che ho messo una posta di venti ducati. Non mi state a seccare per un ducato. (a Martino)
Martino. Caro sior, stimo più quel ducato, che no stimo i so vinti.
Ottavio. Per qual ragione? Avete timore ch’io non vi paghi?
Martino. No so gnente. (giuoca)
Pantalone. (Vegnighe sotto a ste giozze). (da sè)
Martino. Do, vôi quaranta ducati.
Ottavio. Va.
Martino. No va altro.
Ottavio. Mantenetemi giuoco.
Martino. Quaranta ducati, no voggio altro. (s’alza e mette via il denaro)
Ottavio. Me ne avete guadagnato cento in contanti.
Martino. Me despiase che i sia pochetti.
Pantalone. (Oh che fio!) (da sè
Ottavio. Non è giocare da galantuomo.
Martino. Védela ste carte? Cossa vorla zogar, che ghe dago el ponto in fazza?
Ottavio. Che punto in faccia? Siete voi3 baratore.
Martino. A mi barador? De sta parola me ne rendere conto.
Pantalone. Via, molèghe4, sior Martin, molèghe.
Ottavio. Son capace di darvi qualunque soddisfazione.
Pantalone. Sior foresto, no la se scalda.
Ottavio. La spada la so tenere in mano.
Pantalone. Vardè, se passasse quel della semola5.
Martino. Ve la magnerò quella spada.
Pantalone. Cavève, sior buio magro. (a Martino)
Martino. Sior Pantalon, co mi no ve ne impazzè.
Pantalone. Coss’è, ve bruselo quel ducato che avè perso?
Ottavio. Colui è un briccone. (a Pantalone)
Martino. A mi briccon? (mette mano a uno stile)
Pantalone. Via, sier canapiolo6. (con un pugnale lo fa star indietro)
Ottavio. Ti ucciderò. (mette mano alla spada)
Pantalone. Alto là, patron. (si mette contro Ottavio)
Martino. Vien avanti.
Pantalone. Cavève. (a Martino)
Martino. Son capace...
Pantalone. Cavève, ve digo. (minacciandolo)
Martino. Anca vu contro la patria?
Pantalone. No xe vero gnente. Son un bon venezian. Per i mii patrioti son capace de farme taggiar a tocchi, ma no posso soffrir che un Venezian fazza una mala grazia a un foresto. Gh’avè torto, sior. Gh’avè vadagnà i bezzi, e l’avè piantà malamente. No digo che fussi obbliga a mantegnirghe ziogo sulla parola; ma a un omo che ha perso, a un omo che xe caldo dal zogo, no se ghe parla cussì. El ponto in fazza? El stiletto in man? I omeni onorati no i fa cussì.
Martino. Voggio i mi quaranta ducati.
Pantalone. Adesso no i podè pretender; doman la discorreremo.
Martino. Vu no gh’intrè per gnente. (a Pantalone)
Pantalone. Se no gh’intro, ghe voggio intrar; e andè via de qua.
Martino. Sangue de diana!
Pantalone. Qua no ghe xe siora Diana, nè siora Stella. Andè via, che sarà meggio per vu.
Martino. Coss’è sto manazzar7? Voggio star qua.
Pantalone. Via, sior cagadonao8. (minacciandolo)
Martino. Se catteremo9. (fuggendo via)
SCENA III.
Ottavio e Pantalone.
Pantalone. Polentina calda.
Ottavio. Signore, sono obbligato al vostro cortese amore, ma credetemi che colui non mi faceva paura.
Pantalone. Me par de cognosserla ela.
Ottavio. Sono Ottavio Gandolfi per obbedirvi.
Pantalone. El novizzo de siora Flamminia?
Ottavio. Sì signore, quello che doveva sposare la signora Flamminia. La conoscete?
Pantalone. La conosso, perchè la sta in casa de sior Celio, mio caro amigo.
Ottavio. Sì, è venuta a Venezia in compagnia della signora Clarice, nipote del signor Celio.
Pantalone. E ela, paron, xela vegnua con lori?
Ottavio. Non signore; io sono qui da tre anni in circa per una lite. In Livorno eravamo amici con il signor Fiorindo, e qualche trattato vi fu sin d’allora fra la di lui sorella e me: ora poi, coll’occasione che ci siamo riveduti, si è ripigliato l’affare, e si è anche quasi concluso.
Pantalone. Ghe vala in casa del sior Celio?
Ottavio. Poche volte.
Pantalone. Digo ben; mi no ghe l’ho mai vista.
Ottavio. Vossignoria pratica dunque in quella casa.
Pantalone. Sior sì, semo amici co sior Celio. El xe un bon galantomo. Pecca che el patissa i flati ipocondriaci. La10 saverà anca ela; el xe un raner11 de vintiquattro carati.
Ottavio. E bene altrettanto spiritosa la di lui nipote.
Pantalone. La conossela siora Clarice?
Ottavio. L’ho conosciuta a Livorno, quando colà conviveva il di lei padre, fratello del signor Celio; e poi due volte l’ho qui veduta in casa d’una Fiorentina, in compagnia della signora Flamminia.
Pantalone. La xe fia unica de un pare che negoziava, e de un barba12 che gh’ha del soo. La gh’averà una bona dota.
Ottavio. Dicono però che non arrivi a diecimila ducati.
Pantalone. E siora Flamminia?
Ottavio. Ella ne averà trentamila.
Pantalone. Me ne consolo con ela, signor. La farà un bon negozio.
Ottavio. Signore, ho piacere d’aver avuto la fortuna di conoscervi. Il vostro nome?
Pantalone. Pantalon, per servirla.
Ottavio. Signor Pantalone, all’onore di rivedervi. (in atto di partire)
Pantalone. L’aspetta, patron; perchè, avanti che la vaga via, gh’ho da parlar.
Ottavio. Che cosa avete da comandarmi?
Pantalone. L’ha visto che mi, senza conosserla, solamente per zelo dell’onestà e della giustizia, me son intramesso tra ela e sior Martin, parendome che el trattasse mal, e che el ghe usasse superchieria.
Ottavio. È vero, di ciò vi sono obbligato.
Pantalone. Ma no basta.
Ottavio. Che cosa devo fare di più?
Pantalone. No ala perso sulla parola quaranta ducati?
Ottavio. È vero: li ho perduti.
Pantalone. Bisogna che la li paga.
Ottavio. Li pagherò.
Pantalone. Mo quando li pagherala?
Ottavio. Aspetto le mie rimesse.
Pantalone. No s’ha da aspettar le rimesse. La li ha da pagar drento de vintiquattro ore.
Ottavio. Colui che mi ha guadagnato, non è persona che meriti una rigorosa pontualità.
Pantalone. La pontualità, patron caro, no la riguarda quel che ha da aver, ma quel che ha da dar. Avanti de zogar, bisognava considerar se el ziogador giera degno de ela; adesso el xe un creditor, e un creditor de zogo, che in ogni maniera s’ha da pagar. Mi m’ho intromesso, perchè nol ghe usa un insulto, ma no perchè nol sia sodisfà; e adesso, oltre la so reputazion, ghe xe de mezzo la mia, e ghe digo che la lo paga, e se no la lo pagherà, l’averà da far con mi. La toga la cossa da bona banda. Son un omo che parla schietto, son uno che non ha mai sofferto bulae; ma che ha sempre condannà le cattive azion. La ghe pensa, e ghe son servitor. (parte)
SCENA IV.
Ottavio, poi il Servitor del casino.
Ottavio. Anche questi mi vuol soverchiare. Ma no; per dir il vero, ha ragione; parla da uomo, e deggio arrendermi alla verità. Ho perduto, mi convien pagare. Vi va della mia riputazione. Quest’uomo pratica in una casa, dove son conosciuto. Chi è di là?
Servitore. Comandi.
Ottavio. Vi è il mio servitore?
Servitore. Sì signore; vi è.
Ottavio. Che venga qui.
Servitore. La servo. (parte)
SCENA V.
Ottavio, poi Brighella.
Ottavio. Il non aver denari non è scusa che basti nelle contingenze in cui sono; conviene ritrovarne, e pagare.
Brighella. Son qua alla so obbedienza.
Ottavio. Brighella, ho bisogno di te.
Brighella. La me comandi.
Ottavio. Ho perduto al giuoco. Ho necessità di denaro. Prendi quest’anello, e trovami cinquanta zecchini.
Brighella. Vederò de servirla... ma me despiase...
Ottavio. Che cosa?
Brighella. Che se stenta a trovar danari senza pagar un diavolo de usura.
Ottavio. Ingegnati. Fa quel che puoi. Migliora il negozio più che sia possibile; ma soprattutto la prestezza ti raccomando.
Brighella. Se è lecito, ala perso assae sulla parola?
Ottavio. Quaranta ducati d’argento.
Brighella. E la vol cinquanta zecchini?
Ottavio. Ho da restar senza un soldo?
Brighella. La tornerà a zogar.
Ottavio. Sì, voglio veder di rifarmi. (parte)
Brighella. Sior anello carissimo, sentì el pronostico che ve fa un vostro bon servitor. Vu passare in tele man de un omo da ben, che ve custodirà con zelusia e con amor, e no vederè più la fazza del vostro primo patron. Se lu el ve repudia, troverà chi ve sposerà, ma se mi ho da esser el vostro mezzan, sior anello carissimo, ha da toccar a vu a pagarme la sansaria. (parte)
SCENA VI.
Camera di Celio.
Celio, poi Traccagnino.
Traccagnino. Signor.
Celio. Portami uno scaldino con del fuoco.
Traccagnino. La servo.
Celio. Aspetta. Guardami un poco in viso. Che ti pare? Sono pallido? Ho cattiva ciera?
Traccagnino. Se sì grasso come un porco.
Celio. La grassezza non serve. Bisogna osservare il color del viso.
Traccagnino. Sì rosso come un gambaro.
Celio. Rosso? Assai rosso?
Traccagnino. Rosso come el scarlatto.
Celio. Mi sento del calore alla testa. Dammi uno specchio.
Traccagnino. Un specchio? Da cossa far?
Celio. Voglio vedere che sorte di rosso è.
Traccagnino. Eh via, che mattezzi!
Celio. Voglio lo specchio, ti dico.
Traccagnino. El fogo lo vorla?
Celio. No, non voglio altro fuoco. Ho la testa calda.
Traccagnino. Vago a tor el specchio.
Celio. Fa presto... Mi par d’avere le fiamme nel viso.
Traccagnino. (È vero, tutto el so mal l’è in tela testa). (parte, poi ritorna)
Celio. Mi si potrebbe formare una postema nel capo. Questi umori vaganti, questi sieri acri, mordaci, si potrebbero fissare... (si tasta il polso) Ho un polso molto cattivo. (si tasta l’altro) E questo non corrisponde a quest’altro.
Traccagnino. Son qua col specchio.
Celio. Traccagnino, vieni qui13. Tastami un poco il polso.
Traccagnino. El polso? dove?
Celio. Qui, qui, il polso. Non sai dov’è il polso, che ordinariamente si tasta?
Traccagnino. Sior sì, lo so.
Celio. Senti dunque. (gli dà il braccio)
Traccagnino. Mi no sento gnente.
Celio. Non senti battere il polso?
Traccagnino. Dov’èlo el polso?
Celio. Non lo trovi?
Traccagnino. Mi no lo trovo.
Celio. Povero me! Cercalo; senti bene.
Traccagnino. Mi no sento gnente.
Celio. Ah Traccagnino, per carità, va a chiamare il medico.
Traccagnino. Vorla el specchio?
Celio. No... sì... lascia vedere. Non ci vedo. Mi viene qualche gran male. Presto un cerusico.
Traccagnino. Dove l’oio d’andar a cercar?
Celio. Mi manca il respiro. Portami qualche cosa.
Traccagnino. Cossa gh’oi da portar?
Celio. Un bicchier d’acqua. Presto, che non posso più.
Traccagnino. (Sia maledetto i matti). (da sè, e parte)
Celio. Sento che non posso nemmeno parlare. Mi s’ingrossa la lingua.
SCENA VII.
Pantalone e Celio.
Pantalone. Amigo, se pol vegnir?
Celio. Ah, il cielo vi ha mandato.
Pantalone. Cossa gh’è de niovo?
Celio. Tastatemi il polso.
Pantalone. Semo qua colle solite rane.
Celio. Voi non mi credete, ed io mi sento un gran male. Tastatemi il polso per carità.
Pantalone. Con quel muso?
Celio. Ma se ora casco; se non ho più polsi. (tastandosi)
Pantalone. Lassè sentir mo.
Celio. Tenete. (gli dà il polso)
Pantalone. Oh bello! (tastandolo)
Celio. Ah?
Pantalone. Oh caro!
Celio. Che?
Pantalone. Una, do, tre e quattro. (come sopra)
Celio. Quattro, che?
Pantalone. Quattro rane, una più bella dell’altra.
Celio. Va bene?
Pantalone. Sì, el va ben. No gh’ave gnente a sto mondo.
Celio. Sentite quest’altro.
Pantalone. Aspettò, che ve tasterò el polso dove che stè pezo.
Celio. Dove?
Pantalone. Qua, compare. (gli mette una mano sulla fronte)
Celio. È calda la fronte?
Pantalone. I sbazzega14. (scuotendogli il capo)
Celio. Non fate così, che le cervelle si possono distaccare dal cranio.
Pantalone. Amigo caro, me xe sta dito, che stè poco ben, e son vegnù a posta per farve varir.
Celio. Come?
Pantalone. Vegnì con mi.
Celio. Da qualche medico forse?
Pantalone. Sì ben: da un miedego che ve varirà.
Celio. Questo signore non potrebbe venir da me?
Pantalone. Non potrebbe.
Celio. E dove sta?
Pantalone. Poco lontan: al Salvadego15.
Celio. Al Selvatico? All’osteria?
Pantalone. Sì ben, e saveu cossa che ha da esser el vostro medicamento? Magnar, bever, e star allegramente con quattro galantomeni, e vu, che fa cinque.
Celio. Ci verrei volentieri, ma ho paura.
Pantalone. Paura de che?
Celio. Non istò bene. (si tasta il polso)
Pantalone. È sempre col polso in man. Se farè cussì, deventerè matto.
SCENA VIII.
Traccagnino con acqua, e detti.
Traccagnino. Son qua coll’acqua.
Pantalone. Da cossa far?
Celio. Da bevere per me.
Pantalone. Eh, che l’acqua imarzisce i pali. Gh’aveu vin de Cipro in casa?
Celio. Ne ho; ma non ne beverei per tutto l’oro del mondo.
Pantalone. Se no ghe ne beve vu, ghe ne bevo mi. Porta del vin de Cipro. (a Traccagnino)
Traccagnino. Questo l’intende meio del me patron. (parte.)
Celio. L’acqua non volete ch’io la beva?
Pantalone. Sior no. Aspettè un poco.
Celio. (Sì tocca il polso.)
Pantalone. Velo là col polso in man.
Celio. Non mi tocco niente io.
Pantalone. E cussì, vegnìu a disnar con nu?
Celio. Se non avessi paura che mi facesse male.
Pantalone. Lasseve governar da mi, no ve dubitè gnente.
Celio. Ma avvertite che voglio bever acqua.
Pantalone. Lasseve regolar da mi.
Traccagnino. Ecco qua el vin de Cipro. (Traccagnino torna con una bottiglia)
Pantalone. Lassè véder, e andè a buon viazo. (versa il vino nel bicchiere)
Traccagnino. De sto medicamento ghe ne vôi anca mi. (parte)
Pantalone. Se ve dasse sto gotto de vin, lo beveressi?
Celio. Io no.
Pantalone. E se ghe mettesse drento un secreto che gh’ho per el vostro mal, lo torressi?
Celio. Se fosse un medicamento, lo prenderei.
Pantalone. Aspettè; no vôi che vedè cossa che ghe metto. (Si volta, e finge mettere nel bicchiere qualche cosa, versando dell’altro vino.)
Celio. (Sì tocca il polso.)
Pantalone. Bravo!
Celio. Mi pare di star peggio.
Pantalone. Tolè sto medicamento.
Celio. Mi farà bene?
Pantalone. Tolèlo sora de mi.
Celio. Lo prenderò. (beve)
Pantalone. Ve piaselo?
Celio. Non mi dispiace.
Pantalone. Ve par de star meggio?
Celio. Mi par di sì.
Pantalone. Toccheve el polso.
Celio. Va bene, è gagliardo.
Pantalone. Seu forte?
Celio. Fortissimo.
Pantalone. Vegnìu al Salvadego?
Celio. Verrò dove voi volete.
Pantalone. Andeve a vestir, che ve aspetto.
Celio. Vado subito. (parte, toccandosi il polso)
Pantalone. E tocca!
Celio. Son forte, e non ho paura.
Pantalone. Coss’è sta paura? De cossa gh’aveu paura? De morir? Una volta per omo tocca a tutti.
Celio. Oimè! (si tocca il polso, e sputa)
Pantalone. Se farè cussì, deventerè matto.
Celio. Per amor del cielo, non mi parlate di malinconia. Quando sento discorrere di queste cose, mi vengono le convulsioni.
Pantalone. Cossa xe ste convulsion? Adesso tutti patisse le convulsion. I miedeghi dopo tanti anni i ha trova un termine che abbrazza un’infinità de mali, e cussì i la indivina più facilmente. Quel che rovina i omeni, xe la maniera del viver che se usa presentemente. Mi seguito el stil antigo, e grazie al cielo, no patisso nè rane, nè convulsion. La cioccolata e el caffè le xe cosse che insporca el stomego. Do soldetti de malvasia garba xe la mia marendina. Pacchiughi 16 de cuoghi mi no ghe ne magno. Magno roba bona, roba schietta, roba che cognosso e che no me fa mal. Questa xe la maniera de viver un pezzo, e de viver sani. Vu ai vostri zorni avè disordinà; e se no gh’averè giudizio, creperè.
Celio. (Sputa, si tasta il polso, e parte.)
SCENA IX.
Pantalone solo.
Da una banda el me fa da rider. Sempre el se tasta el polso, e col sente a minzonar o morti, o malattie, el spua. E sì anca elo un zorno el xe stà omo de mondo.
SCENA X.
Clarice ed il suddetto.
Clarice. Serva umilissima.
Pantalone. Patrona reverita.
Clarice. Non era qui il signor zio?
Pantalone. El giera qua. El se xe andà a vestir.
Clarice. Voleva dirgli una bella novità.
Pantalone. Possio saverla mi sta novità?
Clarice. O sì, signore. La novità è questa. Il signor Fiorindo vuol ritornare a Livorno con sua sorella.
Pantalone. Ghe despiase che sior Fiorindo vaga a Livorno?
Clarice. Mi dispiacerebbe per causa di sua sorella.
Pantalone. Per causa della sorella, o per causa del fradello?
Clarice. A me mi preme la sorella.
Pantalone. Ma la sorella senza del fradello no la pol star.
Clarice. Vorrei che restassero tutti due.
Pantalone. Védela se l’ho indivinada? Mi co vardo una donna in ti occhi, so subito cossa che la vol.
Clarice. Dice bene il proverbio: il diavolo ne sa, perchè è vecchio.
Pantalone. Mi mo, védela, ghe ne so più del diavolo.
Clarice. Perchè?
Pantalone. Perchè el diavolo delle donne el se fida, e mi no ghe credo una maledetta.
Clarice. Non siete stato mai innamorato?
Pantalone. Mai in vita mia.
Clarice. Fino alla morte non si sa la sorte.
Pantalone. Chi gh’ha bon naso, cognosse i meloni.
Clarice. Eppure so che non vi dispiace il conversar colle donne.
Pantalone. Xe vero: le vardo coi occhi, ma no le vardo col cuor.
Clarice. Chi va al mulino, s’infarina, signore.
Pantalone. Chi gh’ha giudizio, con una scovoletta17 se netta.
Clarice. (Quanto pagherei, se mi riuscisse d’innamorar questo vecchio). (da sè)
Pantalone. (La xe furba: ma la va da galiotto a mariner). (da sè)
Clarice. Eppure siete ancora in istato di far fortuna.
Pantalone. Certo, che gnancora no ho perso la carta del navegar.
Clarice. Il vostro spirito fa vergogna ad un giovane di venti anni.
Pantalone. E de spirito, e de carne, son quel che giera de vinti anni.
Clarice. Si vede. Sarete stato il più bel giovane di questo mondo.
Pantalone. No digo per dir, ma co sto muso ghe n’ho fatto delle belle.
Clarice. E siete in grado di farne ancora.
Pantalone. Perchè no? Un soldà veterano no recusa battaggia.
Clarice. Oh che caro signor Pantalone!
Pantalone. Qualche volta son caro, e qualche volta son a bon marcà.
Clarice. Io non ho capitali per comprare la vostra grazia.
Pantalone. Podemo contrattar.
Clarice. (Sta a vedere che il vecchietto ci casca). (da sè)
Pantalone. No se pol dir, de sto pan no ghe ne voggio magnar.
Clarice. In verità mi pare impossibile che non siate stato mai innamorato.
Pantalone. Perchè mo ghe par impussibile?
Clarice. Perchè avete un certo non so che di simpatico, di dolce, di manieroso, che mi fa credere diversamente.
Pantalone. Pol esser che sia, perchè fin adesso no averò trova gnente che me daga in tel genio.
Clarice. Siete ancora in tempo di ritrovarlo.
Pantalone. Fina alla morte no se sa la sorte.
Clarice. Che mai vi vorrebbe per contentare il genio del signor Pantalone?
Pantalone. Poche cosse, fia mia.
Clarice. Se foss’io la fortunata che le possedessi...
Pantalone. Ve degneressi de mi?
Clarice. Così voi foste di me contento.
Pantalone. A poco alla volta se giusteremo.
Clarice. (Il merlotto vien nella rete). (da sè)
Pantalone. (No ghe credo una maledetta).(da sè)
Clarice. Ah signor Pantalone!(sospirando)
Pantalone. Ah signora Clarice! (sospirando)
Clarice. Che vuol dire questo sospiro?
Pantalone. Lasso che la lo interpreta ela.
Clarice. Quasi, quasi... mi lusingherei.
Pantalone. Ma! chi va al molin, s’infarina.
Clarice. Ma con una spazzatina si netta.
Pantalone. Co la penetra, no se se spolvera.
Clarice. Vien gente. Ci rivedremo, signor Pantalone.
Pantalone. Se vederemo, e se parleremo.
Clarice. (La biscia beccherà il ciarlatano). (da sè, e parte)
Pantalone. (So el fatto mio. No ti me la ficchi). (da sè, e parte)
SCENA XI.
Flamminia ed Argentina.
Flamminia. Peggior nuova non mi poteva dare di questa.
Argentina. Il signor Fiorindo, di lei fratello, è uomo molto risoluto. Ieri non si sognava di partire di Venezia; ed ora tutto ad un tratto ordina che si facciano li bauli.
Flamminia. E di più non mi vuol dir nemmeno il motivo.
Argentina. Partirà, m’immagino, anche il signor Ottavio.
Flamminia. Non so; è qualche giorno che io non lo vedo.
Argentina. Può essere... sarà così senz’altro. Vorranno far le nozze a Livorno per dar piacere ai parenti.
Flamminia. Io non ho congiunti che mi premano. Sto volentieri a Venezia, e se stesse a me, Livorno non mi rivedrebbe mai più.
Argentina. Le piace dunque stare a Venezia?
Flamminia. Cara Argentina, lo sai ch’io sono figlia d’un Veneziano. Mio fratello ogni anno mi fa fare un viaggetto con lui. Ho veduta in tre anni quasi tutta l’Italia, e non ho trovato un paese che più di questo mi piaccia.
Argentina. Anch’io ho servito in qualche città, e quando ho gustato la libertà di Venezia, ho proposto di non partirvi mai più. Servo un padrone, che per la sua ipocondria è fastidioso un poco, ma soffro volentieri più tosto che cambiar paese.
Flamminia. In fatti per ogni genere di persone trovo essere Venezia una città assai comoda. Qui ciascheduno può vivere a misura del proprio stato, senza impegno di eccedere e di rovinarsi per comparire cogli altri. I passatempi sono comuni a tutti, e può goderne tanto il povero, quanto il ricco. La maschera poi è il più bel comodo di questo mondo.
SCENA XII.
Florindo e dette.
Florindo. Signora sorella, dubito che non vi abbiano fatta la mia ambasciata.
Flamminia. Se intendete parlare della partenza da voi intimatami, me l’hanno detto.
Florindo. Da qui a domani c’è poco. Se non date principio ad unire le vostre robe, voi mi farete arrabbiare al solito.
Argentina. Per far arrabbiare il signor Florindo, non ci vuol molto.
Flamminia. Posso sapere almeno il motivo di questa vostra risoluzione?
Florindo. Ve lo dirò.
Flamminia. Quando me lo direte?
Florindo. Argentina, per ora non abbiamo bisogno di voi; potete andare.
Argentina. Signore, se ha paura ch’io parli, mi fa torto.
Florindo. Non vi è niente che a voi appartenga. Potete andarvene.
Argentina. Se la signora ha bisogno...
Florindo. Non ha bisogno di nulla.
Argentina. (Sia maledetto! Muoio di curiosità). (da sè)
Florindo. Flamminia, andiamo in un’altra camera.
Argentina. Vado, vado. La non si scaldi. Quando non vuol che si senta, vi sarà qualche cosa di contrabbando.
Florindo. Voi siete un’impertinente.
Argentina. Vada, vada a Livorno.
Florindo. Che vorreste voi dire?
Argentina. Vada, vada, signore, prima di essere mandato, (parte)
Florindo. Un’altra ragione per andarmene sarebbe l’impertinenza di colei.
Flamminia. Questa sarebbe una ragione per andarsene da questa casa, non per abbandonare questa città.
Florindo. Il motivo, per cui partire intendo, è molto più interessante.
Flamminia. Son curiosa d’intenderlo.
Florindo. Ottavio non è per voi.
Flamminia. Ottavio non è veneziano.
Florindo. Le liti ch’egli ha, l’obbligheranno a trattenersi qui molto tempo. Egli è un giuocatore violento, che si rovina del tutto. È un uomo ardito, che non rispetta nessuno. È un ingrato, che mi cimenta, e sarebbe per voi un consorte, che vi renderebbe infelice.
Flamminia. E per questo volete voi risolutamente partire?
Florindo. Sì, per troncare con esso lui l’amicizia ed il trattato delle vostre nozze.
Flamminia. Tutto ciò si può fare per altra strada, senza lasciar Venezia.
Florindo. La vostra resistenza mi sollecita ancora più. Voi amate Ottavio, e il vostro amore potrebbe...
Flamminia. No, fratello, ascoltatemi. Se ho aderito alle nozze di Ottavio, non l’ho fatto che per compiacer voi medesimo. Eravate in Livorno due buoni amici. Mi fu proposto da voi; ed io che vi amo, e che vi tengo in luogo di padre, mi sono fatta una legge del piacer vostro. Se ora Ottavio non è più vostro amico, se di me non lo credete voi degno, sta in vostra mano lacerare il contratto, escluderlo dalla nostra conversazione, assicurandovi ch’io lo scancellerò dalla mia memoria.
Florindo. Flamminia, compatitemi, se questa sì umile rassegnazione mi pone in qualche sospetto.
Flamminia. Che potete voi di me sospettare?
Florindo. Che amando violentemente Ottavio, vogliate ottenere dalla indifferenza palliata quello che dubitate di perdere col manifestare l’affetto vostro.
Flamminia. Florindo, voi fate torto alla mia sincerità. Non avete motivo di dubitare di me. Sono sei anni, che avvezzo siete a disporre dell’arbitrio mio.
Florindo. Qual altro rincrescimento potete voi avere di qui partendo, oltre quello di abbandonare un amante?
Flamminia. Credetemi, fratello mio, che più di lui mi dispiacerebbe lasciar Venezia.
Florindo. Scusa ridicola, sorella mia.
Flamminia. Se non vi dico il vero, possa morire.
Florindo. Potrebbe darsi un altro accidente.
Flamminia. E quale?
Florindo. Che foste invaghita di qualche bel Veneziano.
Flamminia. Possibile che di noi donne abbiano sempre gli uomini da pensare sinistramente? Non siamo noi d’altro amore capaci, che di quello alle più volgari comune? D’ogni nostra parola s’ha da dubitare? Ogni nostra passione sarà sospetta? Di tutto, rispetto a noi, s’ha da formare un mistero? Anche la virtù in una donna si vuol far passar per difetto. Fratello mio, se la rassegnazione e il rispetto non vagliono a meritarmi la vostra fede, comandatemi, ed attendete che in avvenire io vi obbedisca con pena, col desiderio di scuotere un giogo, che ormai diviene indiscreto. (parte)
Florindo. Flamminia. Ella parte adirata. Spiacemi disgustarla, perchè non lo merita. Parmi strano ch’ella ami tanto il soggiorno d’una città, non avendo penato mai ad abbandonarne alcun’altra. Venezia per ragione del padre può dirsi nostra patria, egli è vero, ma non credea che una donna giungesse tanto ad amarla. Capisco che mia sorella è assai ragionevole, ed io le fo torto a dubitare della sua virtù. Penserò a qualche altra risoluzione, e se Ottavio ardirà pretendere... Ottavio potrebbe anche cambiar costume. Il tempo mi darà regola, e nelle mie risoluzioni non lascierò di consigliare una donna, che supera tante altre nella virtù. (parte)
SCENA XIII.
Strada.
Brighella, poi Martino.
Brighella. Mi no so dove diavolo dar la testa per impegnar sto anello. I vol troppo de usura. I vol magnar tutto lori; e mi vorria che ghe fusse qualcossa da magnar anca per mi.
Martino. Sior Pantalon voggio che el me la paga. Per causa soa perderò quaranta ducatelli d’arzento?
Brighella. (Anca questo qualche volta el se diletta de tor roba in pegno). (da sè)
Martino. Se no giera quel sior bravazzo della favetta18, sangue de diana, m’averave fatto pagar. El foresto no andava via del casin senza darme o bezzi, o pegno.
Brighella. (Si ben. Vôi provarne anca con lu). (da sè)
Martino. Ma i troverò tutti do. No voggio che i me la fazza portar.
Brighella. Sior Martin, ghe son servitor.
Martino. Bondì sioria. Cossa xe del vostro paron?
Brighella. Sarà do ore che no lo vedo.
Martino. Quando valo a Livorno el vostro paron?
Brighella. Finche dura la lite, bisogna che el staga qua.
Martino. Come falo de bezzi? Ghe ne vien dal so paese?
Brighella. Ghe ne vien, ma el zoga, el li perde, e spesse volte nol ghe n’ha un.
Martino. Ghe ne aspettelo presto?
Brighella. No so dirghe; ma so ben che el ghe n’ha bisogno. Anzi, per dirghela in confidenza, el vorria impegnar un anello per cinquanta zecchini.
Martino. Un anello per cinquanta zecchini? Bisogna che el sia bello.
Brighella. L’è de una piera sola. El val più de dusento.
Martino. Chi lo gh’ha sto anello?
Brighella. Lo gh’ho mi. De mi el se fida. El m’ha confidà el so bisogno, e vado cercando per impegnarlo.
Martino. Se porlo veder sto anello?
Brighella. Perchè no? Anzi, sior Martin, se volessi, me poderessi far vu sto servizio.
Martino. Lassè che lo veda, e po parleremo.
Brighella. Se sa, che non avè19 da perder i vostri utili.
Martino. Lassè che lo veda.
Brighella. Alle cosse oneste ghe stago.
Martino. Mo via, lassèmelo veder.
Brighella. Eccolo qua, ve par che el vala sti bezzi?
Martino. Sì ben, el xe un brillante de fondo.
Brighella. Donca me li dareu sti cinquanta zecchini?
Martino. Mi, compare, no ve darò gnente.
Brighella. Donca...
Martino. Donca diseghe al vostro paron, che col me darà i mi quaranta ducati d’arzente, ghe darò el so anello. (lo mette via)
Brighella. Come! l’anello ve l’ho fidà mi in tele man.
Martino. No xelo del vostro patron?
Brighella. El xe del mio patron; ma per questo...
Martino. Se el lo vol, che el me manda quaranta ducati.
Brighella. Questa no xe la maniera de trattar.
Martino. Amigo, no femo chiaccole.
Brighella. Voleu che ve la diga, sior Martin?
Martino. Cossa me vorressi dir?
Brighella. La xe una baronada.
Martino. Bisognerave che ve respondesse.
Brighella. Rispondeme, se ve basta l’anemo.
Martino. Ve respondo cussì. (gli dà uno schiaffo)
Brighella. Corpo del diavolo! a mi un schiaffo?
Martino. Quella xe la mostra; se tirerò de longo, metterò man al baril.
Brighella. Le man le gh’ho anca mi.
Martino. Se avere ardir gnanca de parlar, quel muso ve lo taggierò in quattro tocchi.
Brighella. Averè da far col patron.
Martino. No gh’ho paura nè de lu, nè de vu, ne de diese della vostra sorte.
Brighella. Prepotenze, baronade, insolenze.
Martino. Via, sier buffon. (mette mano allo stile)
SCENA XIV.
Pantalone e detti.
Pantalone. Com’èla, sier buletto dal stilo? Seu nato per far paura? Doveressi andar in ti campi a spaventar le passere.
Martino. Ve porto respetto, perchè sè vecchio.
Brighella. El mio anello, la mia roba. No se tratta cussì.
Pantalone. Com’èla, compare Martin?
Martino. Ve torno a dir, che col vostro patron me manderà i mi quaranta ducati, ghe darò el so anello.
Pantalone. Un anello de sior Ottavio?
Brighella. Sior sì, el me l’ha cavà dalle man.
Pantalone. E vu gh’averè tanto ardir de tegnir un anello in pegno, quando un omo della mia sorte v’ha dito che sarè pagà?
Martino. Mi no so gnente. Co gh’averò i mi bezzi, darò l’anello.
Pantalone. Sior Ottavio xe un galantomo.
Martino. I mi quaranta ducati.
Pantalone. Mi son un omo d’onor.
Martino. Quaranta ducati.
Pantalone. Vintiquattro ore no xe passae.
Martino. In vintiquattro ore se va a Ferrara.
Pantalone. Quel signor no xe capace de una mala azion.
Martino. I mi quaranta ducati.
Pantalone. I vostri quaranta ducati i xe qua parecchiai. (tira fuori una borsa)
Brighella. Fora l’anello, patron. (a Martino)
Martino. Conteme i mi quaranta ducati.
Pantalone. Tegnì saldo. Quaranta ducati d’arzento i fa tresento e vinti lire de sta moneda. Quattordese zecchini fa tresento e otto. Con dodese lire arente vu sè pagà. (contando)
Martino. Va ben; deme i bezzi.
Pantalone. Fora l’anello.
Martino. Tolè, sior. (lo dà a Pantalone)
Pantalone. Questi xe i vostri bezzi.
Martino. I zecchini xeli de peso?
Pantalone. Vardè se i xe de peso per la marcanzia che gh’ave vendù.
Martino. Ho rischià el mio sangue.
Pantalone. Sè un farabutto.
Martino. No ve bado, perchè sè vecchio. (parte)
SCENA XV.
Pantalone e Brighella.
Pantalone. Tocco de scarcavallo; se son vecchio, ti vederà cossa che son bon da far. T’ho pagà per salvar la reputazion a un galantomo; ma vôi che adesso ti me la paghi a mi.
Brighella. La prego, signor, ghe li ha dadi veramente el mio patron quei denari?
Pantalone. A vu non ho da render sti conti.
Brighella. Se la vol favorirme l’anello, ghe lo porterò al patron.
Pantalone. No, amigo, l’anello ghe lo darò mi.
Brighella. Se se fida de mi el patron, la se pol fidar anca ela.
Pantalone. Mi me fido de tutti; ma sto anello ghe lo voggio dar mi.
Brighella. Capisso tutto. La lo vol tegnir ela in pegno per i quaranta ducati. No la se fida de lu.
Pantalone. No xe vero gnente. Vu parlè mal e de mi, e del vostro paron. Conosso adesso, che el fa mal se el se fida de vu, perchè se sè capace de levarghe la reputazion, molto più sarè capace de custodir malamente la roba soa. Vu altri servitori sè le trombe che infama i paroni. Ve fe scrupolo qualche volta de robar do soldi, e non avè riguardo a infamarli colla vostra lengua. Zente ingrata, che offende o per malizia, o per ignoranza; nemighi del proprio pan, e traditori de chi v’ha fatto del ben.
Brighella. Servitor umilissimo, mio patron. (parte)
SCENA XVI.
Pantalone solo.
Co sto rimprovero che ho fatto a costù, non ho inteso de descreditar tutti i servitori. Ghe ne xe assae de boni, de onorati e fedeli; ma piuttosto ho inteso de inarzentarghe la pillola, strapazzandolo in general. Sto anello che ho recuperà coi mi bezzi, per salvar la reputazion a sior Ottavio, ghe lo darò a elo; ma no voggio perder i mi quaranta ducati. Vôi far servizio, vôi far del ben, ma no vôi passar per minchion. Co sior Martin po la disconeremo. Vôi farghe veder la differenza che passa tra i omeni della so sorte, e i galantomeni come mi. Al dì d’ancuo ghe ne xe tanti che crede de dover esser stimai, perchè i porta el stilo, perchè i sa dir trenta parole in zergo, perchè i la sticca20 con delle dretture, e i sa far paura con delle bulae. Questi no i xe omeni da stimar. Se stima quelli che se sa far portar respetto, se occorre, che no se lassa burlar da nissun, che sa spender ben i so bezzi, che cognosse i furbi, che sa star in ogni conversazion, che i fa el so debito con prudenza, e che xe onorati con tutti. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ V. vol. II, 436, b. È anche termine di giuoco: v. Boerio, Dizion.
- ↑ Berta, tasca, saccoccia.
- ↑ Guibert-Orgeas e Zatta: un.
- ↑ Cedete: v. Boerio, Dizion. cit.
- ↑ Vol. IV, 357, n. a.
- ↑ Goldoni spiega «uomo da niente»: vol. I, 195, n. b.
- ↑ Minacciare.
- ↑ Goldoni spiega disgraziato «parola ingiuriosa»: v. vol. II, 179 e 200.
- ↑ Cattar, ritrovare.
- ↑ Così Pasquali; Pitteri stampa lal, Guibert-Orgeas e Zatta l’al
- ↑ Pien di rane, apprensivo, ammalato immaginario: v. Boerio.
- ↑ Zio.
- ↑ Ed. Pasquali: vien qua.
- ↑ I vovi che sbazzega o sbacega, il cervello che gira, che farnetica: v. Boerio.
- ↑ Antica e famosa osteria veneziana: v. Tassini, Curiosità veneziane, Venezia, 1866, p. 636.
- ↑ Pacchiugo, broda, miscuglio, cosa mal fatta: v. Boerio.
- ↑ Spazzola.
- ↑ «Di pura apparenza»: v. vol. II, 420, n. I.
- ↑ Guibert-Orgeas e Zatta: che vu no avè ecc.
- ↑ Goldoni spiega: «ingegnarsi d’apparire» vol. II, 436, n. b; Boerio: godere, trionfare «con poca spesa».