Il romanzo della fortuna/II
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II.
Quel che dicono i pioppi.
Sono passati quattro anni. È un mattino del principio di aprile e nella Villa dei signori Firmiani le tende di percallo bianco si gonfiano al vento verso il prato tutto fiorito di margheritine. I due pioppi della casa del tessitore si agitano pur essi, poveri ancora di foglie ma impazienti di vita e tra i pioppi e le tende corrono ondate di profumi primaverili sotto un cielo terso di cristallo.
Chiarina schiude adagio adagio la porta della Villa ed esce verso la sua casetta.
Ella abita ora coi signori Firmiani che le vogliono bene e la trattano con molta delicatezza avendo riguardo alla sua condizione di orfana. Tengono anche Giovannino che è tanto buono, tanto bravo, e lo terranno finchè abbia finito le classi e scelto un mestiere, dopo di che andrà a raggiungere, se vorrà, Giuseppe a Milano.
La famiglia Firmiani si compone della vecchia nonna, la quale, già assalita da un attacco di paralisi, è mezzo inferma e non abbandona mai la villa e di suo figlio, vedovo con due fanciulli. Costoro alternano il soggiorno tra la città e la campagna; oltre la stagione estiva e l’autunnale vengono fuori a passare colla nonna le feste di Natale, le feste di Pasqua e quant’altre mai se ne presenta entro l’anno. È appunto per le feste di Pasqua che sono attesi ora e che Chiarina ha lavorato fin dall’alba a ripulire le sale ed a ripassare l’argenteria movendosi lesta e silenziosa colla sua figurina d’ombra sempre vestita di scuro.
Ed ecco che ora esce un momento per andare a vedere la sua casa. È una visita che fa tutti i giorni, come ad un santuario, col cuore grosso, perchè sulla porta della casa amata dondola il cartello di vendita....
Fu un sagrificio immenso venire a tale conclusione. Chiarina pianse tutte le lagrime che ancora le rimenevano (o che credeva le rimanessero), ma le parve doveroso vendere la piccola proprietà, poichè i signori Firmiani anticipavano le spese di mantenimento ai tre orfanelli finchè fossero in condizione di guadagnare essi stessi.
Già Chiarina si rendeva utile presso i suoi benefattori, ma Giovannino aveva bisogno di tutto e Giuseppe da Milano, ove cambiava mestiere ogni settimana, chiedeva denaro sempre.
Va dunque Chiarina col suo passo rapido e leggero attraverso il prato fino al dolce nido dove è nata. Le quattro finestre sono chiuse e sulla porta, anche serrata, dondola il cartello. Chiarina respira. Ogni giorno ella teme di non vederlo più quel cartello e ritrovandolo si sente alleggerita da un gran peso. La casetta non è venduta, è ancora sua, è là! È là, bianca e piccina in mezzo ai due pioppi, col suo tetto così vermiglio, colla loggetta aerea, dove la glicine già dispiega un velo di ametiste e dove le gemme dei garofani si tendono al tepore della stagione. Quante rondini per l’aria! Sono appena arrivate e girano, girano, girano a ritrovare i nidi.... beate, i nidi antichi.
Chiarina leva di tasca una chiave ed apre la porta. La cucina si presenta subito linda e pulita col poco rame ben terso, coi piatti fiorati posti in bell’ordine sulla credenza. Oh! come silenziosa ora la piccola cucina risuonante un tempo delle grida dei fanciulli! Come vuoto e triste il focolare dove la mamma soleva accendere così allegre fiammate! Chiarina sospira e si affaccia alla soglia della seconda stanza dove giacciono inoperosi i telai, anche più tristi, anche più vuoti colle loro braccia stecchite che mai più si agiteranno nella vita. Sale poi al piano superiore e spalanca la finestra per dar aria alla camera dei suoi genitori, la più bella, quella che dà sulla loggia: e qui si ferma.
Un’onda di tenerezza le gonfia il petto, le fa tremare la gola davanti al talamo dei suoi genitori. Morti entrambi ancora giovani, e che si volevano tanto bene! La culla dove avevano dormito successivamente i tre figliuoli, prima lei, poi Giuseppe, ultimo Giovannino, appare in un canto, vuota anch’essa, immobile, e Chiarina pensa quante volte premendone l’altalena col piede la madre vi aveva addormentato i bimbi accompagnando il movimento di ondulazione con un canto leggero. L’aveva dinanzi agli occhi, la cara madre, come fosse ancora presente, collo sguardo pietoso delle sue pupille brune, colle piccole mani operose eppure tranquille, sempre in moto e mai agitate.
Chiarina si avvicina al cassettone e ne tira le maniglie. Ecco le belle camicie collo scollo a smerli, i bei fazzoletti coll’orlo traforato, il velo nero di sua madre. Li tocca, li accarezza e si sente spuntare le lagrime dietro il ciglio. Solleva il coperchio di una scatola e guarda la collana di granatine col fermaglio d’oro arrotondata intorno all’anello nuziale. Povera mamma! La metteva, questa collana, nelle occasioni solenni; a Pasqua od a Sant’Anna che era la patrona del villaggio: e come stava bene quando, terminate le faccenduole domestiche, sedeva, al tramonto, sotto i pioppi davanti alla casa! «Faccio la signora per un’ora» — diceva sorridendo.
E suo padre! Con quanta tenerezza guardava la bella sposa! Passava le ore di ozio sempre accanto a lei, fedele ed amante come ai primi giorni della loro unione. Non era voce generale che in tutto il paese non si sarebbe trovata una coppia meglio assortita? una famigliuola più felice? Per questo erano morti.
Con uno scoppio di pianto Chiarina esce sulla loggia lasciandosi cadere contro il parapetto, presso al tronco della glicine che abbraccia e stringe come persona viva, appoggiando la guancia sui teneri grappoli che sembrano ricambiarle la carezza innondandola di freschi profumi. Tutto lì intorno è per lei come persona viva. Viva la glicine, vivo il garofano, vivo il piccolo sgabello di legno oramai consunto sul quale ella sedeva bambina ad aspettare le formiche che uscivano di sotto ai vasi. Ma i pioppi, sopratutto i pioppi, i cari, vecchi, indimenticabili amici, come la guardano, come le parlano!...
Essi non ignorano nulla. Pronubi al mistero della sua nascita conobbero essi lo svolgersi del tenero amore, poichè dentro le loro fronde vanirono tante dolci parole, tanti progetti d’avvenire. Essi, guardiani della casa, videro entrare le culle infioccate di bianco, videro uscire le bare coperte di nero. Colle loro radici salde al suolo, coi loro rami ogni anno rinnovati e sempre eretti, colle loro foglie palpitanti a guisa d’ali non ridicevano essi l’eterna vicenda dell’uomo confitto alla terra e sorgente per mille aspirazioni, per mille ansie al cielo?
Un fascino straordinario trova Chiarina nell’argenteo tremolio delle giovani foglie. Il suo sguardo vi si perde, vi si tuffa come in un mare; una dolcezza grande la invade penetrandola di speranze indecise, ignote quanto è ignoto il fiotto di sangue che rinnova il palpito del cuore, eppure come esso calde di vitali umori.
Fitto mistero è per lei il futuro, ma lo guarda impavida, attraverso la calma che spandono intorno gli alberi amati, sentendo come essi sentono le forze della giovinezza inturgidirle le vene e zampillarle in fondo al cuore con un getto di polla ristoratrice.
Dovunque Chiarina tenda le braccia, nell’aria, nei prati digradanti, nell’orizzonte lontano, ella ritroverà i suoi morti. Il suo amore saprà trattenerli — realtà divina dell’anima — in quei luoghi dove i loro corpi passarono.
Così non pensa ma intuisce Chiarina nella grande luminosità del suo cuore semplice e per questo dono di grazia si conforta sul posto istesso del suo dolore. Un sentimento di dignità, una coscienza ardente e pura la sostengono. Nel fragile involucro delle sue membra sorge e si fa d’ora in ora più potente la visione del suo essere interiore urgente a guisa di fiamma compressa. Non sa ancora che cosa farà, ma sa che non farà mai nulla di male. Il male le appare confusamente con volto di nemico oscuro e laido: è d’altronde così lontano che non lo teme e non ne prova la benchè menoma curiosità.
Chiarina riporta lo sguardo sui pioppi. Essi rifulgono ora nel pieno meriggio, più che mai argentei, di un argento più caldo e più colorito sotto i raggi del sole che li investe. Non hanno ombra le loro foglie perchè non hanno posa. Da ogni parte la luce le accarezza ed esse vibrano, ardono, cantano il loro inno di bellezza immortale che i secoli hanno consacrata, l’inno sublime e profondo che scende come una benedizione sul capo della fanciulla.
Ella indugia ancora a raccattare i corimbi della glicine caduti al suolo, a guardare le formiche che vanno e vengono allo stesso posto dove andavano e venivano quando era bambina. Un incanto la avvince per cui le sembra di non potersi muovere dalla loggia; ma oltre il prato, verso il villaggio, le appare la casa dei signori Firmiani che è pure tanta parte del suo paesaggio nativo e si affretta a rinchiudere la finestra, sollecita verso i suoi doveri.
Sulla porta si ferma a rimettere a posto il cartello che il vento aveva girato dall’altra parte. Una voce squillante le grida dietro: «La vendi proprio la tua casa...?» Chiarina si volta e vede Virginia ferma nel mezzo della strada con una gonnella rossa fiammante che il vento agita in tutti i sensi.
— Per forza, cosa vuoi che faccia? Giuseppe non mi lascia tregua, cerca sempre la sua parte. E i Firmiani fanno già tanto per noi!
— Anch’io abbandono il Vitello bianco. Sono stanca di servire.
— La padrona è buona però.
— Ma è padrona. Mi secca.
— Io amo la signora Firmiani.
Virginia crollò le spalle con atto sprezzante. Dopo una pausa soggiunse, abbassando con vezzo civettuolo quei suoi grandi occhi dove lucevano tutte le cupidigie.
— Lasciare il letto a mattino appena fatto per accendere il fuoco, portare piatti in giro e lavarli e tornare a portarli in giro per lavarli ancora, così, fino a sera, tutto l’anno, capirai che non è un divertimento. E Virginia qua! E Virginia là! E guai se rido e scherzo cogli avventori... Auff!
— Starai a casa allora?
— Peggio. Mia madre mi appioppa i miei sette fratelli da curare, imboccare, vestire, ripulire... E poi, figurati, non vuole che mi faccia i ricci.
Ebbe un’altra pausa. Sollevò gli occhioni scintillanti, rise e disse brevemente con accento secco:
— Vado a fare l’operaia.
— Dove?
— A Milano.
— Operaia di che?
— Non so ancora e non me ne importa. Qualunque.
Come una vaga sensazione di disgusto apparve sul volto ingenuo di Chiarina. Virginia replicò:
— È bello, sai, fare l’operaia! Almeno, terminate le ore di lavoro, si è liberi Si esce tutti insieme, si chiacchiera, ci si diverte.... si fa all’amore. Oh! oh! diventi rossa? È bello anche a fare all’amore, sai?
Chiarina non l’ode più. Corre a traverso il prato inseguita dal vento che le reca ancora il fruscio dei pioppi: Chiarina! Chiarina! Sono essi che la salutano con un’ultima carezza. Quando è giunta presso alla Villa si volta indietro a guardare. In lontananza bianchi e lucenti, colla punta d’oro che il sole accende sulle loro cime, i pioppi le appaiono quali alti ceri accompagnanti una preghiera. Chiarina! Chiarina! È il suo nome che portano in alto ed ella vola rotta come il vento, lieve come le foglie, ardente come un raggio.
Nel cortile della Villa una carrozza è ferma e un giovinetto in piedi presso al cavallo gli liscia la groppa con una mano, mentre coll’altra gli dà un pezzettino di zucchero. Chiarina si arresta di botto.
— Ebbene, Chiarina, non mi riconosci?
— Oh! signor Enzo!
— Di’ il vero che non mi hai riconosciuto.
— Proprio.
— E perché?
Chiarina non risponde. Il perchè non lo sa nemmeno lei, ma trema, presa da una commozione singolare. Dice invece.
— Sono già arrivati?
— Sì.
— Li aspettavamo più tardi.
— Abbiamo fatto in tempo a prendere la prima corsa.
— E Mariuccia?
— È là dalla nonna col babbo.
Chiarina entra in casa senza aggiungere altro, ma il cuore le batte a martello.