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Il romanzo della morte II

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I.

Il pranzo volgeva al suo termine, in mezzo alla gioia e alle conversazioni sempre più animate e festose. I convitati, per la maggior parte studenti dell’Università, futuri medici e futuri avvocati, ma più medici che avvocati, avevano naturalmente un buon umore comunicativo, una giocondità espansiva.

Il professor Pisani, un luminare della scienza, soleva riunire così tutti gli anni gli amici più intimi e i migliori suoi allievi alla fine delle vacanze, sul morir dell’autunno, nella sua villa, poco discosta dal Borgo di S. Patrizio nei dintorni di Pavia.

La festa non era mai riuscita come quel[p. 2 modifica]l’anno; i giovani non erano mai stati così amabili; egli stesso non si sentiva da molto tempo la mente così libera da preoccupazioni, il cuore tanto leggero.

Alcuni suoi scolari lo interessavano particolarmente. Un gruppo di giovani eccezionali! Si eran fatti conoscere fin dal primo anno. Peccato che ormai fosse l’ultimo! Presto se ne sarebbero andati quei bravi giovani; andati via per il mondo a portare la scienza e la vita; mentre il povero professore rimaneva inchiodato sulla sua croce. Essi eran come le onde del mare che si rinnovano continuamente e mutano sito, mentre lui era un rudero di quel gran porto universitario.

Fortunatamente egli non persisteva in questo tono di vecchia elegia così poco d’accordo col suo tipo di uomo allegro e positivo.

E poi; non tutti se ne sarebbero andati!....

Uno ritornava intanto: Fausto Lamberti ritornava. [p. 3 modifica]

In fondo tutti sapevano che la piccola festa era tutta in onore di quel ritorno. Ma si taceva discretamente. Il viso pallido e serio di Argìa Pisani, la primogenita del professore, non incoraggiava gli scherzi nè le allusioni. Fausto pure sembrava preoccupato. E gli amici intimi si domandavano sommessamente: — Che cosa pensano? Cosa faranno?... L’amerà essa ancora? Gli perdonerà il lungo abbandono?

Se l’aspetto sereno del professore rispondeva già trionfalmente a cotali dubbi, don Paolo Giudici li mise tutti in tacere con una sola frase.

— Mio nipote è ritornato e non ripartirà più! — esclamò egli in un momento d’espansione, mentre i suoi occhi languidi di vecchio si fermavano con tenerezza su Fausto ed Argìa, abbracciandoli in uno sguardo.

I convitati sorrisero argutamente, e i due giovani diventarono bersaglio di occhiate e bisbigli. [p. 4 modifica]

Per fare un diversivo, Fausto pronunciò un brindisi alla salute dell’esercito rappresentato da Filippo Pisani che sfoggiava da pochi giorni le sue spalline di ufficiale, con grande soddisfazione del padre e sua propria. Fu un hurrà, un grido di gioia.

I brindisi così ben cominciati, sfilarono uno dopo l’altro, in prosa ed in versi.

Don Paolo si fece applaudire con una graziosissima anacreontica, in lode di Argìa.

Finiti i brindisi, il padron di casa invitò i suoi ospiti a passare in un’altra sala, dove fu servito il caffè.

Era questa la sala dei ricevimenti, decorata di un ampio verone per il quale si scendeva nel mezzo della corte, e rappresentava quindi l’entrata d’onore della villa.

L’entrata comune era sul fianco destro e non aveva scalini esterni.

Sebbene fosse vicino il tramonto, una luce sfolgorante entrava nella sala, dal verone aperto [p. 5 modifica]e dalle due larghe finestre a terrazzino che lo fiancheggiavano. Le tappezzerie rosse, i mobili eleganti tutti in legno chiaro come il bel pianoforte a coda che stava nel mezzo della sala, sembravano prender parte alla gaiezza dei convitati.

Il pianoforte sembrava dire: Su allegri! Anche, questa sera vi farò ballare! E i giovani lo guardavano con un sorriso.

Ma finchè il sole splendeva, e il buon pranzo e i vini profumati non erano digeriti, la campagna chiamava fuori i giovani, nell’aria fresca e gagliarda.

Era una fine di ottobre tepente e smagliante.

Amelia, la figliuola minore del Pisani, fu la prima a svignarsela. Argìa con la cugina Carmela Donati, una ragazza in sull’invecchiare, nè brutta nè bella, nè sciocca, nè intelligente, ma abbastanza buona per una ragazza che invecchia, la seguirono subito, [p. 6 modifica]trascinandosi dietro la Bice Chiari una grassona inerte.

Un momento dopo, come attirati da una forza magnetica, tutti i giovani si trovarono presso di loro. La corte, poco fa silenziosa, fu piena di movimento, di voci gaie, di risate giovanili.

— Che bel giorno, Argìa! — mormorò Fausto Lamberti accostandosi un momento alla fanciulla.

E l’accento con cui egli pronunciò questa semplice frase voleva dir tante cose!

Argìa non rispose; un leggero rossore colorò la trasparente bianchezza del suo viso ideale.

— Un bel giorno, sì! — esclamò un giovanotto magro, piccolo, zoppicante dal piede destro, che aveva sentito le parole di Fausto.

— Un bel giorno! — replicò — Se non lo guastasse la previsione dei brutti giorni, noiosi, che ci preparano i professori!

Lamberti si voltò ridendo. [p. 7 modifica]

— Ah! Vittorio, sei sempre allo stesso punto tu.

— Sempre coerente! — sentenziò con burlesca solennità il piccolo zoppo. — Odio la scuola! Detesto l’avvocatura!.. E non muto parere per volger d’anni e mutar d’eventi. Ho un carattero fermo.

Una scoppiettante risata accolse la fiera protesta. Gli studenti di medicina batterono le mani; due o tre futuri avvocati domandarono la parola.

— Bravo! Bene!

— Silenzio! È negata la parola ai mercanti della medesima!

In mezzo al baccano due avvocatini incominciarono una difesa burlesca dell’avvocatura.

— Avresti dovuto fare come me! — diceva Filippo Pisani, il brillante ufficialetto tanto contento di sè medesimo che si portava per esempio. — Io non ho voluto saperne di studi classici e nessuno ha potuto forzarmi, sebbene... [p. 8 modifica]

— Giuochiamo a mosca cieca!.... Giuochiamo a mosca cieca! — gridò in mezzo al chiasso una vocina fresca.

E una figuretta svelta, che non era ancora di donna e non più di bambina, si gettò nei gruppi interrompendo dispute, troncando frasi, persuadendo a tutti che bisognava giuocare, per riscaldarsi, per divertirsi.

— Quando Amelia vuole, non c’è verso di contraddirla!

Tutti cedettero. Il giuoco cominciò e Amelia si lascio bendare gli occhi per dare il buon esempio.

— È sempre una bamboccia — sentenziò l’ufficialetto discorrendo colla sorella maggiore. — Non sei riescita a tirarla su seria come te!

Uno strano sorriso passò sulle labbra coralline e tumidette di Argìa, e le lunghe ciglia dei suoi grandi occhi azzurri si chinarono per velare il lampo corruscante delle pupille.

— È stata sempre così seria la signorina? [p. 9 modifica]domandò Fausto Lamberti a Filippo, guardando la fanciulla con inesprimibile tenerezza.

— Sempre! È stata la nostra provvidenza fin dal giorno in cui abbiamo avuto la disgrazia di perdere la mamma. Sebbene abbia un anno meno di me, l’ho sempre considerata come il vero capo della famiglia. E non solo io, ma anche lui, il tuo professore...

— Basta Filippo!... — supplicò la ragazza posandogli una mano sulla bocca appena ornata da due nascenti battetti.

— Acchiappata! Acchiappata!... Chi sei?... Dà una voce!

— Ah!...

— Argìa! Argìa! Argìa!...

E la birichina si strappo la benda per affrettarsi a legarla sugli occhi della sorella.

— Mi avevi vista!

— Vero niente!... Aspetta che ti lego bene.... Ecco fatto, dammi la mano. [p. 10 modifica]

— Ora sei nel mezzo; aiutati come puoi. Non ti disperare; faranno di tutto perchè tu li acchiappi. Sono galanti... con te!...

Tornò al suo posto saltando. Filippo l’afferrò per un braccio.

— Sei una pazza!...

— E tu sei savio?

Lanciata questa piccola sfida si divincolò e sgusciò via come un serpentello.

— Attenti! ricomincia il giuoco.

E la catena si mise a girare, prima adagio, poi galoppando. Bice Chiari, quella sorniona come la chiamava l’Amelia, aveva l’aria di abbandonarsi con voluttà a quella danza frenetica, stretta fra due studenti che si serravano ai suoi fianchi.

— Allargate la catena!... Così!

Argìa pareva sbalordita. Rimaneva quasi immobile in mezzo al largo circolo, le mani protese dinanzi a sè, il viso fosco.

Era bella, di una bellezza seria e ideale. [p. 11 modifica]La pienezza delle sue forme, che l’abito di panno azzurro-mare copriva pudicamente senza nascondere, pareva superiore ai suoi diciotto anni. Ma la linea generale nulla aveva perduto della primitiva purezza. Nei suoi movimenti era ancora la casta severità e la indefinibile rigidezza che formano il carattere fisico di molte fanciulle.

In mezzo a un profluvio di capelli neri, ondati, sul viso bianco marmoreo, dai lineamenti delicati, dal naso diritto, sottile, il fazzolettino di seta rossa, che Amelia le aveva allacciato sui dolci occhi azzurri, accresceva il fascino della bella figura, come una nota bizzarra di provocante civetteria.

Amelia aveva ragione; più di uno di quei giovani desiderava di essere preso. Un po’ per il piacere di liberare l’Argìa che non aveva l’aria di divertirsi; più ancora per mettersi sul viso quel fazzolettino impregnato del calore e del profumo di lei. [p. 12 modifica]

Ma Amelia vegliava; e con lei vegliavano gli occhi gelosi di Fausto Lamberti.

Il giuoco andava in lungo: la catena girava girava.

I ragazzi dei contadini, aggruppati in un angolo, se la godevano.

Alcuni correvano qua e là per la corte, mischiandosi arditamente ai signori.

Era il tormento del Pisani quella banda di monelli scalzi e scapigliati; ma non poteva liberarsene. La casa di campagna rifabbricata da lui o decorata col nome di villa, sorgeva in mezzo a un immenso cortile erboso, una specie di prato cinto da un muro assai alto che formava un quadrato ad angoli retti. Tre cancelli si aprivano nei tre lati del muro davanti alla casa: uno metteva nello stradale del Borgo; l’altro conduceva ai campi; il terzo nell’orto, e di là a una vigna e a un frutteto.

Dietro la casa, il cortile diventava rustico e terminava con la vecchia cascina, rimasta [p. 13 modifica]tale e quale, abitata dalle famiglie dei contadini addetti al podere.

Da tempo il Pisani pensava ad un’abitazione più appartata per quella gente e ad un riordinamento di tutta la corte; ma quando si metteva a fare i conti, trovava che i danari non gli bastavano, e doveva rassegnarsi a tirare innanzi così. Talvolta egli si sfogava in potenti sgridate, che distribuiva un po’ alla cieca; ma poi si rilassava com’era del suo carattere.

In quel dopo pranzo d’autunno, circondato dai suoi figli e dai suoi scolari prediletti, egli non pensava a queste malinconie.

Pensava piuttosto che Argìa si sarebbe consolata finalmente e il suo visino pallido avrebbe riacquistato lo splendore di una volta.

Egli era rimasto nella sala rossa, col suo amico don Paolo, condannato dalla grama salute ad una infinità di riguardi.

Era ancora un bell’uomo il professor Pisani [p. 14 modifica]chirurgo abilissimo; famoso conquistatore; e s’apprestava risolutamente ad attaccare la cinquantina; certo di domarla.

Senza arricchirlo, la scienza gli dava una discreta agiatezza ed ei se ne accontentava. In generale era un’uomo contento: sopratutto contento di sè.

La sua faccia prospera, dal sorriso leggermente fatuo, dai grandi occhi salienti, lo diceva senza misteri.

Era nato in basso. Suo padre, semplice caposquadra nelle guardie di finanza ai tempi dell’Austria, aveva avuto l’ambizione di farlo studiare; ed egli aveva risposto magnificamente a quell’ambizione. Nel cinquantanove appena dottore, si era messo a curare i feriti; e il sessantasei, lo trovava alla direzione di un ospedale militare.

Nel frattempo aveva sposata un signorina pavese, di buona famiglia, che gli morì presto. [p. 15 modifica]

Gli avversari del professore pretendevano ch’egli l’avesse fatta morire a forza di rimproveri e di spaventi.

Lui invece era convinto di averla adorata; e, siccome rimaneva vedovo, si vantava fedele oltre la tomba.

Don Paolo Giudici, abate e letterato, ricchissimo, settantenne e gaudente, somigliava in fondo dell’anima all’amico suo, sebbene all’esterno sembrasse l’opposto. Piccolino ed esile, mentre l’altro era alto e robusto, Don Paolo conservava, insieme alla giovanilità dell’animo una grande dolcezza di modi e una placidità inalterabile. Era stato un bel prete, un prete galante, e ci teneva ad esserlo, od almeno a sembrarlo ancora.

Nessun elegante sapeva portare l’abito di società con maggior distinzione di quella con cui don Paolo portava la veste talare.

La fisonomia espressiva, gli occhietti vivi, le folte sopracciglia nere e la chioma bianca [p. 16 modifica]abbondante, lunga o ricciuta, gli davano una impronta pittoresca, un non so che di romantico. E romantico ei si vantava per gusti letterari e per sentimenti.

Osservandolo meglio però, ci si accorgeva facilmente che l’intonaco romantico aveva poca consistenza, e lo spirito del settecento con la sua filosofìa apparentemente superficiale e il giocondo egoismo, sgusciava fuori audacemente. Qualche volta traspariva anche il prete, come una di quelle macchie di vecchio unto indelebili su certe stoffe, ma visibili soltanto in un dato punto di luce.

— Siamo stati fortunati! La vostra festicciuola mi è parsa più geniale che mai! Tutto è con noi, la terra ed il cielo!...

Si interruppe sorridendo, e fiutò una presa di tabacco. Poi dandosi una leggera fregatina di mani soggiunse, come parlando a sè stesso:

— Il cielo e l’amore!... [p. 17 modifica] — Ah! Don Paolo, avete ragione di gloriarvene; lo si deve a voi!...

— A me?... Ah! Ah! Bella cosa essere sacerdote d’amore a settantadue anni!... Poichè oramai sono settantadue sapete?...

— Sì... Ma come li portate, don Paolo!

Felice di questo complimento poco sincero che l’autorità dell’uomo di scienza rendeva prezioso, l’abate arrovesciò la testa sulla poltrona e sfregando i suoi riccioli bianchi sulla morbidezza della felpa, continuò a sorridere beatamente, mentre i suoi sguardi si fermavano sui giovani nella corte.

— Come sono belli i nostri due colombi! La vostra Argìa pare una dea.... Ma, posso dirlo senza iattanza, mio nipote è degno di lei. Guardate: non ha punto l’aria di un giovine borghese di questa fine di secolo!

— In verità, don Paolo, mi avete reso un padre felice con la vostra domanda venuta così a proposito. Senza di voi non si [p. 18 modifica]concludeva niente con quelli di Mantova. Argìa si credeva abbandonata... Ha sofferto molto, povera figliola!... Io la incoraggiavo a distrarsi, a dimenticare; ma inutilmente!... Tre partiti mi ha rifiutati, sapete?

L’abate sorrise.

— Ha fatto benissimo, dal momento che amava Fausto...

— Certo, certo! Ma poi, se Fausto sposava la contessina, eravamo serviti!... Tutto a voi dobbiamo, tutto al vostro intervento, ripeto.

— ... E l’amore di Fausto?... E la bellezza di Argìa?... Dove li lasciate, questi grandi fattori?... Guardate se non è divina col fazzolettino rosso che quella birichina di Amelia le ha legato su gli occhi!... Del resto, sapete la mia massima: non si deve mai disperare dei giovani, nè dell’amore!

— In realtà io ho sempre avuto fede nella mia stella.

— Lo credo! Siete sempre stato fortunato. [p. 19 modifica]

— Sempre?... Sempre, è troppo! Ho avuto anch’io le mie delusioni. Tuttavia posso dire che la vita è stata una buona madre per me. Mi ha colpito di rado e mi ha colpito con dolcezza. Perfino il più grande, il solo vero dispiacere della mia vita, la morte di mia moglie, mi è capitato in un momento in cui l’ho sentito meno. Ero a letto con un famoso tifo che per poco non mi ha portato via anche me. Non capii nulla. Non m’avvidi di nulla.

“Poi, quando cominciai a risvegliarmi, le mie forze si trovarono accaparrate da quella profonda sensazione di gaudio fisico che si prova nella convalescenza di certe malattie. Non potevo intender la morte nel momento in cui mi sentivo rinascere alla vita. E allorchè finalmente compresi tutta la grandezza della mia disgrazia, il colpo era passato, lontano...

Tacque di botto, e restò interdetto nella confusione di aver toccato quell’argomento. [p. 20 modifica]

Don Paolo si era rannicchiato in fondo all’ampia poltrona. Il suo viso scarno appariva sconvolto e le piccole pupille agonizzavano in fondo alle occhiaie affossate.

— Ah! morire! — mormorò con un rantolo — Morire... È orribile!

Il medico trasalì. Che bestia! Avere dimenticato che Don Paolo non poteva sostenere l’immagine della morte, e tenergli un discorso simile nell’ora della digestione!

Si morse le labbra, cercando invano un’idea, una parola per distrarre il suo ospite.

Le gaie risate dei giovani lo trassero d’impiccio.

— Benedetta gioventù! — mormorò il prete, riavendosi. — Cari spensierati! Quando avrò quei due colombi innamorati sempre vicini, il brutto incubo non mi tormenterà più!...

Sorrise, e un rossore gli passò tra carne e pelle, come un ultimo guizzo di fiamma morente; ma il sorriso finì in una smorfia e al [p. 21 modifica]fuggittivo colorimento subentrò una mortale pallidezza. I lineamenti affilati si stirarono; le pupille vitree scomparvero nelle orbite; tutto il corpicciolo si ripiegò sul fianco destro, e la gola arsa emise un suono rauco.

— Maledizione! — balbettò il professore battendosi la fronte.

Da lungo tempo egli prevedeva quell’attacco; e in un momento d’irriflessione l’aveva forse provocato.