Il romanzo della fortuna/III
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III.
I signori Firmiani.
La famiglia ha pranzato e sta raccolta nell’ampia sala col pavimento di mattonelle, i muri affrescati in color carniccino e il soffitto diviso da una grossa trave recante da una parte e dall’altro il trofeo di fiori e frutti che faceva le spese di tutti i soffitti al principio del secolo scorso. Tre ampie finestre colle tende di percallo bianco, tre usci di dimensioni più ampie ancora e un largo camino non lasciano molto spazio al quadri che si riducono alle quattro allegorie delle stagioni, di una composizione molto semplice e primitiva, poichè intorno ad un grazioso volto di donna una pelliccia rappresenta l’inverno, una corona di rose la primavera, un fascio di spiche l’estate, un grappolo d’uva l’autunno. In un angolo della sala, sopra una colonnina a spirale, un busto in marmo della scuola di Canova riproduce le sembianze della defunta signora Firmiani ed è ricoperto da un velo. Niente altro come ornamento. Una buona e solida tavola nel mezzo, un armadio di quelli detti cantonali, parecchie sedie e la poltrona della nonna: niente altro come comodità. Ma è tanto simpatica questa sala così semplice! Una vecchia lucerna dal piede di bronzo è stata adattata all’uso del petrolio e illumina discretamente la tavola intorno alla quale stanno seduti la vecchia signora Firmiani, il signor Firmiani vedovo e i suoi due figli Enzo e Mariuccia. Chiarina, che ha già sparecchiata la tavola, rassetta ancora qualche cosa nel cantonale, ritta sulla punta dei piedi per poter arrivare al piano superiore.
— Mi pare che non cresca più quella ragazza, — disse piano il signor Firmiani a sua madre.
— Già, lo temo anch’io, ma sai il proverbio: in botte piccola vino buono? È un tesoro. Non puoi immaginarti quanto valga. Io certo non potrei vivere senza di lei.
— Sì, sì, è molto buona — appoggia il signor Firmiani. La nonna allora soggiunse:
— Chi ha fatto un salto straordinario è il nostro Enzo. Da Natale in qua è diventato un giovinotto. Se potesse inquartarsi un poco...
— Somiglia a sua madre — disse il signor Firmiani additando il busto velato: — esile, pallido, nervoso... e la stessa impressionabilità, la stessa anima sensibile e chiusa.
— Peccato! — esclamò la nonna. — Non si farà strada nel mondo.
Enzo, intanto che discorrevano di lui, leggeva un libro colla fronte raccolta nelle mani per modo che offriva alla luce solamente la parte superiore del capo invasa da una foresta giovanile di capelli castagni; ma questi formavano una massa così ondulata sotto il chiarore della lucerna che Chiarina, avvicinandosi alla tavola, vi tenne per qualche istante fissi gli occhi.
— Mariuccia ha sonno, il viaggio l’ha stancata — riprese la nonna. — Vuoi condurla a letto, Chiarina?
Chiarina, che stava per spiegare il suo lavoro, lo lasciò intatto sulla tavola ed accorse prontamente verso la bimba.
— Mi racconterai la storia delle Tre melarancie quando sarò a letto? — chiese Mariuccia, ponendo la mano nella mano di Chiarina.
— Sei troppo grande adesso — interruppe la nonna sorridendo — hai quasi dieci anni.
Ma la Mariuccia lesse in volto a Chiarina una promessa di acquiescenza al suo desiderio ed uscì saltellando.
Rimasti soli, poichè Enzo sprofondato nella lettura non si accorgeva di nulla, il signor Firmiani e sua madre presero a parlare dei loro affari.
— La campagna si presenta malissimo anche quest’anno — disse la vecchia signora.
— È il quarto! — sospirò il signor Firmiani.
— Aggiungi che non si trovano braccianti se non a prezzi disastrosi.
— Bisognerà rimettere a un altr’anno il tetto nuovo della stalla.
— Vi sono anche le persiane della casa che richiederebbero una verniciatura nuova.
— Ma se si toccano le persiane converrà imbiancare tutta la facciata e ci mettiamo in una spesa.
Vi fu una pausa. Il signor Firmiani si dondolava leggermente sulla sedia colle mani in tasca. Sua madre, adagiata nella poltrona, faceva maglie per i poveri.
— E la casetta del tessitore? — domandò egli a un tratto. — Ne ho parlato con qualcuno che sarebbe disposto a comperarla.
— Povera Chiarina, ne farà una malattia. È tutta la sua vita, quella casetta.
— Comprendo, ma non si può fare diversamente coi debiti lasciati da quel pover’uomo di Gianni. Non parlo del mantenimento di questi due che abbiamo noi; è una carità fiorita della quale non mi pentirò mai, senza dire che Chiarina guadagna oramai il suo pane; ma Giuseppe ha poca voglia di lavorare e convien pure mandargli del denaro quando scrive che è fuori di posto.
— Lo vedi tu a Milano?
— Mai. L’ho invitato tante volte a venire a trovarmi; gli offersi anche di tenerlo a dormire presso di noi, per risparmiargli la spesa dell’alloggio; ma egli ama la sua libertà e parte da un falso amor proprio che gli fa rifiutare sdegnosamente i piccoli aiuti, salvo, s’intende, a pretendere i grandi. Nella mia qualità di tutore mi considera quasi come un nemico e parla del suo avere come se invece di una misera bicocca in tre possedesse da solo chi sa quali tenute. Pensa forse che io lo sfrutto.
— Giovannino fa bene.
— Sì, somiglia a sua sorella. Non sarà difficile metterlo a posto quando avrà compiuto i dodici anni.
— Ha un singolare ingegno pratico questo fanciullo — soggiunse con compiacenza la vecchia signora — ed è così ordinato che alla fine dell’anno scolastico rivende i suoi libri ai compagni che vengono dopo di lui quasi nuovi ancora.
— Sì, sì — completò il signor Firmiani: — il poco che facciamo per questi ragazzi è ben meritato.
Enzo sollevò allora gli occhi dal suo libro:
— Credi tu, babbo, che si riuscirà davvero un qualche giorno a scoprire la navigazione aerea?
— Chi lo sa! Tutto è possibile — rispose con indifferenza il signor Firmiani.
— Io lo credo — disse Enzo, tornando a sprofondarsi nella lettura.
Colla fronte appoggiata sovra una mano, un po’ chino da un lato, egli presentava ora alla luce il suo profilo fine, sotto il quale la bocca piccola e seria si chiudeva in una linea di precoce tristezza. La nonna aveva ragione di temere per l’avvenire di lui. Il mondo reale scompariva sempre davanti al giovane sognatore che viveva una sua vita interna, inetto al commercio de’ suoi simili, poco compreso, poco amato.
Chiarina intanto ritornò dall’aver coricata la piccola Mariuccia, e preso finalmente il suo lavoro, potè sedere accanto alla vecchia signora, di cui era il più caro e più valido sostegno.
La serata trascorse così, placidissima, finchè venne per Chiarina il momento di mettere a letto anche la signora Firmiani. La bella nonna che, seduta, faceva ancora buona figura co’ suoi ricciolini bianchi e lo sguardo vivace, era paralizzata nelle gambe e non poteva camminare se non appoggiata da una parte a Chiarina, dall’altra a un bastoncello. Chiarina la condusse di sopra, la aiutò a svestirsi, compì metodica e tranquilla le faccenduole che ogni sera si rinnovavano e che la trovavano sempre volonterosa e serena. Quante ancora dopo che la signora Firmiani fu coricata! Spegnere tutti i lumi, serrare tutti gli usci, visitare il focolare in cucina per assicurarsi che fosse ben freddo, e poi ancora uno sguardo ai piccoli, a Giovannino, a Mariuccia, e poi sola, sola con Dio che ella pregava tutte le sere un po’ più a lungo del mattino.
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Il giorno di Pasqua fu, quell’anno, di una bellezza straordinaria.
Già fin dal mattino il cielo era così limpido che il signor Firmiani, ritto sulla porta, colle mani in tasca e gli occhi per aria, aveva esclamato: Pare un cielo meridionale! C’erano presenti Enzo e Chiarina, la quale passava per caso con quattro ova nel grembiule, raccolte allora allora. Ella udì la parola meridionale di cui le sfuggì il significato, e vedendo che Enzo approvava con un cenno silenzioso del capo, fu presa da una improvvisa vergogna per la propria ignoranza. Ma non ebbe tempo di coltivare quel pensiero.
C’era gente a pranzo; bisognava prender fuori il servizio di gala, le tovaglie damascate, disporre sui piattini i biscotti che il signor Firmiani aveva portati da Milano. E non voleva mancare alla messa solenne che il signor curato avrebbe cantata in pompa magna con gran seguito di preti.
Aveva anche un abito nuovo da sfoggiare; ma di ciò veramente non si era mai occupata molto e se non fosse stata la signora a regalarglielo ella avrebbe continuato a portare il suo abituccio di lutto, simpatizzando singolarmente colle foggie modeste e coi colori oscuri. Ma l’abito nuovo era lì un po’ rigido nelle sue pieghe intatte, disteso sul letto di Chiarina, e conveniva pure fargli onore. Per la prima volta ella si preoccupò dell’effetto che avrebbe fatto con un leggero batticuore che le suggeriva: Chi sa se starò bene! Molto tempo da guardarsi nello specchio non lo aveva certo, nè un grande specchio. Si diede una occhiata furtiva nello specchietto tondo del canterano e sospirò.
In chiesa arrivò tardi perchè la signora aveva avuto bisogno di lei all’ultimo momento. La famiglia era già tutta raccolta nel banco: il signor Firmiani, Enzo e Mariuccia.
Mariuccia si scostò per farle posto ed Enzo le diede una occhiata di traverso; ella immaginò subito che fosse per lo scricchiolìo delle sue scarpe; già dagli altri banchi qualcuno si era voltato a guardarla per quel rumore che faceva camminando, onde arrossì vivamente e avrebbe voluto che la messa non terminasse mai per non muoversi dall’angolo del banco dove si era inginocchiata umilmente. Ma quando al Ite missa est Enzo uscì in fretta senza aspettare la chiusura della cerimonia si sentì sollevata da un gran peso e non le importò più nulla che le sue scarpe scricchiolassero.
C’era stato anche Giovannino da rigovernare per quella grande solennità della Pasqua. Il ragazzo fin dal mattino era scomparso con un ombrello rosso appoggiato alla spalla e sull’ombrello un involto che gli ballava allegramente giù per la schiena.
Egli aveva avuto un’idea e da parecchio tempo si era preparato a metterla in azione. Una volta la Mariuccia aveva riportato dalla fiera una gabbietta da grilli pagata due soldi e il piccolo speculatore pensò subito che, tagliando dei vimini, col permesso del signor Firmiani, egli sarebbe ben stato capace di fabbricarne una simile e di venderla a sua volta. La prima non riuscì, la seconda fu troppo stretta, ma infine una bella gabbietta da grilli in tutto simile a quella di Mariuccia coronò i suoi sforzi e quello non fu che il principio. Per il giorno di Pasqua dieci gabbiette erano pronte: le pose dentro a un fazzoletto e fu quello l’involto che appeso all’ombrello gli ciondolava sulla schiena mentre avviavasi al paese vicino dove c’era sagra. Nessuno di casa lo vide sulla piazza col suo ombrello aperto e capovolto che gli serviva da bottega; ma quando ritornò l’involto era floscio e nove soldi tintinnivano giocondamente nella sua tasca. Egli aveva venduto a stento la prima gabbietta per due soldi, ma, con rapida intuizione, giudicando che il prezzo era troppo alto per quel pubblico, lo ribassò subito della metà e ne vendette sette altre.
Chiarina ascoltò quel racconto commossa per l’ingegnosità del suo fratellino. Il fatto propalato fece ridere tutti, tranne Giovannino, il quale pensava già che dando un po’ di colore ai vimini avrebbe potuto introdurre una grande varietà nelle gabbiette e con tale trovata raggiungere un’altra volta la somma di due soldi ciascuna.
Magnifico fu il pranzo, durato dalle tre alle cinque. Vi assistevano il signor curato, il dottore e due invitati giunti da Milano. Una torta di mandorle, alla quale da due giorni avevano lavorato un po’ tutti e Chiarina particolarmente sforbiciando un foglio di carta velina per metterlo sotto, coronò degnamente la mensa e venne generosamente inaffiata da un dolce vino di malvasia servito in calici lunghi del più leggiadro effetto. A fin di tavola l’allegria era generale e in mezzo al frastuono dei piatti, delle posate, delle chiacchiere, delle risa, le occupazioni di Chiariva erano andate crescendo, poichè gravava su lei tutto il peso della direzione, oltre alle piccole delicate incombenze di ritirare le maioliche fine, di contare l’argenteria e di servire il caffè.
Non fu che molto tardi, quando nessuno aveva più bisogno di lei, che Chiarina potè riprendersi. Era il premio più ambito delle sue giornate di lavoro. L’operosità non era tanto per lei un debito verso i padroni quanto un dovere verso sè stessa. È per questo che i suoi riposi riuscivano infinitamente dolci e nulla le tornava più caro del sedere al tramonto, colle mani sotto il grembiule e gli occhi un po’ chiusi, per gustare meglio le visioni interne. Ella ripeteva allora il motto di sua madre: «Faccio la signora per un’ora».
Mai però i tramonti del suo paese le erano sembrati belli come il tramonto di quella lieta Pasqua. L’aria era tiepida. Stando sulla porta della Villa Firmiani vedeva la sua casetta chiusa colla sfilata dei pioppi davanti e dal poggio le sue glicini le inviavano ondate di profumi: sua madre, suo padre, la sua casetta, le sue glicini... fino a quando sue?...
Il malinconico pensiero non si sofferma stavolta: passa ratto e Chiarina è maravigliata di trovarsi tanta giocondità nel cuore. Sì, Chiarina è lieta, lieta come non mai. Ha sedici anni, è un giorno di primavera, ha lavorato, ora riposa; perchè non sarebbe lieta?
Ma Chiarina canta e Chiarina non aveva mai cantato. È un suono flebile senza parole quello che esce dalle sue labbra, come se non avendo nessuno vicino a cui parlare sentisse il bisogno di mandar fuori la voce ad ogni costo. E ride anche a un tratto, così senza sapere il perchè, con una risatina breve che somiglia a un frullo d’ali.
— Chiarina! — chiama una voce giovanilmente aspra che ella riconosce subito e che le fa salire alla fronte un calore di fiamma — la nonna domanda se ti sei ricordata di andare a prendere la sua acqua.
— Oh! mio Dio, no.
— Non turbarti, ecco la bottiglia.
— Oh! Signor Enzo!
C’era fuori del paese una fontana d’acqua particolarmente salutare e freschissima che la signora Firmiani era solita a bere durante la notte e che Chiarina le attingeva tutte le sere. Per rimediare subito alla dimenticanza prese vivacemente la bottiglia che il signorino le tendeva e varcò la porta.
— Aspettami — disse lui — quando ritorni sarà buio e cogli ubbriachi della Sagra la nonna non vuole che ti metta sola per le strade.
S’avviarono. Chiarina davanti con un passo di farfalla che cammina per la prima volta, felice di essersi tolta gli stivaletti scricchiolanti del mattino; Enzo tagliando l’aria a qualche passo di distanza con una verghetta di salice. Non dissero una sola parola in tutto il tragitto e non accadde nulla di particolare, eppure parve quello a Chiarina un tragitto meraviglioso.
Alla fontana, poichè erano andati in molti quel giorno ad attingere, trovarono le pietre bagnate, tanto che si scivolava solo a mettervi il piede.
— Dà a me la bottiglia — disse Enzo.
— No no no — soggiunse Chiarina precipitando l’uno sull’altro i monosillabi — non permetterò mai. Si bagnerebbe.
— E tu non ti bagni?
— È un’altra cosa. Io sono abituata.
Ma tremava tanto ed era visibilmente così poco in equilibrio sulle pietre viscide che ad un certo momento Enzo le prese il braccio perchè non cadesse; nè ella seppe poi mai in qual modo la bottiglia riuscisse piena.
Nel ritorno vi erano certamente molte lucciole nell’erba, poichè la notte era caduta tiepida e molle; ma Chiarina vedeva lucciole dappertutto e fu un miracolo se tenne la bottiglia ritta.
Prima di entrare in casa ella si voltò tutta rispettosa e grata mormorando:
— Grazie, signor Enzo!
Ma il giovinetto l’aveva già sorpassata: la sua ombra sottile si disegnò rapida per un istante sotto il fanale e sparve senza udire il saluto di Chiarina.